Tutte le versioni di questo articolo: [italiano] [italiano]
Con una comunicazione del 10 giugno scorso, il Ministero del Lavoro ha chiarito che il Ministero dell’Interno avrebbe espresso “parere di competenza” – anche se non si comprende esattamente quale sia la “competenza” del Ministero dell’Interno per la materia che stiamo trattando - sul quesito circa la possibilità di estendere l’assegno di maternità e l’assegno per il terzo figlio alle cittadine extracomunitarie che siano riconosciute rifugiate politiche ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati, resa esecutiva in Italia con legge 24 luglio 1954 n. 722. Ci si riferisce esclusivamente alle donne già riconosciute come rifugiate e non alle persone che sono ancora in attesa di tale riconoscimento.
Si fa riferimento alla valutazione relativa al possesso o meno del diritto di ottenere l’assegno di maternità e quello per il terzo figlio previsto dagli articoli 65 (Assegno ai nuclei familiari con almeno tre figli minori) e 66 (Assegno di maternità) della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (“Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo (G.U. n. 302 del 29 dicembre 1998, Suppl. Ord. N. 210). Si tratta di misure di assistenza che, in realtà, sarebbero previste solo con determinate limitazioni quali:
1) l’assegno di maternità - concesso una tantum alle nuove mamme – è erogato solo alle cittadine italiane, a quelle comunitarie e a quelle extracomunitarie in possesso della carta di soggiorno (si veda l’art. 9 del Testo Unico sull’Immigrazione – D.L.vo 25 luglio 1998, n. 286);
2) l’assegno per il terzo figlio, è riconosciuto solo ai cittadini italiani e comunitari.
Il quesito di cui sopra emerge in base agli articoli 24 e 25 della Convenzione di Ginevra che prevedono, per quanto riguarda la legislazione del lavoro, la sicurezza sociale, l’assistenza amministrativa e l’assistenza da parte della pubblica amministrazione, la equiparazione rispetto ai cittadini italiani.
Cosa prevede la Convenzione di Ginevra
La Convenzione di Ginevra prevede espressamente che, per quanto riguarda la retribuzione, gli assegni familiari e ogni altra misura di sicurezza sociale, (artt. 23 e 24) si applichi lo stesso trattamento previsto per i cittadini. Per quanto riguarda l’assistenza pubblica, gli Stati contraenti concedono ai rifugiati che risiedono sul loro territorio, lo stesso trattamento in materia di assegni familiari - se tali assegni fanno parte della retribuzione -, di tutela della maternità e di sicurezza sociale in generale.
Queste sono le disposizioni contenute nella Convenzione di Ginevra e, rispetto ad esse, il Ministero del Lavoro, interpellando il Ministero dell’Interno, ha inteso valutare – a distanza di cinquant’anni dall’entrata in vigore della stessa - se le donne rifugiate abbiano diritto allo stesso trattamento previsto per i cittadini!
L’assegno di maternità
Con una risposta - che riteniamo discutibile - si è ritenuto, che l’assegno di maternità sia riconoscibile anche alle donne già riconosciute rifugiate, ai sensi della Convenzione di Ginevra. Tra l’altro, abbiamo saputo che la Direzione Generale per l’Immigrazione del Ministero del Lavoro ritiene che i Comuni, valutando caso per caso, possano procedere all’erogazione dell’assegno di maternità, previsto dall’articolo 66 della legge 448/98, alle madri rifugiate politiche senza richiedere il possesso della carta di soggiorno.
Assegno per il terzo figlio
Per quanto riguarda l’assegno per il terzo figlio (articolo 65 della legge 448 del ’98) si ritiene che non sussistono le condizioni per le attribuzioni del beneficio, in quanto i cittadini extracomunitari non sono stati compresi dal legislatore fra i destinatari della prestazione sociale.
La sensazione che si ottiene è che si continui a far finta di considerare che queste persone sono semplici cittadini stranieri, divisi in comunitari ed extracomunitari, titolari o non titolari di carta di soggiorno.
Si continua a far finta di non sapere che nella Convenzione di Ginevra si fa riferimento a questa equiparazione, a prescindere dalla condizione degli stranieri. La norma prevede che queste persone siano trattate con lo stesso trattamento concesso ai cittadini e, quindi, prescindendo dalla loro nazionalità. Non ha senso pensare che queste persone non sono comprese tra gli aventi diritto a questo tipo di trattamento.
Il legislatore non li ha considerati in quanto esiste un norma internazionale, vincolante anche per il legislatore italiano che prevede - a prescindere dalla cittadinanza - che per la fruizione di determinati diritti (quali i diritti in materia di sicurezza e assistenza sociale) i cittadini riconosciuti come rifugiati siano equiparati ai cittadini italiani. Di conseguenza, la loro cittadinanza straniera non ha più alcuna rilevanza perché l’unica condizione che viene considerata è quella che, una volta che viene riconosciuto lo status di rifugiato, queste persone hanno diritto, per quanto riguarda l’utilizzo di prestazioni di assistenza sociale, allo stesso trattamento per tutti i cittadini.
Quello che più preoccupa è che, se da un lato si riconosce il diritto alle donne rifugiate di essere beneficiarie dell’assegno di maternità (in base alla Convenzione di Ginevra) non si comprende che cosa si voglia dire nell’inciso dove si ritiene che “I Comuni, valutando caso per caso, possano procedere all’erogazione dell’assegno di maternità”. Se si ritiene che una donna rifugiata, già riconosciuta come tale, abbia il diritto di essere titolare di questo assegno, non si comprende perché una volta riconosciuto, i Comuni debbano valutare caso per caso e perché si debba considerare che l’erogazione dell’assegno di maternità possa essere effettuata e non invece debba essere effettuata.
Non crediamo si tratti solo di un problema lessicale; si tratta di una nota molto ambigua che più che dimostrare la preoccupazione di attuare una normativa internazionale che vige da parecchi decenni, mostra invece l’intento di restringere l’applicazione di un diritto che dovrebbe essere riconosciuto.