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CPT – Commento alla decisione di istituire una Commissione ministeriale di valutazione

Il governo ha attivato la procedura per costituire una Commissione ministeriale che dovrà giudicare, o comunque valutare, le condizioni esistenti nei Centri di Permanenza Temporanea (CPT) per migranti.
L’iniziativa del Viminale prevede che a comporre questa Commissione siano otto persone così suddivise: due del Ministero dell’Interno, una dell’ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia), quattro rappresentanti di associazioni e una persona operante nel settore dell’informazione.
Alla riunione tenutasi poco tempo fa hanno partecipato alcune associazioni appositamente invitate dal Sottosegretario all’Interno On. Lucidi, che ha già avuto occasione di incontrare il Comitato Diritti Umani, Amnesty International, ACLI, Asgi, Arci, Comunità di Sant’Egidio, Caritas, Federazione Chiese Evangeliche, Cir, Msf, Padri Comboniani, Centro Astalli e Associazione Migrantes.
Nel corso dell’incontro il Sottosegretario all’Interno ha prospettato la costituzione della Commissione che dovrebbe svolgere una funzione conoscitiva, di indagine al fine di – e questo è l’aspetto più difficile da comprendere nel dettaglio – elaborare delle proposte rispetto ad un possibile superamento dei CPT o della modifica dell’attuale loro strutturazione.

Alcune perplessità sulla Commissione ministeriale
Se lo scopo è quello di acquisire elementi di analisi e proposta per le finalità sopra individuate, suscita qualche perplessità la volontà di costituire una Commissione che non sarebbe terza, o neutra, rispetto alla compagine governativa (sopratutto rispetto all’apparato ministeriale).
Una commissione che per la metà è composta da membri di designazione ministeriale legittima infatti il timore che i lavori siano tenuti in qualche modo sotto un certo controllo da parte della componente ministeriale. Difficilmente possiamo immaginare che la componente ministeriale, o le persone di fiducia, possa mettere in discussione l’operato dell’amministrazione di questi ultimi anni, e non ci riferiamo soltanto all’operato dell’amministrazione dell’ultimo governo.
Se è difficile aspettarsi che un generale critichi l’uso della forza militare, allo stesso modo è difficile immaginare che dei membri di designazione ministeriale possano sostenere e proporre il superamento dell’attuale sistema dei CPT.
E’ difficile infatti immaginare che si possa parlare di un superamento dei CPT in un quadro normativo che continua a produrre tuttora una condizione di irregolarità dei migranti.

Per regolarizzarsi bisogna essere prima clandestini
Lo stesso sistema del preteso governo dei flussi migratori (attraverso il noto metodo delle quote) di fatto conferma e avvalla, la presenza irregolare in Italia quale unica condizione per poter sperare in un soggiorno regolare in Italia. Essendo noto che nessuno assume persone che non ha mai visto né conosciuto, chi utilizza le quote di fatto sta già lavorando per quel datore di lavoro che, non a caso, ha deciso di presentare la domanda di autorizzazione all’assunzione.
In sostanza la quasi totalità degli utilizzatori delle quote sono i diretti interessati, cioè quelli che dovrebbero essere all’estero in attesa dell’autorizzazione.
Con un sistema normativo di questo genere è chiaro che è difficile immaginare un superamento dei CPT.
Con questo non si vuol dire che lo Stato dovrebbe rinunciare completamente al suo potere di espulsione dei soggetti considerati pericolosi, tuttavia è chiaro che di fronte a una normativa che produce una quantità di clandestini esorbitante è difficile immaginare che si possa smantellare completamente un apparato repressivo. Si deve anche considerare che il CPT, di per sè, come struttura che dovrebbe favorire l’esecuzione del provvedimento di espulsione, si è dimostrato un metodo sostanzialmente inefficace, ovvero un sistema che incrementa l’allarme sociale della popolazione sul territorio. Si pensi a tutte le proteste che regolarmente si levano da parte della popolazione e degli amministratori locali ogniqualvolta si prevede l’attivazione di un CPT in un determinato territorio.

A cosa servono i CPT?
Dubitiamo che i CPT, al di là di produrre una condizione di reclusione, maggiore allarme sociale e una enorme spesa pubblica, abbiano anche prodotto una maggiore certezza, o quanto meno un’effettività dei provvedimenti di espulsione. E ciò per diversi motivi. Si pensi infatti alla circostanza che, nel momento in cui uno straniero non è identificabile, l’internamento in un CPT non serve assolutamente a nulla, mentre se lo straniero è già identificato (ad esempio perché in passato aveva il pds quindi è già pienamente identificato quanto a cittadinanza, impronte digitali, dati somatici) è chiaro che a quel punto l’internamento nel CPT non serve.
In altre parole, un conto è parlare di CPT come strutture detentive che dovrebbero assolvere alla funzione di identificazione degli stranieri, un conto è invece parlare di mera presenza coatta in zone di transito degli aeroporti o dei porti nel tempo strettamente necessario per eseguire l’espulsione di una persona che sia già preventivamente identificata.

Le espulsioni reali sono meno di quello che viene prospettato
Il motivo per cui, nella quasi totalità dei casi, l’espulsione non si esegue, non risiede nel periodo di tempo limitato in cui lo straniero viene trattenuto nel CPT. Se anche volessimo prolungare la detenzione nei centri, questo non aggiungerebbe nulla rispetto alla effettiva possibilità di organizzare una espulsione. All’epoca in cui la legge Bossi-Fini (L. 30 luglio 2002, n. 189) spostò da 30 a 60 giorni la durata massima della detenzione (art. 14, comma 5, T.U. sull’Immigrazione), anche molti operatori della polizia osservarono che questa norma non aveva senso pratico dal momento che, se ci sono le condizioni per poter identificare uno straniero, si riesce a farlo molto prima dei 30 giorni. Di fatto, l’allungamento del periodo di trattenimento nel CPT serviva solo ad aumentare la spesa pubblica e ad ingrassare gli appaltatori dei servizi all’interno delle strutture, ma non ad aumentare le possibilità di effettiva espulsione.
Molto spesso le espulsioni non si eseguono e quindi le persone internate nei CPT – dopo un periodo di detenzione – vengono rimesse in libertà sul territorio italiano. Per lo più ciò avviene per il semplice motivo che non è stata possibile la loro identificazione a causa della mancanza di accordi effettivamente operanti con i paesi di provenienza, non sussistendo quindi la concreta possibilità di identificazione. Inoltre, la mancata esecuzione dell’espulsione spesso avviene perchè queste persone sono apolidi (quindi non è possibile obbligare nessuno Stato estero a prenderle in consegna), oppure perché provengono da Stati nei quali non è concretamente o tecnicamente possibile eseguire l’espulsione per motivi connessi alla condizione geografica e politica. Vi possono poi essere situazioni che giustificano la permanenza sul territorio italiano in base a norme speciali, come per esempio la convivenza con parenti di cittadinanza italiana (art. 19, comma 2, lett. c), T.U. sull’Immigrazione) o il matrimonio con cittadini italiani, o il rischio fondato di persecuzione nel caso in cui fosse attuato il rimpatrio nel Paese di provenienza.

In pratica, anche se non è possibile avere dei dati certi e attendibili al riguardo, sappiamo che una larga parte dei soggetti che vengono internati nei CPT vengono rimessi in libertà, anche se vi era stato tutto il tempo tecnicamente necessario per tentare una identificazione. Questo dovrebbe essere la prova lampante che la struttura in quanto tale non serve, non aggiunge e non toglie praticamente nulla alle effettive possibilità di espulsione, ma, semmai, non costituisce altro che un elemento di imbarbarimento di una politica sull’immigrazione che produce da un lato le condizioni della irregolarità, e dall’altro fa finta di rimediare con provvedimenti che producono un inutile aumento della spesa pubblica.

Ma quanto costa un CPT?
Sarebbe interessante vedere l’effetto delle enormi somme (ovviamente non sono pubbliche) usate per la gestione di questo sistema espulsivo se destinate, invece, ad una politica di integrazione. Siamo sicuri che ci sarebbero maggiori risultati anche dal punto di vista di un alleggerimento delle tensioni sociali attualmente esistenti in Italia in relazione al fenomeno migratorio.
Ma i dati sui CPT non sono trasparenti. Una recente indagine condotta dalla Corte dei Conti ha messo in evidenza soltanto la spesa inerente la stretta gestione dei CPT (per appalti e forniture), ma non ha potuto considerare una spesa che non è separatamente individuabile e cioè quella dell’apparato di polizia nell’attività di custodia, dei servizi di trasporto delle persone internate dai luoghi dove vengono fermate ai CPT, e poi dai CPT stessi ai luoghi da dove dovrebbero essere fatte partire e imbarcate su aerei o navi. A ciò si deve poi aggiungere il costo per pagare i costi di trasporto con voli individuali, charter o altri sistemi.
Questa spesa è enorme e non si sa con esattezza a quanto ammonta.
Inoltre i CPT realizzano al loro interno delle condizioni di sopravvivenza che sono per certi aspetti peggiori di quelle carcerarie. Ad esempio, é noto – e ripetutamente segnalato con riferimento a molte di queste strutture – che gli internati nei CPT si vedono privare del loro telefonino senza motivo, visto che non si tratta di detenuti in regime di massima sicurezza.
La preoccupazione che questa Commissione ministeriale non possa andare oltre a dei sopralluoghi per verificare le condizioni di vita all’interno di queste strutture, è evidentemente legittima.
Ci auguriamo che la Commissione non sia indotta semplicemente ad effettuare un giro di visite programmate anche perché si può temere che, come è capitato qualche mese fa ad una , nel momento in cui ci si presenta all’ingresso del CPT, si scopre una struttura quasi svuotata dei suoi ospiti (spostati altrove) e dove sono state fatte le “pulizie di primavera”.

Serve una politica sull’immigrazione diversa
Vogliamo credere che nell’attuale Governo vi sia la volontà di prendere seriamente in considerazione una possibile diversa politica sull’immigrazione. Vogliamo considerare che le aperture manifestate dal sottosegretario dell’Interno Lucidi o dal Ministro per la Solidarietà Sociale Ferrero, rappresentino quanto meno un primo passo per iniziare una riflessione più approfondita. Da questo punto di vista confidiamo che l’attuale compagine governativa sia costituita da persone che sappiano ascoltare. A questo riguardo il 15 giugno a Roma, si è svolto un seminario di presentazione del documento di proposta sulla normativa dell’immigrazione e asilo in Italia, elaborato da Asgi e Magistratura democratica.
Il documento, costituito su 10 punti per una nuova politica dell’immigrazione, è stato illustrato dai rappresentanti delle suddette Associazioni ed è stato apprezzato dal Ministro Ferrero e dal Sottosegretario alla Giustizia Manconi. Vedremo se poi si sapranno trarre delle conseguenze pratiche…