Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Bihać, l’esperienza dell’associazione locale “U Pokretu” (In movimento)

Intervista a Marine, fondatrice dell'associazione bosniaca in procinto di aprire un centro culturale

Fotografie dalla pagina facebook dell'associazione

Il vecchio centro culturale di Bihać è un edificio in stile jugoslavo e mattoni bianchi a due passi dal fiume Una. Sull’altro lato della strada, il gigantesco scheletro del Dom Penzionera: ex ospizio mai terminato, dal 2018 rifugio informale per centinaia di persone in transito che volevano raggiungere l’Europa, ora è vuoto, delimitato dal nastro giallo della polizia che lo ha sgomberato in primavera. Anche il centro culturale, a guardarlo da fuori, ha un aria dismessa. “Negli anni passati molte associazioni che lo animavano se ne sono andate e non è stato più mantenuto”, spiega Marine. “Da qualche mese però sta lentamente rifiorendo”.

Marine è francese, vive a Bihać dal 2019, alle spalle ha diversi anni di lavoro con i rifugiati. Prima di venire in Bosnia Erzegovina è stata volontaria in Francia, Italia e Turchia. A Bihać ha lavorato per la ONG IPSIA nell’ex-campo di Bira: cominciano con la semplice distribuzione del tè e nel giro di un anno riescono ad allestire uno spazio di aggregazione dove le persone possono socializzare e svagarsi. Poi a fine settembre 2020 Bira viene chiuso per le protese dei cittadini e le persone migranti vengono deportati nel campo di Lipa, a più di 20 km da Bihać.
Quando Bira ha chiuso sono stata molto male, era un posto dove abbiamo condiviso tanto. Ma mi ha anche aiutato a capire che non era quello che volevo fare: non potevo stare male perché chiudevano un campo, un posto dove delle persone erano rinchiuse”, racconta.
Con alcuni giovani amici bosniaci decide allora di mettere in piedi l’associazione locale U Pokretu (In movimento), insieme si danno da fare all’interno di alcune stanze del centro culturale per rimettere in sesto pavimenti, mura e soffitti. L’idea è quella di aprire un centro giovanile per i ragazzi e le ragazze del posto.

Fotografie dalla pagina facebook dell'associazione
Fotografie dalla pagina facebook dell’associazione

Cosa ti ha portato a voler aprire un centro giovanile qui a Bihać?

Già durante l’esperienza da volontaria in Turchia avevo partecipato a dei progetti di inclusione sociale dei rifugiati con la popolazione locale. E questo lato mi è piaciuto molto, mi sono resa conto che non si può lavorare senza prendere in considerazione il contesto che fa da contorno. Alla fine siamo tutti persone che abitano un determinato territorio in un determinato momento. Non è una visione umanitaria: penso che le attività umanitarie siano solo dei piccoli cerotti su piaghe molto più profonde. E’ ora di lavorare sulle piaghe, andare a cercarne le cause e non curare soltanto i sintomi. A maturare questo pensiero e cambiare la visione della cose mi ha aiutato stare tanto qui e conoscere le persone locali. L’influenza dei media, che parlano dei migranti come criminali, stupratori, soggetti da evitare o scacciare, è molto forte. Ma i locali non sono fascisti o xenofobi: vivono in una cittadina che si sta anch’essa svuotando a seguito di una migrazione che segue le stesse destinazioni di quella delle persone in transito che vogliono raggiungere l’Europa. E quindi abbiamo deciso di aprire questa ONG locale che si chiama “In movimento” appunto per richiamare sia la migrazione locale sia quella delle persone che arrivano dal Medio Oriente, dall’Africa, dall’Asia: per rendersi conto che siamo alla fine tutti alla ricerca di un futuro migliore.

Di Bihać si parla invece solo nei termini di Rotta Balcanica, senza prestare attenzione al tessuto economico e sociale della città.

Quello dell’Una-Sana è uno dei cantoni più poveri della Federazione e con il tasso di disoccupazione giovanile più alto. Bihać prima della guerra era una cittadina molto benestante, c’erano fabbriche tessili, era uno snodo di commercio molto importante, mentre dopo la guerra è stata devastata. Anche qui c’è stato per tre anni un assedio, come a Sarajevo. Ma l’economia non ce l’ha fatta a ripartire. Molta gente ha deciso di emigrare all’estero, in Germania, Austria, Croazia e Slovenia – o semplicemente di spostarsi a Sarajevo. I giovani sono molto attaccati a questa città, ma sanno che se resteranno qui non avranno molte opportunità di crescere. Negli ultimi 10 anni Bihać ha perso più della metà della sua popolazione. E’ una continua fuga non solo di cervelli, ma anche di manodopera. C’è per esempio, qui, una scuola superiore in cui si impara il mestiere di operatore sanitario, ma appena presa la maturità i ragazzi vanno in Germania a lavorare. Questo crea una mancanza enorme anche a livello di servizi, un problema che adesso è ben visibile e che in 10 anni sarà terribile. Da qui la voglia di fare qualcosa per i giovani locali aprendo questo centro giovanile, affinché possano attivarsi sul territorio, prendere coscienza e battersi per i propri diritti. Alla popolazione locale manca uno spazio di socializzazione e aggregazione per svolgere attività artistiche, musicali, culturali, ecologiche, sportive, e non da ultimo una promozione di scambi internazionali di volontariato e di cittadinanza attiva. Anche al fine di raccontare un’altra storia e mostrare che Bihać non è soltanto un luogo di passaggio, negativo.

Come integrerete il lavoro sul territorio con il supporto alle persone in transito?

Non vogliamo fare supporto diretto alle persone in transito, ma fare una sensibilizzazione maggiore rispetto ai loro diritti e alla loro condizione nella popolazione locale: vogliamo lavorare con i locali per aiutare i migranti a lungo termine. Siamo coscienti che non avrà un impatto immediato, però pensiamo sia necessario cambiare la visione delle cose che hanno le persone qui rispetto a quello che succede. Vogliamo lavorare con i ragazzi giovani che vivono nei campi e con i ragazzi locali, attraverso attività miste che creino uno spazio di dialogo e di scambio. Distribuire cibo o beni materiali è un’assistenza necessaria, noi cerchiamo tuttavia di andare più in profondità. Vogliamo portare la popolazione a capire cosa succede in Medio Oriente anche attraverso la proiezione di documentari non così mainstream e che non vedrebbero altrimenti. Sono piccoli passi, partendo da molto in basso, ma che penso porteranno i loro frutti nel lungo termine.
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Info:
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