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Beirut: immagini di giovani che costruiscono ponti tra mondi apparentemente distanti

Beirut, 7 maggio 2018 - Manifestazione davanti al Ministero degli Interni organizzata dai sostenitori di Joumana Haddad giornalista e poetessa libanese

In Libano la questione delle diseguaglianze è stata totalmente assente dal dibattito pubblico” così spiega Lydia Assouuad sul giornale L’Oriente Le Jour di Beirut. In sostanza spiega questa giovane ricercatrice dottoranda all’Ecole d’economie de Paris che in Libano “il 50% dei più poveri guadagnano in media 330 dollari al mese contro gli 8.900 dollari per il 10% della popolazione e l’1% raggiunge i 40 mila dollari mensili”. Questa frattura sociale non è entrata nei temi della campagna elettorale. Il dibattito elettorale che si è conclusa il 6 maggio 2018 non ha avuto al centro i temi sociali.

Girando per Beirut questo divario è visibile. La quantità di SUV e di automobili che superano i cento mila euro di costo sono evidenti e hanno una visibilità notevole così come è notevole il parco veicolare che ha almeno trent’anni di vita. La strada è una visione plastica delle contraddizioni sociali.

Segnala Lydia Assoud che solo “le forze politiche che nascono dalla società civile ne hanno fatto un tema centrale della loro compagna elettorale”. Per lo più parliamo di persone giovani, attive in ambito culturale, artistico, sociale e politico. Così era alla manifestazione dei militanti di ‘Li Baladi’ davanti al ministero degli interni libanese che protestavano per l’esclusione della poetessa e giornalista Joumana Haddad candidata dichiaratamente laica in un scenario politico che vede i partiti confessionali al centro del quadro politico. Joumana, candidata della ‘società civile’, per effetto di regole farraginose del sistema elettorale libanese è stata esclusa dal parlamento nonostante avesse raccolto notevoli consensi.

Ma a Beirut ed in Libano vivono e agiscono molti giovani che arrivano dalla società civile del mondo. Arrivano dall’Europa, dall’America del nord o del sud. Sono studenti, cooperanti operatori di Organizzazioni governative e non governative. Un variegato mondo di esperienze, intelligenze e sensibilità che qui opera, s’incontra, si confronta e cresce.

La prima immagine è quella delle colonne del tempio di Baalbek in Libano. Siamo nella Valle della Bekaa a circa novanta chilometri a nord est di Beirut, in Libano. È una valle molto fertile racchiusa da alte montagne. Ad ovest il Monte Libano ad est i Monti Anti Libano. Poco distante, sempre verso oriente, c’è Damasco mentre verso nord si punta sui confini della Siria che è, non metaforicamente, ad un tiro di schioppo da Baalbek. E qui, in questa cittadina libanese dominata da una moschea trincerata dietro ‘cavalli di frisia’ di pesante ferro utili a respingere eventuali assalti di ‘auto bomba’, c’è un sito storico dichiarato nel 1984 patrimonio dell’umanità. È un sito archeologico che data circa cinque mila anni. Di qui passò Alessandro Magno durante la marcia verso Damasco. Baalbek nel 198 a.C. fu battezzata Heliopolis (‘Città del sole’). Nel 64 a.C. la città passo nelle mani dei romani che dedicarono il tempio a Giove e allargarono la cerchia a Venere e Bacco.

Furono alcuni esploratori europei ne XVIII secolo a scoprire questo sito. Oggi per le operare di restauro due giovani italiani stanno lavorando attorno alla cura e ripulitura delle sei colonne del tempio. Un’operazione importante che ha l’obiettivo di riportare all’antico splendore il colonnato e con esso tutto il sito. Sono due giovani appassionati e professionalmente molto preparati a cui è affidato quello che, visto da ventisei metri più giù – tanto sono alte queste colonne
– appare una impresa ciclopica. Lavorano in cielo e godono di un panorama che si espande a perdita d’occhio da sud a nord puntando ai confini caldi libano – siriano.

La seconda immagine arriva direttamente dal cuore fosco di Beirut. Siamo a Shatila.

Nel 1949 la Croce Rossa costruì un campo di raccolta per i Palestinesi in fuga dal proprio paese a seguito dell’aggressività delle forze militari e terroristiche israeliane. Doveva essere un rifugio temporaneo progettato per settemila persone. In realtà è un ‘non luogo’ che oggi, a settantanni di distanza ospita una umanità di 30 mila anime. Sono palestinesi ma anche siriani in fuga e persone di altre nazionalità che nei paesi di origine non si sentono affatto sicuri.

Shatila è nota per il massacro che venne perpetrato dalle milizie falangiste libanesi sotto l’occhiuta complicità delle forze militari israeliane nel 1982. Trentotto ore, dalle sei del pomeriggio del 16 settembre alle otto del mattino del 18 settembre, di terrore e violenza inaudita. Il corrispondente inglese che all’epoca entrò tra i primi nel campo, Robert Fisk, ha scritto un pezzo davvero impressionante su quanto ha visto in Shatila e del quale consiglio la lettura.

Nel 2018 Shatila è un luogo miserevole e brutto. Senza servizi, con scarsità d’acqua e con un odore pazzesco che aleggia su tutto. I vicoli sono stretti e sporchi. Una ragnatela di fili elettrici sovrasta le teste. Le case che un tempo dovevano essere basse sono state velocemente rialzate per fare fronte alla necessità di alloggi. Perché in Shatila si può solo andare verso il cielo visto che l’area è di fatto bloccata: in un chilometro quadrato vivono circa trenta mila persone.

Per entrare nel campo si deve costeggiare il Cimitero dei Martiri che a sua volta è affiancato da un posto di blocco dell’esercito libanese. Enormi blocchi di cemento restringono la sezione stradale. Una torretta con un militare armato controlla dall’alto l’intenso traffico di camion, macchine e pulmini che da questa porta accedono all’area del campo. Se al visitatore occasionale il luogo sembra essere uno spazio senza speranza è anche evidente che per chi ci abita è casa: luogo sicuro che divide da un fuori, per i palestinesi, ostile. Qui in Libano i palestinesi godono di pochi diritti e molti doveri.

Entrando nel campo a piedi si passa un arco dopo aver superato un murale con il volto di Arafat e si entra in una via piena di bancarelle e negozi che vendono di tutto. Quando non ci sono tensioni nel campo le strade sono un continuo andare e venire di persone. Dentro un vicolo stretto e fangoso incontriamo un lindo portone verdino attraversato il quale si accede in una scuola materna ed elementare ma anche centro d’incontro per socializzare problemi e difficoltà o per organizzare iniziative anche ludiche. Questo luogo è sede di un progetto dell’Associazione Beit Atfal Assumound (BAA), ente palestinese che opera in tutti e dodici i campi presenti in Libano e che organizza scuole per i bimbi palestinesi. L’azione portante dell’associazione è rivolta alle giovani generazioni avendo presente che è strategico e fondamentale il ruolo della cultura e dell’educazione a partire dai primi anni di vita.

I locali della scuola sono puliti ed accoglienti. All’ora di pranzo il profumo di cibo attraversa i corridoi e le aule. Il pranzo consumato insieme dalle bimbe e bimbi della scuola è un passaggio importante della giornata. Ai tavoli servono due ragazzi sorridenti che tradiscono un’aria ‘familiare’. Sono un ragazzo ed una ragazza italiani operatori di ‘Un ponte per’ e svolgono servizio di volontariato, assistenza ed aiuto. Sono sorridenti e sembrano davvero molto coinvolti in questa attività che certamente presenta aspetti anche complessi ma che vede i due giovani pienamente in relazione con il luogo, la struttura, la gente di Shatila e, soprattutto i bimbi.

Sempre Beirut e sempre a Shatila. Due studenti, uno canadese e un altro italiano svolgono una attività di volontariato ‘puro’ insegnando l’inglese ai bimbi. È una attività pomeridiana, un dopo scuola che attraverso giochi ed altre attività prova a trasferire conoscenze linguistiche ai bimbi di Shatila. Per i due volontari è una attività importante. Ne sono coinvolti e convintamente partecipi.

Qui in Libano, accanto alla perdita della propria terra i palestinesi hanno perso i propri diritti e tra questi quello dell’apprendimento. Ecco perché BAA si batte con vigore sui temi della scuola, dell’educazione, della cultura e della memoria nella convinzione che solo con la cultura diffusa si possa mantenere viva la propria identità e le proprie radici e migliorare le proprie condizioni di vita.

Ancora Beirut. Altri giovani. Chi lavora per ONG, altri sono arrivati attraverso il Servizio civile europeo e altri ancora sono qui seguendo i percorsi universitari Erasmus. In ogni caso una comunità di giovani provenienti da mondi diversi che però qui s’incontrano e si misurano con questioni complesse cercando attraverso le proprie sensibilità, interessi e competenze di dare un contributo attivo alla soluzione di problemi complessi condividendo esperienze, idee, curiosità ed intelligenze e provando ad entrare in sintonia con i giovani della società civile libanese. In sintesi ‘creare dei ponti’ tra le sponde diverse del Mediterraneo.

Nella rumorosa Beirut una comunità di donne e uomini giovane, intelligente, poliglotta e curiosa ha, probabilmente, inconsapevolmente attivato un modello relazionale che superando antichi schemi e barriere propone una lettura diversa del mondo creando luoghi di incontro. Ponti di scambio, appunto.