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Appartenenze precarie. Intervista a Enrico Gargiulo

A cura di Eleonora Sodini, redazione Radio Melting Pot

D. Nei tuoi lavori ti sei molto soffermato su come il concetto di integrazione (civic integration) sia penetrato nel quadro delle politiche migratorie italiane dalla legge Turco-Napolitano in poi, come questo concetto sia stato interpretato negli anni e che funzione continui a svolgere, creando sia nel diritto e sia nel senso comune un sistema legislativo e valoriale con il quale dividere e gerarchizzare il migrante meritevole da quello non meritevole. Come interpreti il dibattito che si è sviluppato sul terreno della regolarizzazione?

R. Sulla questione dell’integrazione, e in particolare della civic integration, il discorso da fare è piuttosto lungo a livello storico, e quindi cercherò di sintetizzarlo. L’integrazione è entrata nelle politiche migratorie e nel quadro normativo italiano alla fine degli anni Novanta, con la legge Turco-Napolitano. Inizialmente era concepita in termini di “diritto”: lo straniero – ossia la persona proveniente da un paese estero rispetto all’Italia – era titolare di un insieme di diritti che ne favorissero integrazione. Questa categoria era intesa in senso materiale e non soltanto culturale: riguardava perciò anche questioni legate all’accesso a benefici e servizi. Nonostante tutti i suoi limiti – l’introduzione dei CPT, giusto per segnalare il più evidente –, la Turco-Napolitano si basava sull’idea che l’integrazione fosse un diritto e non un dovere.

Con il tempo il discorso si è rovesciato: l’adesione dell’Italia al modello della civic integration ha significato il passaggio dal diritto al dovere di integrarsi. Questo passaggio è stato favorito da governi sia di centro-destra sia di centro-sinistra: i primi segnali li abbiamo avuti nel periodo 2006-2008, quando Amato ha lanciato la Carta dei Valori, della Cittadinanza e dell’Integrazione, si è compiuto con Maroni, che ha introdotto l’Accordo d’Integrazione, e si è fatto ancora più esplicito e completo con Minniti, il quale ha sdoganato una volta per tutte la retorica del lavoro volontario come strumento di integrazione per profughi e richiedenti asilo (categorie, peraltro, che erano e rimangono escluse dall’Accordo d’Integrazione).

L’idea alla base della civic integration è appunto la seguente: chi vuole protrarre il suo soggiorno in Italia deve dimostrare l’avvenuta integrazione. Questa dimostrazione passa attraverso vari elementi: apprendere la lingua e la (presunta) cultura civica italiana, dimostrando così di aver completato un percorso di inclusione. La civic integration legittima un’idea di gerarchizzazione e di separazione tra migranti meritevoli e non. Il cammino dell’idea di integrazione si intreccia perciò con quello compiuto dalle politiche sociali a partire dall’inizio dell’età moderna, al cui centro si trova appunto l’idea di meritevolezza, e con le ultime tendenze del welfare state, incentrate sulla categoria di “attivazione”: il lavoro diventa un tema centrale perché attraverso la partecipazione ad attività lavorative gratuite si dimostra di essersi integrati. Questa è la novità principale apportata da Minniti al tema della civic integration.

Il modo in cui, attualmente, viene impostato il discorso sulla regolarizzazione dei migranti non fa che confermare una tendenza già in atto: non tutte le persone sono regolarizzabili in quanto non è la semplice presenza nel territorio italiano, ma sono piuttosto alcune caratteristiche specifiche, a renderle meritevoli di essere regolarizzate. Quindi, la selettività e la meritevolezza, in modo particolare in questa fase, continuano a essere considerate categorie strategiche da parte di chi disegna le politiche.

D. Durante l’emergenza sanitaria COVID-19 abbiamo avuto la riprova che la residenza è effettivamente una porta per esercitare una molteplicità di diritti in quanto molte persone straniere si sono viste negare l’accesso al bonus alimentare in quanto prive di iscrizione anagrafica. All’interno del tuo ultimo libro “Appartenenze precarie”, approfondisci il tema della regolazione dei processi di inclusione ed esclusione da una collettività (membership) utilizzando come punto di osservazione proprio la residenza. Ci puoi spiegare i motivi di questa scelta e gli argomenti principali del libro?

R. La residenza, storicamente, è la porta d’accesso burocratica all’esercizio effettivo di numerosi diritti, e riveste quindi una funzione strategica nel contesto italiano. L’emergenza sanitaria COVID-19 non ha fatto che rendere ancora più evidente questo aspetto: molte persone straniere sono state escluse da diversi benefici in quanto prive di iscrizione anagrafica. Un tipo di esclusione del genere si verificava prima e continua a verificarsi adesso, in una situazione emergenziale. Anche in un contesto “non ordinario”, dunque, la logica dell’inclusione non è basata sull’idea che chiunque sia presente nel territorio e/o abbia un particolare bisogno ha diritto a qualcosa, ma sul principio secondo cui soltanto chi ci si trova in una posizione qualificata può avere accesso a benefici e prestazioni.

L’aspetto più drammatico della faccenda è dato dal fatto che, per come è disegnato l’ordinamento italiano, la residenza dovrebbe coincidere con il riconoscimento della presenza sul territorio per tutte le persone che sono in Italia in maniera legale: in teoria, tutti gli stranieri legalmente presenti, tutti i cittadini europei che soddisfano alcuni requisiti minimi e tutti i cittadini italiani che vivono stabilmente nella penisola hanno il diritto all’iscrizione anagrafica. Di fatto, però, questo riconoscimento viene spesso a mancare.

La questione centrale, sebbene poco dibattuta, è che la residenza ha la funzione di “coprire in senso amministrativo” la maggior parte delle persone presenti sul territorio perché nasce come dispositivo di controllo e non come strumento di accesso ai diritti. Svolge quindi una funzione di monitoraggio statistico-amministrativo, e in parte anche securitario, dello spazio statale. Questa funzione, negli ultimi anni, è stata distorta. Potremmo dire per fortuna, sul piano politico. Purtroppo, però non è così: le ragioni che hanno portato all’inversione degli obiettivi anagrafici non sono legate al desiderio di scardinare un dispositivo di controllo e monitoraggio, ma alla volontà di impedire l’accesso ai diritti.

La strategia più efficace per ottenere questo risultato, praticata da numerose amministrazioni locali, è infatti negare la residenza. In sostanza, i due usi dell’anagrafe – uno proprio e l’altro improprio – entrano in conflitto: dato che il monitoraggio è incompatibile con la selezione, molte persone, per effetto della volontà manifestata dai comuni di scegliere chi ha accesso ai benefici e chi no, si trovano a essere escluse dalla residenza.
Il libro che ho pubblicato da poco – Appartenenze precarie – si incentra proprio sulle tensioni interne allo strumento anagrafico, evidenziandone la natura di dispositivo securitario e, al contempo, di canale di accesso ai diritti, e analizza i modi in cui le due funzioni dell’anagrafe entrano in contraddizione. Pone quindi alcune questioni – spero interessanti sul piano politico – relative a cosa fare in futuro di questo strumento e a come rivendicare in maniera critica il diritto alla residenza.

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Intervista ad Enrico Gargiulo, professore associato di Sociologia presso l’Università degli Studi di Bologna

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Questa nuova stagione 2024/2025 prevede la realizzazione di 8 episodi.
La prima call pubblica, che ha avuto come obiettivo quello di promuovere un protagonismo diretto delle persone coinvolte nei processi migratori, si è svolta nel dicembre del 2023 ed ha formato la redazione del nuovo progetto.

 

Il progetto è realizzato con i Fondi dell'Otto per Mille della Chiesa Valdese.

Eleonora Sodini

Studio sociologia presso l'Università Ca' Foscari e sono attivista presso il Laboratorio occupato Morion di Venezia. Mi occupo di immigrazione.