Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Assitenza sanitaria ai cittadini migranti in Italia

Il fenomeno dell’immigrazione in Italia
La spinta migratoria verso l’Italia e verso gli altri Paesi economicamente più sviluppati dell’Europa occidentale rispecchia una realtà mondiale segnata da profondi squilibri di crescita e di benessere.
Il nostro Paese, per oltre un secolo terra di emigrazione, a partire dagli anni ’70 è iniziato ad essere meta di flussi migratori da varie parti del mondo. Tale fenomeno è diventato palese a partire dagli anni ’80. All’inizio del 2003 la stima della popolazione straniera regolare in Italia raggiunge le 2.400.000-2.500.000 unità (Dossier Statistico Immigrazione Caritas). Stando a questo calcolo, l’incidenza sull’intera popolazione italiana arriverebbe al 4,2%.
Da questi dati emerge come l’immigrazione anche per il nostro Paese non sia più un fenomeno emergenziale , bensì una dimensione strutturale della società che richiede precise risposte politiche, economiche e sociali.

Due sono i livelli di impegno.
Il primo consiste nel cercare di creare le condizioni a lungo termine per ridurre l’esodo forzato e fare della migrazione una libera scelta, attraverso l’equa distribuzione delle ricchezze e uno sviluppo sostenibile per tutti i popoli.
L’altro urgente versante d‘impegno riguarda la tutela dei diritti dei migranti. Questo richiede da un lato una normativa che consideri lo stato di salute e le peculiari difficoltà dei migranti, dall’altro l’effettiva fruibilità e accessibilità dei servizi sanitari ai migranti.
Pertanto la nostra analisi si articolerà nel seguente modo:
– il concetto di salute: diritto o bene di consumo?
– principi di riferimento in materia di tutela della salute
– considerazioni sullo stato di salute della popolazione immigrata
– breve storia delle politiche sanitarie per la tutela della salute dei migranti
– analisi dettagliata del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” – Disposizioni in materia di assistenza sanitaria.
– conclusioni

Il concetto di salute: diritto o bene di consumo?
Il concetto di salute ha subito negli ultimi 50 anni una profonda trasformazione. Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale in tutto il mondo si rafforzarono i sistemi di welfare – nella scia di un profondo senso di solidarietà suscitato all’interno delle popolazioni e tra le nazioni, come reazione agli orrori dell’Olocausto e alle immani sofferenze generate dal conflitto e dalle distruzioni -. Si afferma la concezione di “cittadinanza”, collegata alla titolarità di particolari diritti, sociali e politici. Misure di cittadinanza universali, rivolte cioè a tutti, comportano che tutti siano membri della stessa società e tutti ne beneficino nella stessa misura. Si afferma dunque il concetto di “salute come diritto”, sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo (Nazioni Unite, 1948) e confermato da una serie di riforme dei sistemi sanitari in vari paesi del mondo, fondate sull’universalità di accesso alle cure, sulla gratuità delle prestazioni e sul finanziamento basato sulla fiscalità generale (il capostipite di questo modello, denominato Beveridge dal nome dell’economista che ne fu l’ideatore, fu il Servizio sanitario nazionale britannico, fondato nel 1947)(*1).
Molti altri paesi pur non adottando il modello britannico, rafforzarono i sistemi della mutualità sociale (instaurato da Bismark in Germania alla fine dell’800) garantendo comunque universalità ed equità. Anche negli Stati Uniti, dove più forti erano le resistenze ad introdurre forme di “medicina socializzata”, negli anni sessanta lo stato interviene per garantire agli anziani ultrasessantacinquenni e alle fasce più povere della popolazione una copertura sanitaria, attraverso l’istituzione di due fondi pubblici, il Medicare (programma di assistenza sanitaria agli anziani) e il Medicaid (il programma di assistenza sanitaria ai poveri).

Il processo di sviluppo della “sanità come diritto” si estende fino alla fine degli settanta; il 1978 è una data importante: ad Alma Ata, capitale del Kazakistan (allora una delle repubbliche dell’Unione Sovietica), l’assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in un documento ormai storico riafferma che “la salute, come stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza di malattia o infermità, è un diritto fondamentale dell’uomo e che l’accesso ad un più elevato stato di salute è un obiettivo sociale di assoluta importanza, d’interesse mondiale, che presuppone la partecipazione di numerosi attori socioeconomici oltre che di quelli sanitari”.
Nello stesso anno in Italia viene istituito il servizio sanitario nazionale. Ma proprio alla fine degli anni 70 e inizi degli anni 80 il vento politico cambia bruscamente; ne sono prova le elezioni di personaggi politici di orientamento decisamente neo-liberista: in Gran Bretagna (M. Thatcher, 1979) e in USA (R. Reagan, 1980). Da allora l’ideologia neo-liberista si è sempre più diffusa, affermando la sua egemonia nella politica e nell’economia “globale”.
Secondo il neo-liberismo il mercato è il migliore e più efficiente allocatore delle risorse, avendo in sé i meccanismi di compenso. Le conseguenze sociali di tale politica, anzi le conseguenze sociali negative, come la crescita delle ineguaglianze, sono considerate il necessario sottoprodotto del buon funzionamento dell’economia e sono anche “giuste” perché rispondono al principio che se qualcuno entra nel mercato, qualcun altro deve necessariamente uscirne. Il welfare state è nato negli stati liberali proprio per correggere gli effetti sociali negativi causati dal mercato, sottraendo ai criteri di questo, alcuni settori della vita sociale, come l’educazione e la sanità che dal neo-liberismo sono considerati, di fatto, prodotti di consumo e non servizi.
Il welfare-state – e in particolare la componente sanitaria – costituisce uno dei principali ostacoli al dilagante neo-liberismo per due fondamentali motivi.
Un motivo è di carattere ideologico: alla base del neo-liberismo c’è il concetto di “responsabilità individuale”. Tale concetto, applicato alla sanità, significa che l’accesso ai servizi avviene sulla base della volontà e della capacità di pagare – willingness and ability to pay – di ognuno (nella logica del welfare a ciascuno viene dato in relazione al bisogno, secondo la formula di Beveridge: paying according to means and receiving care according to needs).
L’altro motivo è di carattere economico: la sanità assorbe una crescente quantità di risorse, mobilizza enormi volumi di capitali (basti pensare al mercato dei farmaci e delle biotecnologie) ed è considerata un business e non un servizio (vedi legge 833/78 relativa all’istituzione del servizio sanitario nazionale). Secondo tale logica la sanità finisce con l’essere assimilata a qualsiasi altro prodotto di consumo (auto, elettrodomestici, etc.) e come tale deve alimentare la crescita economica e i profitti delle imprese.
Oggi gli effetti collaterali di questa politica si fanno sentire soprattutto nel sud del mondo, dove centinaia di milioni di persone non hanno accesso ai servizi medici essenziali e dove decine di milioni di esseri umani muoiono a causa di malattie curabili.
Tuttavia anche in Italia, nel momento in cui le USL si costituiscono in aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale (la loro organizzazione e funzionamento sono disciplinati con atto aziendale di tipo privato) ci si deve confrontare con la logica dei costi e dei profitti. In tale contesto anche l’assistenza sanitaria ai migranti è un onere aggiuntivo e, in una situazione di risorse economiche limitate, può creare problema, se si dimenticano i principi costituzionali.

Principi di riferimento in materia di tutela della salute
La salute costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano da cui discende una responsabilità collettiva e quindi un dovere dello Stato.
Ciò è stato definito con forza nell’atto costitutivo dell’OMS (1946) dove si legge:
La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non consiste solamente nell’assenza di malattia o di infermità.
Il possesso del miglior stato di salute che è possibile raggiungere costituisce un diritto fondamentale di ogni essere umano indipendentemente dalla sua razza, religione, opinioni politiche, condizione economica o sociale. La salute di tutti i popoli è una condizione fondamentale della pace del mondo e della sicurezza internazionale.”

Tale concetto è stato confermato ed ampliato in uno dei più importanti documenti dell’OMS , la Dichiarazione di Alma-Ata (1978):
“la salute, come stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza di malattia o infermità, è un diritto fondamentale dell’uomo e l’accesso ad un più elevato stato di salute è un obiettivo sociale di assoluta importanza, d’interesse mondiale, che presuppone la partecipazione di numerosi attori socioeconomici oltre che di quelli sanitari”.
Peraltro tale concetto di salute era contenuto anche nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (Nazioni Unite, 1948), dove all’articolo 25 si legge:
“Ogni persona ha diritto a un adeguato livello di vita che assicuri a lui e alla sua famiglia la salute e il benessere, inclusi il cibo, il vestiario, l’abitazione, l’assistenza medica e i servizi sociali necessari, e il diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, disabilità, vedovanza e vecchiaia.”

La Costituzione della Repubblica Italiana (1948) ha recepito tali principi e all’ art. 32 comma1 recita:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale, e garantisce cure gratuite agli indigenti.”
Nel 1978 si ha l’attuazione del suddetto articolo mediante l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.
La definizione di salute dell’OMS e l’articolo 32 della Costituzione italiana che la recepisce sono estremamente progressiste: uniscono il diritto alla salute all’individuo e non alla cittadinanza.
Ciò è esplicitato anche nel Codice di deontologia medica all’art.3 Doveri del medico:
“Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza discriminazioni di età, di sesso, di razza, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace come in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali e sociali nelle quali opera.
La salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizione cioè di benessere fisico e psichico della persona.”
Inoltre nel giuramento professionale del medico si legge:

“giuro di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo ed impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi inspirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale ed ideologia politica.”

Considerazioni sullo stato si salute della popolazione immigrata
La persona immigrata generalmente non mette in atto strategie preventive ma si rivolge ai servizi socio-sanitari solo in caso d’urgenza o di malattia conclamata, quando cioè non può farne a meno.
Numerose ricerche multicentriche hanno evidenziato che gli immigrati possiedono un patrimonio di salute sostanzialmente integro nel momento in cui decidono di partire e che diversa è la situazione al loro arrivo in Italia. In passato si è sempre affermato che partono sani e arrivano sani, potendosi ammalare qui in Italia. Oggi questa affermazione non corrisponde più al vero. Questo fenomeno era stato definito “effetto migrante sano”, dovuto ad un’autoselezione di chi decideva di emigrare; oggi però è vero solo in parte. I viaggi per approdare in Italia sono diventati sempre più drammatici e a rischio di vita e il patrimonio di salute in dotazione all’immigrato, sempre che giunga integro all’arrivo in Italia, si dissolve sempre più rapidamente, per una serie di fattori di rischio: il malessere psicologico legato alla condizione d’immigrato, la mancanza di lavoro e reddito, la sottoccupazione in lavori rischiosi e non tutelati, il degrado abitativo in un contesto diverso dal Paese d’origine, l’assenza del supporto familiare, il clima e le abitudini alimentari diverse, che spesso si aggiungono a una condizione di status nutrizionale compromesso, la discriminazione nell’accesso ai servizi sanitari. Questo periodo di intervallo che trascorre dall’arrivo in Italia alla prima richiesta di intervento medico, negli ultimi anni, si è drasticamente ridotto ed è passato da circa 10-12 mesi nel 1993-1994 a 2-3 mesi nel periodo 1998-2000 (fonte:rapporti ISTISAN 03 / 4).
L’immigrato appariva sino a pochi anni fa, come una persona generalmente forte, giovane, con più spirito di iniziativa, più stabilità psicologica, in una parola più sano, tenendo presente che il proprio corpo, insieme alla capacità lavorativa, era l’unico mezzo di scambio, almeno inizialmente, che si aveva con la nuova società. Una buona salute rappresentava l’unica certezza su cui investire il proprio futuro. Oggi giungono sul nostro territorio anche persone non più giovani, meno acculturate, con progetti migratori temporanei e non scelti, per cui anche il profilo di salute di queste persone si è modificato.
In altre parole non arrivano più solo braccia-lavoro, ma persone le cui condizioni di salute al loro arrivo in Italia sono attualmente peggiori rispetto a 5-6 anni fa.

Si manifestano con sempre maggiore frequenza rispetto al passato quelle malattie che sono definite “malattie da disagio o malattie da degrado” e alcune patologie ancora non specifiche dell’immigrato, ma che indicano una disuguaglianza nell’accesso al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e uno stato di salute psico-fisica ridotto rispetto alle classi di popolazione con livello socioeconomico più alto; sono le “malattie della povertà” propriamente dette: tubercolosi, scabbia, pediculosi, alcune infezioni virali, micotiche e veneree, particolarmente frequenti nella popolazione nomade e senza fissa dimora.
E’ necessario tener presente e ricordare i peculiari problemi di salute a cui può essere a rischio la popolazione immigrata:
1. La provenienza da zone ad alto rischio per alcune malattie (parassitosi, tubercolosi, malaria, lebbra, AIDS) può averli esposti a queste infezioni e occorre avere la possibilità di visitarli subito, per consentire diagnosi corrette e impostare terapie tempestive.
2. Il viaggio, diventato ormai sempre più disumano, può favorire lo sviluppo di malattie dovute all’assenza di condizioni igieniche minime. Essere stipati per 30-40 giorni, in 300-400 persone in un’imbarcazione che ne potrebbe contenere al massimo 60-80, significa favorire lo sviluppo di infezioni intestinali, polmonari, epatiche e cutanee. Gli stessi eventi fisiologici, come la minzione, il ciclo mestruale, la gravidanza, spesso diventano rischi per la salute.
3. Se riescono ad arrivare indenni in Italia, la permanenza nelle nostre città in condizioni strutturali pesanti, con la nota difficoltà di accesso al SSN, rende problematica la possibilità di mantenersi sani, in particolare per le donne e i bambini.
4. Con il passare del tempo, si sovrappone una reale patologia da depauperamento psicofisico, con aumentata predisposizione a infiammazioni delle alte e basse vie aeree, dell’apparato digerente, della cute, dell’apparato genito-urinario e ad infezioni presenti in Italia.
5. Persistendo lo stato di degrado, possono manifestarsi i sintomi clinici di alcune infezioni, come le epatiti, la tubercolosi e le malattie sessualmente trasmissibili.
6. Si osservano recentemente anche molte sindromi psicosomatiche, ansioso-depressive, che insorgono in particolare negli immigrati provenienti dalle zone di guerra (Kosovo, Sierra Leone, e Kurdistan) o in quelli che vorrebbero tornare nel proprio Paese a combattere per i propri ideali, ma non possono farlo (Afghanistan e Pakistan).
7. Sono in aumento anche i casi di rifugiati che sono stati torturati nei loro Paesi d’origine.
8. Molte donne ancora si presentano al nostro Servizio, in stato di gravidanza, al secondo o addirittura al terzo trimestre, senza essersi mai sottoposte a visita specialistica e aver praticato esami strumentali.
9. La condizione di salute della donna e dei bambini, necessita di una particolare attenzione, perché spesso i sintomi di alcune malattie possono essere subdoli e aver
bisogno di una capacità di comunicazione che solo il mediatore culturale può facilitare.
10. Spesso per le donne, eventi naturali come il parto, o la più banale patologia infiammatoria, diventano situazioni preoccupanti, talvolta con grave pericolo per la vita stessa, per la difficoltà di accesso a una rete sanitaria che le sappia accogliere e comprendere.

Le politiche sanitarie italiane per i cittadini migranti
Purtroppo per anni l’immigrazione dai Paesi in via di sviluppo non è stata regolamentata né in qualche modo tutelata. Per la legge, molti tra gli immigrati presenti nel nostro Paese non esistevano, non comparivano nelle statistiche, non potevano accedere ai servizi essenziali.
Quando il fenomeno immigrazione è ufficialmente affiorato si è cercato di applicare i dispositivi normativi già esistenti, oppure il problema è stato affrontato prevalentemente in termini di emergenza (prima nel 1986, quindi nel 1990 con la legge n° 39 nota come Legge Martelli).

Nello specifico le politiche sanitarie adottate in passato hanno al massimo regolamentato, per brevi periodi, l’emergenza, contribuendo ad un regime di confusione e di frammentarietà. Una complessa normativa, formata da oltre 30 atti giuridico-amministrativi tra leggi, decreti, circolari, ordinanze e telex, ha regolamentato il “diritto alla salute” degli immigrati, con evidenti effetti assurdi, fino al 1995. Talora questo diritto veniva concesso “a tempo”, quasi che il diritto alla salute potesse essere valido in alcuni periodi e negato in altri.
Una qualche chiarezza in termini di diritto alla tutela della salute iniziò con il D.L. n° 489 del 18 novembre 1995. Si tratta di disposizioni urgenti in materia di politica dell’immigrazione e per la regolarizzazione dell’ingresso e soggiorno nel territorio nazionale dei cittadini dei paesi non appartenenti all’Unione europea, dove finalmente veniva recepito, con l’articolo 13, il diritto alla salute come diritto per tutti, anche se irregolari o clandestini, non solo come accesso straordinario, ma anche come cure ordinarie e continuative.
Con il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), che incorpora la legge 40/98, si sono mossi notevoli passi avanti sul diritto alla tutela della salute degli stranieri presenti sul territorio nazionale. Infatti, fornire prestazioni sanitarie garantendo il divieto di segnalazioni all’Autorità giudiziaria, consente di far uscire dalla “clandestinità sanitaria” e avvicinare quegli stranieri, che la paura di una denuncia o di una espulsione dal territorio dello Stato, non avrebbero mai permesso di curare.
Fatti salvi gli stranieri provenienti dai paesi dell’Unione Europea e coloro per i quali vigono convenzioni internazionali di sicurezza sociale, si distinguono due categorie di immigrati: quelli “iscritti al Servizio Sanitario Nazionale (SSN)” e quelli “non iscritti al SSN”.
Successivamente il decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale numero 258 del 3.12.1999) – Regolamento recante norme di attuazione del Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286 -, completava il riordino e l’aggiornamento delle normative che permettono ancora oggi l’accesso ordinario alle prestazioni preventive, curative e riabilitative da parte dei cittadini stranieri presenti regolarmente o non regolarmente, sul territorio nazionale, garantite dal Servizio Sanitario nazionale.
In particolare il Decreto confermava la possibilità per tutti gli stranieri presenti in Italia, anche temporaneamente e privi dei documenti di soggiorno, di poter essere assistiti e curati nei servizi sanitari pubblici. In particolare al Cap. VI “Disposizioni in materia sanitaria”, gli articoli 42 e 43 sono dedicati all’assistenza per gli stranieri iscritti e non iscritti al Servizio Sanitario Nazionale.
La circolare del Ministero della Sanità del 24 marzo 2000, confermava in dettaglio tutti i dispositivi previsti dal D. Lgs. 25 luglio 1998, n° 286.
Il Piano Sanitario nazionale 2003/2005 aggiornando la situazione si prefigge di migliorare l’accessibilità e la fruibilità dell’assistenza in sintonia con i bisogni di questi nuovi gruppi di popolazione. Ciò verrà realizzato sia con interventi di tipo informativo per l’utenza immigrata sull’offerta dei servizi da parte delle ASL sia con l’individuazione all’interno di ciascuna ASL di mediatori culturali.