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Asilo – Patrasso: un anno dopo

Nuove prove dei respingimenti illegali dei profughi dai porti dell'Adriatico

Tornare a Patrasso dopo un anno non è stato facile. Dentro di noi il ricordo della violenza della polizia e di quanta sofferenza avevamo incontrato nel febbraio scorso dentro il campo, e la consapevolezza che quel campo – che, per quanto precario, era l’unico posto che i rifugiati avessero in quella città – fosse stato ormai raso al suolo.

Ricordo quel giorno come il più brutto della mia vita”.
A dirlo è Dora, un’attivista di Kinisi, l’associazione che da anni segue le sorti dei rifugiati di Patrasso. “Sono arrivate le ruspe dopo averci promesso che mai sarebbero venuti. E quando la polizia si è trovata di fronte la piccola moschea di legno, hanno preferito incendiare tutto e poi dare la colpa ai profughi”.

Al posto del campo, adesso, c’è una grande zona recintata di fronte al mare pronta per essere edificata. Tutto intorno stanno le case più ricche della città: era un luogo troppo redditizio per permettere che quelle tende e quelle baracche – dove dodici mesi fa avevamo condotto le interviste per il ricorso alla corte europea dei diritti umani – restassero in piedi.

Incontrare i ragazzi afghani, arrivati dalla Turchia (dopo avere attraversato Pakista e Iran) in cerca di asilo politico, è adesso molto più difficile. Bisogna andare in macchina un chilometro fuori dalla città, e poi aspettare. Guardando tra l’erba alta dei campi che circonda le stazioni di servizio, dopo un po’ ci si accorge di loro. Fantasmi, che appena si rendono conto della nostra telecamera lontana si tirano su il cappuccio e si rannicchiano ancora di più, come se la terra potesse inghiottirli. Appena farà buio proveranno a nascondersi sotto i tir che si imbarcano verso l’Italia, pur sapendo che con tutta probabilità la polizia di Venezia, Bari, Brindisi o Ancona li respingerà.

Quel che capiamo è innanzitutto questo: non è possibile scegliere in quale porto italiano arrivare, tranne forse nei casi minoritari in cui chi parte ha abbastanza soldi da pagare l’autista e qualche volta anche la polizia greca. Ci si nasconde quando i camion sono lontanissimi dal porto, si sale dove si può, come si può. E questo significa che, per il calcolo delle probabilità, non è possibile che dei 3148 respinti dai porti italiani nel 2009, quelli mandati via da Venezia siano solo i pochissimi di cui è rimasta traccia in qualche dispaccio della polizia o nei dati del Cir (che ne ha incontrati in quell’anno 132).
Verrebbe da dire, allora, che da quando le associazioni veneziane della rete Tuttiidirrittiumanipertutti hanno iniziato a denunciare questi respingimenti, nella città di San Marco si abbia più timore di dichiarare quasi con orgoglio, come avveniva fino a meno di due anni fa, che “10/15/20 ‘clandestini’ sono stati respinti dalla polizia di frontiera”. Alcune domande fondamentali, infatti, sono state poste sotto l’attenzione di tutti e forse, nel tempo e almeno in parte. si sono insinuate anche in un’opinione pubblica pur generalmente avversa all’immigrazione.

Chi sono queste persone respinte? Davvero si può semplicemente parlare di “clandestini”? Da dove vengono? Perché fuggono? Veramente le si può rimandare indietro come merci chiuse in una stiva? E su quali basi legali?

Sono quasi tutti potenziali rifugiati, a volte bambini o minorenni. Vengono in gran parte dall’Afghanistan, dal Darfur, dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Iraq, dall’Iran. Fuggono quasi sempre da guerra e persecuzione. Non è possibile respingerle senza formalità perché si violano trattati internazionali, diritto interno e normativa comunitaria. La base legale di questi respingimenti è un trattato bilaterale Italia-Grecia cui si deve derogare come fonte gerarchicamente subordinate a quelle sopraelencate.

Eppure bisogna tornare in Grecia per sapere quel che avviene nei porti italiani. Solo la polizia greca ha dato finalmente le cifre ufficiali dei respingimenti per anno. Solo in Grecia abbiamo potuto scoprire che fine fanno i respinti.

Oltre ai ragazzi che si nascondono tra le sterpaglie c’è un altro gruppo di profughi, quasi tutti africani, che ha invece eletto come domicilio il binario morto di una ferrovia, dove due vecchissimi treni stanno l’uno di fronte all’altro, e i loro vagoni sono diventati alloggi di fortuna. Mentre li intervistiamo arriva un lavoratore delle ferrovie che quasi non fa caso alla nostra telecamera.

Mi raccomando di non cucinare sotto i vagoni di legno, ma solo sotto quelli di ferro”. Si limita a dire questo, e poi se ne va.

Effettivamente i profughi hanno acceso dei fuochi con dei rami poggiati sui binari tra un vagone e l’altro, e stanno preparando una ministra dentro una pentola bruciata. Accettano di farsi intervistare, ma ci chiedono di fare in fretta, perché ogni volta che vengono dei giornalisti, il giorno dopo arriva anche la polizia e se li porta via.

Vengono la mattina all’alba e ci arrestano tutti. Poi ci tengono per due o tre mesi in prigione ad Atene o in altre città, e poi ci lasciano andare, ma in prigione è troppo brutto qui in Grecia”.

E poi quando esci ad Atene non sai dove andare e puoi finire male”.

È vero, ce ne siamo accorte anche noi. Nella capitale greca, in certi quartieri, è in corso una vera e propria caccia all’immigrato. Non si riesce neppure a distinguere troppo bene tra gruppi di estrema destra e polizia, fatto sta che più di una volta qualcuno è stato ucciso o ferito.

Le ragioni della fuga dal loro paese, per questi profughi incontrati a Patrasso, assomigliano a quelle degli altri conosciuti a Igoumenitsa: sono in gran parte da manuale Acnur per il riconoscimento dello status di rifugiato. Eppure, nell’una e nell’altra città, vivono come animali braccati, e per questo sognano ancora l’Italia.
Anche qui quando chiediamo chi sia già stato respinto dai porti dell’Adriatico alzano in molti la mano e iniziano a raccontare.

Un dettaglio ritorna per due volte: sembra che qualcuno venga catturato anche fuori dai porti, una volta sceso dal tir, e poi riportato su una volante a bordo della nave.
Effettivamente anche la polizia portuale di Igoumenitsa ci aveva detto di sospettare che una simile pratica avvenisse. Fosse vero significherebbe che l’ombra lunga delle zone di frontiera si proietta anche all’interno delle nostre città. Che per questi profughi non esiste salvezza certa neppure quando riescono, con grande fortuna, a oltrepassare i cancelli dei porti.

La notte della partenza da Patrasso saliamo su una nave della Minoan Lines. Fa impressione dopo avere ascoltato tante storie di migranti trovati e poi picchiati proprio dai membri dell’equipaggio di questa compagnia. Dal ponte assistiamo ai controlli che i commandos (tuta mimetica e manganello in mano), ma anche molti agenti in borghese, effettuano dentro e sotto i tir. La vita del traffico marittimo su questa rotta è del tutto trasformata dal sovrapporsi della rotta dei profughi.
Anche all’arrivo a Venezia, dopo due giorni di navigazione, tutti gli autisti scendono in stiva ore prima, per ricontrollare accuratamente ogni angolo del loro mezzo pesante.
Durante la traversata il nostro pensiero era costantemente rivolto a chi forse era nascosto lì sotto. Quando siamo sbarcate in Italia la nostra macchina ha dovuto allontanarsi velocemente dalla nave, mentre i tir, uno a uno, entravano sotto il grande telone bianco che nasconde agli occhi dei turisti i controlli della polizia.

Alessandra Sciurba, Melting Pot Europa
da un’inchiesta di Alessandra Sciurba e Anna Milani
Foto di anna Milani

Vedi anche:
Asilo – Di nuovo in Grecia sulla rotta dei profughi respinti dall’Italia