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Assegno sociale – Le norme che lo subordinano a dieci anni di residenza sono discriminatorie

a cura dell'Avv. Marco Paggi

Con il Decreto legge 112 del 2008 convertito in legge dalla finanziaria 133 del 2008 pubblicata nella Gazzetta ufficiale del 28 agosto sono state trattate una serie di questioni, in ambito finanziario, contenenti anche disposizioni che incidono direttamente o indirettamente sulla condizione giuridica degli immigrati, sui loro diritti, sulle loro condizioni di vita.

Una di queste disposizioni riguarda l’assegno sociale.
Le norme, che decorreranno dal 1 gennaio 2009, prevedono che l’assegno sociale venga corrisposto solo a chi, oltre ai requisiti di stato di bisogno e di età già previsti della normativa pregressa, disponga del requisito della residenza legale continuativa sul territorio nazionale per almeno 10 anni.

Nella norma, ovviamente, non si fa esplicito riferimento agli stranieri, si parla genericamente di persone che debbano avere la residenza legale continuativa sul territorio per almeno 10 anni, anche se è fin troppo evidente che, la volontà è quella di limitare la possibilità di beneficiare delle prestazioni di assistenza sociale, nella specie dell’assegno sociale, ai cittadini immigrati ed ai loro familiari.
Ci si chiede cosa possa succedere se una persona, di cittadinanza italiana, pur essendo nata nel territorio italiano, abbia meno di dieci anni di età. Non si potrà dire in questo caso che sia residente da almeno dieci anni.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha già avuto occasione di chiarire, proprio con riferimento al principio di non-discriminazione tra cittadini comunitari, previsto dal Trattato europeo, che il requisito della residenza ai fini dell’accesso ad un beneficio, può integrare una forma di illecita discriminazione dissimulata, una discriminazione indiretta in quanto può essere più facilmente soddisfatto dai cittadini nazionali piuttosto che dai lavoratori comunitari migranti.

Naturalmente, la Corte di Giustizia si può occupare soltanto dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto comunitario e quindi si è occupata solo delle discriminazioni a discapito dei cittadini comunitari migranti e dei loro familiari, quando anche si tratti di familiari extracomunitari di cittadini comunitari.
Chiaro che quindi, stabilire un requisito di residenza e quindi una sorta di discriminazione indiretta, è considerato, dal punto di vista del diritto comunitario, un illecito.
La Corte di Giustizia ha già affermato questo principio con una sentenza che ha riguardato l’Italia, condannata in relazione alle agevolazioni tariffarie a vantaggio alle persone residenti per l’accesso ai musei comunali. In questa Sentenza del 16 gennaio 2003 nel procedimento C-388/01 si legge che il principio di parità di trattamento vieta, non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante ricorso ad altri criteri distintivi, produca in pratica lo stesso risultato.
Ciò avviene in particolare nel caso di una misura che preveda una distinzione basata sul criterio della residenza in quanto quest’ultimo rischia di operare principalmente a danno dei cittadini di altri stati membri.

Nel caso quindi di limitazioni alle prestazioni relative all’assegno sociale, ai cittadini comunitari o ai loro familiari extracomunitari, si configurerebbe una violazione del regolamento n. 1408/71 e successive modifiche che assicura una parità di trattamento, sotto il profilo del diritto, al godimento delle prestazioni di assistenza sociale.

Più in generale, facendo delle considerazioni che riguardano anche la generalità dei cittadini extracomunitari, stabilire un requisito di anzianità di soggiorno ed in particolare, per quanto riguarda i cittadini extracomunitari, subordinare al possesso del permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo le prestazioni di assistenza sociale, può rappresentare una discriminazione.

Di ciò si è recentemente occupata la Corte costituzionale con la sentenza n. 306 del 29 luglio 2008.

La Corte costituzionale ha ritenuto illegittima la normativa che condiziona, per quanto riguarda gli extracomunitari, l’accesso alle prestazioni di assistenza sociale al possesso della carta di soggiorno.

Com’è noto, la versione originaria del Testo Unico sull’immigrazione, prevedeva espressamente, all’articolo 41, la parità di trattamento sotto il profilo del diritto al godimento delle prestazioni di assistenza sociale tra lavoratori extracomunitari in possesso di permesso di soggiorno o in possesso di carta di soggiorno, senza distinzioni, e lavoratori cittadini nazionali.
Viceversa, con la legge finanziaria per l’anno 2001, la numero 388 del 2000, all’art. 80, si è introdotta una limitazione a questa equiparazione stabilendo che solo chi ha la carta di soggiorno possa accedere alle prestazioni di assistenza sociale. Per accedere alla carta di soggiorno però ci vuole un reddito minimo ed un alloggio. A sua volta, chi è in condizione di bisogno e non produce o non è più in grado di produrre un reddito per problemi obiettivi di salute, di certo non può accedere alla carta di soggiorno e quindi, per questa via, non può nemmeno accedere alle prestazioni di assistenza sociale. “Chi ha bisogno non può ottenere una risposta a questo bisogno proprio perché ha bisogno”.
La Corte Costituzionale è stata interessata di una questione di legittimità sollevata con riguardo al diritto al godimento dell’indennità di accompagnamento per gli invalidi, una prestazione di assistenza sociale, negato in quanto la persona interessata, invalida al 100% per motivi di salute sopravvenuti durante un soggiorno legale e lavorativo, aveva richiesto questa prestazione senza aver ottenuto e senza avere alcuna speranza di poter ottenere il rilascio della carta di soggiorno.

La Corte Costituzionale ha ritenuto che sia manifestamente irragionevole subordinare l’attribuzione di una prestazione assistenziale, quale l’indennità di accompagnamento, i cui presupposti sono la totale disabilità al lavoro nonché l’incapacità alla deambulazione autonoma al compimento di atti quotidiani della vita, al possesso di un titolo di legittimazione alla permanenza del soggiorno in Italia che richiede, per il suo rilascio, tra le altre cose, la titolarità di un reddito.
Tale irragionevolezza incide sul diritto alla salute inteso anche come diritto ai rimedi possibili alle menomazioni prodotte da patologie di non lieve importanza e quindi è si ritiene che sussista un contrasto tra le disposizioni contenute nella Legge finanziaria e non solo verso l’articolo 3 della Costituzione che stabilisce il principio di parità di trattamento, ma anche con gli articoli 32 e 38 della Costituzione che tutelano il diritto fondamentale della persona alla salute.
La normativa viola anche l’articolo 10 della Costituzione dal momento che, tra le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, rientrano anche quelle che, nel garantire i diritti fondamentali della persona, indipendentemente dall’appartenenza a determinate entità politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri legittimamente soggiornanti nel territorio dello stato.

Di conseguenza la Corte Costituzionale riconosce che la legge non può limitare queste prestazioni di assistenza sociale finalizzate a tutelare, sia pure indirettamente, la salute, quindi un bene primario di ogni persona, indipendentemente dalla cittadinanza.

Anche a prescindere dalla sussistenza o meno dei requisiti per il rilascio della carta di soggiorno e a prescindere dalla durata del soggiorno, sempre che non si tratti, sottolinea la Corte Costituzionale, di un soggiorno episodico o precario o di breve durata, questi diritti devono essere riconosciuti.

Stupisce che proprio poco dopo la pubblicazione di una sentenza così chiara e dalla formulazione così inequivocabile, lo Stato, il Governo, emani un provvedimento che chiaramente limita le prestazioni di assistenza sociale, non più soltanto ad un soggiorno di durata minima quinquennale ed al rilascio della carta di soggiorno, ma addirittura all’ulteriore soggiorno per un totale di dieci anni di residenza legale sul territorio italiano.
Il contrasto è fin troppo evidente e quindi possiamo immaginare che questa norma produrrà ulteriore contenzioso e dovrà prima o poi tornare sul tavolo della Corte Costituzionale.