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Appesi a quel “forse”

Le prime fasi di accoglienza dopo il trasferimento dall'hotspot dei richiedenti asilo

Foto tratta da migranti.valigiablu.it

Febbraio 2017, in uno dei più grandi centri di “accoglienza” di una piccola città del Nord Italia la voce inizia a girare in serata: i vertici dell’ente gestore comunicano al referente di struttura di liberare al più presto 25 posti. Sarebbe di lì a poco arrivato un contingente di 25 persone, direttamente dalla Sicilia, destinate per quota governativa a quella località.
In realtà era già successo, per la prima volta, alcuni mesi prima. Anzi, alcuni mesi prima la telefonata era giunta la sera stessa: entro l’indomani mattina 25 posti letto sarebbero dovuti risultare liberi. Si sarebbe dovuto predisporre il trasferimento in altra struttura di 25 persone, prese a caso tra un gruppo di 100 uomini che da nove mesi avevano imparato a convivere, in modo sorprendentemente pacifico e solidale, prima per le strade attendendo l’ingresso in struttura, poi tutti insieme in un capannone industriale adattato a centro di “accoglienza” per profughi.
Non era stato facile allora, e non sarebbe stato facile nemmeno questa volta. Eppure il buon senso avrebbe prevalso, e lo spirito di ribellione si sarebbe mostrato privo di senso: si trattava in fondo di trasferimento a struttura simile, nella stessa piccola città.
Grandi abbracci, foto d’arrivederci e via. Tutto è predisposto: 25 posti letto e 25 armadietti sono stati liberati dalle 8 di mattina. 25 kit di prima accoglienza, contenenti generi per l’igiene personale, lenzuola e poco altro, sono stati allestiti per essere distribuiti ai nuovi arrivati. Due settimane prima queste persone erano in Libia, alcuni mesi prima passavano per Agadez. Appesi a quel “forse” che li avrebbe visti sbarcare in Sicilia stremati e a piedi scalzi, e caricati su di un pullman il fatidico giorno. Destinazione: un ex capannone industriale di una cittadina del Nord, dove una task force di operatori e volontari si riunisce puntuale e operativa, in attesa del loro arrivo, previsto per mezzogiorno.

Ore 12.37: arriva il pullman da Trapani, scortato da un’auto della polizia. Un agente scende e si apposta accanto al mezzo, tenendone d’occhio l’uscita centrale (l’unica aperta) e i dintorni. I profughi non scendono ancora.
All’interno della struttura di “accoglienza” si delimita un percorso che porterà i nuovi arrivati in una sala con panche e tavoli, per le pratiche di compilazione dei primi moduli. Essi non sarebbero entrati attraverso l’ingresso principale del centro, bensì dalla porta sul retro, e sarebbero direttamente saliti al secondo piano della struttura, nella sala normalmente adibita a scuola di lingua per gli ospiti. La prassi prevede un isolamento di tipo igienico sanitario delle persone appena giunte, con relativo utilizzo di guanti e mascherina da parte degli operatori che li avvicinano, fino al momento della visita da parte di un medico che li dichiarerà idonei alla vita in comunità.
Le “valigie” dei profughi, cioè 25 borse in plastica intrecciata dai colori variopinti, vengono prelevate dal retro del pullman e portate nella stessa sala dagli ospiti del centro che si prestano in aiuto. Ogni borsa ha un foglio spillato sopra, con un nome scritto a mano e un numero stampato.

Ore 12.42: il “percorso di sicurezza” è tracciato, nessuno disturba l’uscita dei nuovi arrivati. Appesi ai loro “forse” escono uno ad uno i primi ragazzi dal pullman. Tutti indossano la stessa tuta da ginnastica sintetica della stessa marca e un giaccone invernale sportivo, medesima marca anche quello. Alcuni indossano ciabatte di gomma, altri scarpe di stoffa leggere, di quelle a buon prezzo.
Tutti hanno in mano una bustina di plastica con la loro documentazione più importante e, in bella vista, stampato su un foglietto che misurerà 7 cm per 10, il numero che li contrassegna, e che corrisponde al loro nominativo e data di nascita, riportati su una lista che viene distribuita alla task force locale.
La lista, scritta dalla questura di Trapani – ufficio immigrazione c/o Hot Spot di Milo (TP), riporta la data del trasferimento e la località di destinazione. Poi inizia l’elenco dei 25 ragazzi, identificati per numero di protocollo, numero identificativo (che corrisponde al grande numero che essi hanno in bella vista), cognome, nome, data di nascita, sesso, nazionalità, data di sbarco, località di sbarco.
Le tre ultime voci dicono che i 25 ragazzi sono nati in Africa occidentale, e sono sbarcati tutti insieme a Trapani nella stessa data. Probabilmente stesso barcone, stesso “forse”, che come un sottile e forte filo di seta per fortuna ha retto.
A tutti i ragazzi viene offerto un bicchiere di acqua fresca e quindi si fa un appello secondo la lista, chiamando ogni persona per fotografarla in primo piano da un operatore, viso serio contro un muro bianco.
Poi inizia la distribuzione disordinata dei tre moduli da compilare a mano: un modulo della questura locale per la raccolta dei dati personali, una dichiarazione di indigenza per l’ottenimento del codice sanitario STP (cioè quello per Stranieri Temporaneamente Presenti) e il modello cosiddetto pre-C3, che raccoglie i dati personali e altre importanti informazioni riguardo il viaggio compiuto dai profughi, i loro legami con l’Europa e alcuni dettagli della loro vita nel paese di origine, tutti dati che saranno riportati poi in forma digitale sul modello C3 di ogni richiedente.
I tre moduli vengono lasciati alla libera compilazione da parte dei giovani, con lo sporadico aiuto degli operatori e dei volontari presenti nelle due lingue europee conosciute da alcuni (inglese o francese). L’importante sembra essere che essi non dimentichino di riportare in alto a destra di ogni modulo il loro numero identificativo, il resto può essere scritto anche in modo approssimativo o addirittura errato.
Gli analfabeti rimangono interdetti e necessitano di aiuto costante, offerto dagli amici o dagli operatori. Gli altri tentano di decifrare e comprendere le domande (formulate per iscritto in diverse lingue o soltanto in inglese, dipende dal modulo) e di rispondere al meglio.
Da notare è che il modello pre-C3/C3 (importantissimo anche in sede di valutazione della richiesta in commissione e i cui campi da compilare e quesiti da rispondere sono esclusivamente in inglese) richiede in calce non soltanto la firma del richiedente, ma anche quella di un traduttore (language assistant) e di un impiegato. La compilazione del modulo dovrebbe dunque avvenire accuratamente e individualmente, e non in modo sbrigativo, collettivo e malamente tradotto, come è avvenuto in questa occasione. Ovviamente i richiedenti firmano, mancano invece le firme del traduttore e dell’impiegato.

Ore 14.29: la faticosa e disordinata compilazione dei moduli è terminata. In struttura si viene a sapere che il medico arriverà soltanto per le 17.00, per cui, in barba alle norme di prevenzione sanitaria, si lasciano liberi i ragazzi di accedere in fila al bancone di distribuzione del cibo per il pranzo e ai tavoli sala comune del centro di “accoglienza”.
A gruppi di amici o connazionali i nuovi arrivati si siedono ai tavoli per consumare il cibo del catering, alcuni escono per fumare una sigaretta, altri chiedono di fare una doccia, ma ciò viene loro negato fino al momento in cui potranno accedere al loro posto letto in comunità. Un ragazzo avverte dolore alla testa e gli viene offerto un antidolorifico.

Tra le 17.00 e le 18.00 i 25 nuovi arrivati vengono visitati e dichiarati idonei alla vita in comunità, vengono dunque allestiti e distribuiti i posti letto su letti a castello cigolanti, viene offerto il kit di prima accoglienza e un armadietto alto e lungo a testa.
La stessa sera i primi profughi sarebbero andati in questura per lasciare le impronte digitali, le altre segnalazioni sarebbero state fatte il giorno successivo in mattinata.
Il giorno dopo si contano due ragazzi in meno: due nuovi arrivati hanno deciso di proseguire il loro viaggio in Europa in modo indipendente, appesi allo stesso, oppure a un altro “forse”.
A me, osservatore critico e inquieto, non rimane che testimoniare e augurare loro tutte le fortune, e tutto il meglio anche per chi ha deciso di affidarsi alle istituzioni e agli enti gestori delle strutture locali, nella speranza di costruire per sé e per noi tutti un futuro condiviso e dignitoso, senza più alcun “forse”.