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CPR – Non sono numeri, sono persone

La prassi di individuare gli “ospiti” dei CPR con un numero identificativo svilisce la dignità umana

Foto dal rapporto No one is looking at us anymore di Border Criminologies e Landscape of Border Control

Uno dei capisaldi della riforma penitenziaria attuata dal legislatore italiano è il tentativo di restituire dignità alla persona detenuta o comunque privata della libertà personale. Le modifiche intervenute nel tempo alla cosiddetta legge penitenziaria (legge 26.07.1975 n. 354) si fondano sull’idea che il detenuto sia pur sempre una persona e, in quanto tale, titolare di diritti che non sono incompatibili con il suo stato di restrizione. Ma soprattutto, riconosce il rispetto della dignità della persona detenuta che deve sempre pur sempre rimanere punto fermo e indiscutibile nel percorso detentivo. I detenuti, pertanto, conservano la titolarità dei diritti fondamentali riconosciuti in capo ad ogni persona anche se privati della libertà personale e costretti a vivere in regime di carcerazione. Non possono essere oggetto di discriminazione all’interno del carcere e non possono essere sottoposti a violenza fisica e morale.

Il rispetto di questi principi e della dignità della persona, che rimane sacro anche all’interno del carcere, passa attraverso una serie di precipue previsioni normative che mirano a valorizzare il percorso rieducativo e formativo all’interno degli istituti di pena e a garantire anche l’unicità di ogni singola persona finanche con programmi educativi e di lavoro personalizzati. Tra queste previsioni normative vi è quella dettata dall’art. 1 comma 6 della Legge 354/1975 che recita:” I detenuti e gli internati sono chiamati ed indicati con il loro nome ”. Non si tratta di un capriccio del legislatore, ma di una conquista del nostro ordinamento giuridico, una conquista che va difesa dagli arretramenti culturali ed ideologici che purtroppo sono in atto.

Non possiamo allora accettare che principi ritenuti fondamentali per chi è sottoposto a una pena detentiva non vengano, allo stesso modo, riconosciuti e garantiti a chi invece è sottoposto a una equale privazione della libertà personale ma in forza di un semplice provvedimento amministrativo. Il cosiddetto “trattenimento amministrativo” richiede la stessa attenzione e la identica vigilanza che si ha rispetto alle altre forme di privazione delle libertà. Eppure, troppo spesso, ciò non accade. Troppo spesso i luoghi deputati al trattenimento amministrativo sono zone grigie in cui si opera diversamente.

Accade così che gli individui che transitano all’interno di un CPR (Centro di Permanenza per i Rimpatri) possono trovarsi nella condizione di perdere il loro nome e cognome per divenire semplicemente un numero. Un numero tra tanti che li accompagna nella loro vita da trattenuti. Proprio come accadeva nella Germania nazista quando i deportati perdevano ogni dignità di persona umana e diventavano appunto semplicemente numeri. Da quel numero passa la disumanizzazione, la perdita totale di consistenza umana di queste persone (oggi come ieri). I numeri non hanno diritti, i numeri non possono lamentarsi.

L’assegnazione di un numero identificato in sostituzione del proprio nome e del proprio cognome porta appunto verso la cancellazione della identità della singola persona che meglio si addice a una struttura pensata come luogo di smistamento di persone che devono essere appunto cacciate via, allontanate dalla nostra società e rimandate al mittente secondo una procedura amministrativa che non deve avere intoppi perché alla fine di ogni anno occorre dare conto politicamente dei numeri che si sono prodotti. Più persone riescono a transitare in quelle strutture e velocemente ad essere rimpatriate, meno tempo si perde con le noiose questioni di diritto, più il risultato finale sarà spendibile politicamente dal ministro di turno.

A distanza di molti anni, ecco ritornare quella pratica collaudata nei peggiori istituti di pena e nei campi di sterminio, nei confronti questa volta degli stranieri irregolari che si trovano sul nostro territorio. Una pratica utilizzata con molta tranquillità all’interno del CPR di Palazzo San Gervasio, tra i funzionari della Questura di Potenza, finanche da parte dei giudici. Una pratica che dimostra tutto il distacco e il disprezzo nei confronti di queste persone che oltre a perdere ogni diritto e ad essere mortificati e colpiti nella loro dignità, perdono finanche lo status di esseri umani. Un giorno sei una persona, il giorno dopo diventi semplicemente un numero, un inutile numero di cui nessuno ha cura.

Se tutto questo può apparire non grave, una misera leggerezza agli occhi dei non addetti ai lavori e degli ingenui, a chi opera da anni nel campo dei diritti umani dovrebbe invece suonare come un campanello di allarme di quanto mostruosa sta diventando la pratica dei rimpatri, della detenzione amministrativa e, più in generale, tutto ciò che attiene alle politiche migratorie.

Avv. Arturo Raffaele Covella

Foro di Potenza.
Sono impegnato da anni nell’ambito della tematica del diritto dell’immigrazione, con particolare attenzione alla protezione internazionale e alla tutela dei lavoratori stranieri. Collaboro con diverse associazioni locali che si occupano di migrazioni. Scrivo per diverse riviste.