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dall'Espresso del 25 marzo 2005

Cacciati all’inferno

di Fabrizio Gatti

** Ringraziamo l’Asgi per la segnalazione

Un uomo in lacrime davanti alle telecamere dei telegiornali. “Vorrei”, dice, “che tutti gli italiani avessero avuto l’incontro che adesso ho avuto io con questa gente che ha perso tre figli, che ha perso la moglie, che sperava di venir qui a trovare un Paese libero, democratico in cui poter lavorare, in cui potersi affermare…”. È la sera del 28 marzo 1997 e da poche ore si è consumata la strage del Venerdì Santo: 84 immigrati albanesi, una trentina i bambini, morti annegati nel Canale d’Otranto dopo lo scontro tra la motovedetta su cui erano stati ammassati e la nave da guerra italiana Sibilla. E chi parla e piange in tv quella sera non è un attivista della sinistra. È Silvio Berlusconi, allora leader dell’opposizione. Otto anni dopo Berlusconi è sotto accusa in Europa per la decisione del governo italiano di restituire alla Libia gli stranieri che sbarcano in Sicilia. Gli ultimi sono stati rimpatriati pochi giorni fa. Una tragica odissea che quasi sempre si conclude con l’espulsione nel deserto. E che, come ha scoperto e raccontato ‘L’espresso’ la scorsa settimana, è già una strage: 106 i morti finora ammessi dalle autorità, tutti immigrati africani abbandonati tra sabbia e dune al confine con il Niger e caricati sui camion in viaggi organizzati da trafficanti senza scrupoli. La notizia delle deportazioni nel Sahara è arrivata a Strasburgo, al Parlamento europeo, dove sta per essere presentata una mozione di condanna per l’Italia (vedi box nella pagina a fianco). E a Ginevra, dove l’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati attraverso il suo portavoce, Ron Redmond, ha criticato il rimpatrio forzato verso la Libia e la decisione del ministero dell’Interno italiano di impedire agli osservatori delle Nazioni Unite l’incontro con gli immigrati nel centro di detenzione di Lampedusa. In cinque mesi è la seconda protesta dell’Onu contro il governo Berlusconi.

Laura Boldrini, lei è la rappresentante in Italia dell’Unhcr. Perché queste critiche?

“Perché con il suo comportamento l’Italia non ci consente di svolgere il nostro mandato internazionalmente riconosciuto”.

L’Italia è dunque fuori del diritto internazionale?

“Noi diciamo che l’Italia non sta rispettando i suoi obblighi internazionali in materia di rifugiati e di richiedenti asilo”.

Il governo italiano ha da poco rimpatriato altri immigrati verso la Libia. L’Unhcr sa dove finiscono queste persone?

“Sappiamo che vengono portati in Libia. Ma non sappiamo cosa succede dopo per il semplice fatto che i nostri colleghi a Tripoli non hanno accesso alle notizie sui richiedenti asilo, compresi quelli riportati in Libia dall’Italia”.

Chi dovrebbe informarvi sulla destinazione degli immigrati restituiti dall’Italia?

“In questo caso il governo libico. Ma quando i colleghi del nostro ufficio in Libia chiedono queste informazioni, non ottengono mai risposte”.

Sapevate che l’operazione di sbarramento dell’immigrazione chiesta dall’Italia a Gheddafi ha già provocato, da settembre, 106 morti nel deserto?

“Purtroppo non abbiamo accesso nemmeno a questo tipo di informazioni. Non esiste un quadro della situazione”.

L’Unhcr era stato informato del fatto che migliaia di immigrati, 14 mila soltanto in febbraio, sono stati espulsi nel deserto del Sahara e del Ténéré?

“L’Alto commissariato l’ha saputo soltanto da fonti giornalistiche. Non abbiamo fonti dirette per accedere alla verifica di queste notizie”.

La Libia vi ha comunicato l’esistenza di un campo di detenzione in mezzo al deserto, nell’oasi di Al Gatrun, dove migliaia di stranieri sono rinchiusi in attesa di essere portati al confine nel Sahara e dove i detenuti ricevono un solo pasto ogni due giorni?

“In Libia non ci lasciano fare il nostro lavoro. Sapevamo già di un altro campo nel deserto, Al Kufr, sulla rotta per il Sudan. Ma solo perché alcuni rifugiati fuggiti dal campo e sbarcati in Italia ci hanno raccontato di essere state rinchiusi lì dentro: ricevevano un piatto di riso al giorno e l’acqua una volta ogni due giorni”.

Nonostante queste gravi lacune nel rispetto delle convenzioni sui diritti umani, l’Italia ha stretto con la Libia un patto sulla sorte di decine di migliaia di immigrati: conoscete i termini dell’accordo?

“L’accordo tra Italia e Libia noi non abbiamo mai avuto modo di vederlo. Quello che il governo italiano sta facendo su base bilaterale con la Libia nessuno lo sa. L’Italia ha fornito soldi, tende, container, mezzi. Ma a cosa serve tutto questo non è mai stato spiegato. A costruire campi di detenzione nel deserto? Non lo sappiamo. Una cosa però la conosciamo con certezza”.

Quale?

“Che la Libia non è un Paese d’asilo sicuro. Quello che segue dopo il rimpatrio dall’Italia va contro qualsiasi tutela di queste persone. Dubito che in Libia gli stranieri possano fare domanda di asilo. Se vengono rimandati nei Paesi d’origine, come è già successo, questa è una grave violazione del diritto internazionale sui rifugiati. Si chiama ‘refoullement’: nel diritto internazionale c’è il divieto assoluto di respingere i rifugiati nei Paesi d’origine. Noi invece avevamo proposto che prima dell’accordo si sviluppassero in Libia progetti di ‘istitutional building’: significa formare il personale di polizia, istituire una rete di protezione dei diritti umani attraverso la creazione di Ong. Ricordo che Tripoli non ha mai firmato la convenzione di Ginevra”.

Questo per quanto riguarda la Libia. E l’Italia lascia che l’Unhcr collabori con le autorità?

“Lo prevede la legge Bossi-Fini. Normalmente abbiamo sempre avuto accesso ai centri di identificazione e ai Cpt, i centri dove gli stranieri attendono il rimpatrio. Ma negli ultimi sei mesi per ben due volte ci è stato negato il permesso di accedere al centro di Lampedusa dove erano state raccolte centinaia di persone appena sbarcate. L’ottobre scorso ci hanno lasciati entrare con un ritardo di cinque giorni, quando gran parte degli immigrati era già stata rimandata in Libia”.

E dopo gli sbarchi del 13 marzo?

“Il prefetto di Agrigento ci ha impedito l’ingresso per motivi di sicurezza. Sicurezza? Da 55 anni lavoriamo nei centri profughi di tutto il mondo, in situazioni ben più pericolose”.

Secondo voi, perché non vi fanno entrare?

“La mancanza di trasparenza alimenta i dubbi. Il diniego della prefettura, che poi è il ministero dell’Interno, ci porta a essere dubbiosi sulla liceità di quanto Italia e Libia stanno facendo. Se non c’è nulla da nascondere, perché non ci viene dato l’accesso? Il nostro obiettivo è di collaborare con il governo italiano nel rispetto delle procedure e delle leggi. Il nostro approccio è che l’asilo venga dato a chi ne ha titolo, altrimenti si impoverisce questo istituto. Ma è l’accesso alla richiesta d’asilo che deve essere sempre garantito”.

Tre funzionari libici però sono stati ammessi nel centro di Lampedusa.

“Questo è un altro fatto assolutamente scorretto. In base al diritto internazionale, nessuna autorità di un Paese straniero potrebbe accedere ai centri dove ci possono essere dei richiedenti asilo di quel Paese”.

Quali altre violazioni del diritto internazionale ha commesso il governo italiano?

“Sono almeno sei. Il mancato accesso agli inviati dell’Unhcr. Il fatto che le procedure di identificazione verrebbero fatte in maniera sommaria. L’accesso alla richiesta d’asilo stabilita in base alla nazionalità: tunisini ed egiziani, ad esempio, verrebbero rimpatriati. Gli immigrati respinti sono caricati sugli aerei senza sapere che stanno per essere riportati in Libia. L’assenza di riscontri sul rispetto delle procedure di convalida: non sappiamo se i decreti di respingimento vengono valutati da un giudice o no”.

L’Unhcr si occupa solo di rifugiati e richiedenti asilo. Chi protegge in Libia gli immigrati rimpatriati dall’Italia che cercavano solo un lavoro?

“Praticamente nessuno”.

La parola al Parlamento di Strasburgo

“Porteremo il caso davanti al Parlamento europeo. Per gli immigrati espulsi nel deserto e per le drammatiche conseguenze dell’accordo con la Libia sui rimpatri chiederemo la condanna dell’Italia. Ma non solo”. Per Helene Flautre, presidente della sottocommissione per i Diritti umani di Strasburgo, tutta l’Europa è responsabile di quanto sta accadendo: i 106 morti nel Sahara nei primi sei mesi di operazioni, i campi di detenzione nel deserto e le sofferenze alle quali sono costretti da settembre decine di migliaia di immigrati africani. Soltanto in febbraio sono 14 mila gli stranieri espulsi dalla Libia nel deserto in base all’opera di sbarramento chiesta dall’Italia. Tra loro, i clandestini rimpatriati da Lampedusa e gli immigrati che in questi anni avevano trovato lavoro in Libia. “Ma la responsabilità non è solo dell’Italia”, dice Helene Flautre, “perché questa operazione tra Italia e Libia è stata decisa con il tacito accordo dei governi della Germania e della Gran Bretagna e con il tacito accordo della Commissione europea. Basti pensare che chi nella Commissione dovrebbe occuparsi dell’applicazione del diritto è un italiano, l’ex ministro Franco Frattini.

Quindi la Commissione europea non potrà sostenere di non sapere. Presenteremo una mozione di condanna ricordando che l’immigrazione non è una questione soltanto italiana. Perché quanto sta succedendo in Libia è il frutto della politica di tutta l’Unione europea. È deplorevole che l’Europa abbia scelto di scaricare il problema sui Paesi più poveri”. Del caso si sta interessando anche Monica Frassoni, del gruppo dei Verdi al Parlamento europeo. Pasqualina Napoletano fa invece parte della delegazioni per i rapporti con i Paesi del Nord Africa: “Il rimpatrio degli immigrati in Libia e il dramma delle espulsioni nel deserto”, dice, “sono il frutto del cinismo europeo. Stiamo scaricando il problema dei clandestini pur sapendo che li stiamo mandando in Paesi che non garantiscono i diritti umani”.