Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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intervento pubblicato dal settimanale Carta del 10 settembre 2010, n. 29

Benvenuti al Clandestino Day

di Nicola Grigion, Progetto Melting Pot Europa

Quando nell’agosto 2009 abbiamo cominciato a maneggiare la nuova
normativa approvata con il pacchetto sicurezza, non è stato difficile
immaginare un drammatico peggioramento delle condizioni di vita dei
migranti in questo paese.
Ciò che forse non eravamo stati in grado di cogliere in pieno è il
nuovo lessico che la politica del governo delle migrazioni stava
mettendo in campo.
Non è il momento di fare bilanci, ma proviamo ad addentrarci in
questo nuovo contesto per cogliere il livello della sfida sul quale
siamo chiamati a confrontarci.
L’immigrazione è un problema, mai
come in questo momento. Ovviamente, non perché i migranti siano un
problema per questo paese (mai lo abbiamo creduto, mai lo crederemo)
ma perché quello dell’immigrazione si sta rivelando da tempo il
terreno su cui il comando cerca continuamente di ridefinire le sue
possibilità, e sembra riuscirci. In molti, a questa stretta sui
diritti e le libertà, credevano potesse corrispondere una altrettanto
proporzionata risposta sociale. Così non è stato, per diversi
fattori. Primo fra tutti perché la crisi ha lavorato e stratificato
nel corpo sociale prima ancora che sulla finanza globale. Per i
movimenti è la partita è centrale e non aggirabile, per una uscita
dalla crisi che parli di un nuovo comune dei diritti per tutti.
Molte cose sono cambiate, alcune rappresentano la continuità di una
proposta di governo delle migrazioni che viene da lontano, altre sono
inedite, altre ancora stanno prendendo forma e faticano ancora a
risultare chiare.

Fino a qualche tempo fa, intorno al nodo
immigrazione-lavoro si risolvevano in avanti le enormi contraddizioni
che i movimenti migratori proponevano sul terreno della cittadinanza
e dei diritti a tutta l’Europa. Tutti, governanti compresi, facevano
i conti con questa centralità dei migranti nei processi produttivi.
Ma oggi quel nesso non sembra più da solo in grado di proporre una
architettura stabile. E non perché il lavoro migrante non esista.
Piuttosto perché il governo della mobilità sui corpi in movimento
si è spinto oltre, fino a diventare più compiutamente governo della
vita, e della morte.
Qualcosa si è rotto insomma ed il tentativo di gestire questa rottura
non poteva che essere violento. Ancora più di prima.
Tra le pieghe
del pacchetto sicurezza sono contenute alcune tracce di questo nuovo
linguaggio. L’accordo di integrazione per esempio, subordinerà a
breve il diritto di soggiorno dei nuovi arrivati (a patto che vi
siano quote a disposizione) ad una valutazione, non più attestata
solo sulle loro possibilità lavorative e abitative, come per anni
hanno voluto i ritornelli della politica, ma invece su una
radiografica ispezione degli stili di vita, delle capacità di
linguaggio, delle opzioni relazionali che esprimono i soggetti in
questione, misurate in crediti. Si tratta di una tra le tante norme
che, regolando la vita dei migranti «regolari», propongono un
mutamento qualitativo del ricatto e della precarietà del diritto di
soggiorno.
L’altra faccia di questo nuovo terreno di contesa è rappresentata
dalla clandestinità: il reato di immigrazione clandestina, i
respingimenti verso le torture libiche, il prolungamento della
detenzione nei Cie, hanno dato forma, materialmente e simbolicamente,
ad una nuova intensità del comando sugli esseri umani che neppure la
prima stesura della legge Bossi-Fini aveva saputo immaginare.
Su
questo terreno, quella della produzione della clandestinità, molto è
cambiato. I clandestini, lo sfruttamento, le violenze ci sono sempre
stati. Ma adesso bisogna cogliere la centralità che ha assunto questo
paradigma.
Appare sempre meno sufficiente una descrizione della clandestinità
che guardi solo alla condizione soggettiva di chi vive senza il
permesso di soggiorno e senza diritti. La clandestinità è diventato
piuttosto, fino in fondo, un paradigma politico sociale giocato su
diversi fronti, con diversi gradi di intensità e drammaticità. Anche
i precari della scuola e gli operai di Pomigliano (clandestini a modo
loro) sperimentano sulla loro pelle questo processo politico-sociale
di clandestinizzazione, delle idee, del linguaggio dei diritti, della
vita.
L’estate appena trascorsa ci ha lasciato una eredità che non
possiamo far finta di non portarci dietro e che ben sintetizza i
problemi sui quali siamo chiamati a confrontarci. La morte di
innumerevoli richiedenti asilo respinti dall’Italia verso la Libia
di Gheddafi, insieme alle rivolte che hanno attraversato la
stragrande maggioranza dei Cie italiani sono figlie di questo
paradigma della vita e della morte che la clandestinità oggi
rappresenta. Mentre coinvolgono violentemente i migranti, questi
stessi avvenimenti raccontano a tutti come il comando si sia spinto
oltre, con un grado di brutalità senza precedenti.
Non dobbiamo
rispondere solo per proteggere i migranti (non solo), ma perché
questo è il piano su cui si sta costruendo l’orizzonte della nostra
società nei prossimi anni.
Ciò che abbiamo di fronte ci riguarda eccome. Ecco perché bisogna
immaginare, dal prossimo Clandestino Day del 24 settembre in poi, di
ricostruire parte del nostro lessico, del lessico dei movimenti.
Sia chiaro, le lotte, i conflitti, non si sono mai fermati. Negli
ultimi anni anzi abbiamo forse sperimentato la proliferazione più
diffusa di battaglie, resistenze, rivolte, conflitti, dentro una
società che via via è parsa diventare nella sua interezza un centro
di detenzione a cielo aperto. La rivolta di Rosarno, le insurrezioni
che quotidianamente si registrano all’interno dei Cie, parlano
proprio di una conflittualità nuova, che è il prodotto neppure
troppo collaterale delle brutalità, dello sfruttamento, del
confinamento prolungato. Al tempo stesso sono espressione
dell’insufficienza collettiva che registriamo nel disegnare uno
spazio possibile dei conflitti e dei movimenti capace di proporre un
orizzonte, nuovi linguaggi, un nuovo comune dei diritti.
Con questo
dobbiamo fare i conti.
Ne abbiamo bisogno. È possibile.
È possibile immaginare di costruire a partire da questo terreno un
nuovo spazio pubblico dei movimenti. Le occasioni non mancano.
In
molte regioni è all’ordine del giorno la costruzione di nuovi Cie.
Il Veneto, la Toscana, le Marche, la Campania, saranno chiamate nei
prossimi mesi a questa sfida. In altre regioni l’esistenza dei
Centri di detenzione per migranti è un nodo ancora aperto e sempre
più significativo. Possiamo pensare una discussione
sull’immigrazione oggi che si confronti con questi temi?
Noi ci crediamo. Abbiamo il dovere di dare dignità a questa sfida.
Non si tratta di riprendere il filo di un discorso interrotto, ma di
tesserne uno nuovo, aperto, condiviso. Per i diritti dei migranti,
per quelli di noi tutti.
Se siamo d’accordo allora «Welcome!».
Benvenuti, queste sono alcune delle sfide che abbiamo davanti.

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Vedi anche:
clandestino day.carta.org