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Caporalato libanese

da Beirut, un articolo di Baalbek

Beirut – Sono arrivato a Beirut solo da una settimana, quanto basta per farsi inghiottire e trascinare dal suo meraviglioso quanto affascinante caos. Un caos che si regge su un equilibrio fragile, i cui tentacoli arrivano dappertutto: nel traffico dove i clacson sono un linguaggio abusato, nei palazzi grandi e lussuosi che si stagliano nel cielo accanto a palazzi piccoli e crivellati di colpi. Un caos che può esasperare, che può affascinare e che per adesso sembra reggere come il silenzio nell’area pedonale della downtown.

Per un paio di giorni mi sono fermato a Furn el-Chebbak. Quartiere cristiano che si affaccia su Shara Damashq (Strada di Damasco). Durante il periodo della guerra civile questa parte di Beirut si trovava esattamente lungo la “green line” la linea del fronte che tagliava in due la città separando la parte Ovest da quella Est. Oggi, invece è un quartiere che sta subendo una forte gentrificazione passando da essere un quartiere popolare a residenziale e borghese. Qua e là per le strade e i vicoli si trovano bandiere libanesi e ritratti di Michel Aoun. Il nuovo presidente, cristiano-maronita, eletto il 31 ottobre 2016, dopo quasi due anni e mezzo di dibattiti e votazioni fallite.

Girovagando per il quartiere mi sono imbattuto in diverse occasioni in alcuni palazzi in costruzione. L’attività edile, in Libano, è tutt’ora un settore florido, e la sua bolla immobiliare è ancora in crescita.

Negli ultimi 5 anni, con l’arrivo dei profughi siriani, i prezzi delle case e degli affitti hanno subito un impennata e solo attualmente si stanno stabilizzando, comunque su un livello abbastanza alto. Per questo il mercato immobiliare resta un attività proficua, ma questa non è l’unica motivazione.

Gli imprenditori edili si avventano solitamente su palazzi abbandonati o ruderi distrutti dalla guerra, e ne approfittano per ricostruire nuovi palazzi molto spesso lussuosi, moderni e luccicanti, in pieno stile Dubai o Qatar.

Nel mio nomadismo per Furn el-Chebbak, ho avuto modo di scoprire una realtà diversa, rispetto agli altri quartieri turistici, ma che in Italia conosciamo bene ossia quella del lavoro nero.

I palazzi che mi hanno colpito di più sono due, poco distanti l’uno dall’altro, dove all’interno si vedono lavorare una quindicina di muratori. Tutti hanno una cosa in comune: sono siriani e vivono nelle fondamenta del palazzo che stanno costruendo.

In Libano, i rifugiati, sia essi palestinesi che siriani, hanno accesso a pochissimi lavori, uno di questi è il muratore. Grazie a ciò si è diffuso, soprattutto nelle zone periferiche della città, un sistema capillare di caporalato: dato che per i libanesi e i palestinesi il salario da pagare è troppo alto, si preferisce reclutare i siriani che accettano di lavorare per salari bassissimi.

Naturalmente poi i costruttori non rispettando nessuna norma e disponendo di manodopera sotto pagata e sfruttata, vendono i loro nuovi e fiammanti palazzi a cifre esorbitanti, garantendosi guadagni non indifferenti.

Le condizioni sul lavoro sono alquanto precarie, tutti lavorano dalle otto alle dieci ore al giorno ma senza nessun tipo di protezione o sicurezza contro gli infortuni.
Le condizioni di vita, oltre ad essere precarie, sono anche abbastanza degradanti e non sono proibitive solo perchè seppur sia già novembre il tempo continua ad essere buono, le temperature sono medio alte e la notte si riesce ancora a dormire all’aperto. Probabilmente tra un paio di mesi tutto ciò cambierà e si troveranno abbandonati a se stessi a dover affrontare freddo e pioggia.

Nel primo palazzo su cui mi sono soffermato gli operai vivono al pian terreno, non c’è elettricità, ne si vede la doccia, dalla strada si notano dei materassi tirati per terra con delle coperte polverose sopra, mentre i panni sono stesi in disparte su un filo legato a due muri.

Nel secondo palazzo invece dormono nelle fondamenta, in corrispondenza dei garage suppongo. Qui ci sono diversi divani e alcuni materassi. A differenza degli altri, qui, hanno la luce e un piccolo ventilatore.

In questa immagine non posso fare a meno di leggere l’espressione più pura del capitalismo, i lavoratori devono costare poco, essere sempre disponibili e ancora meglio se sono a disposizione a qualsivoglia ora del giorno. Tutto intorno, nel quartiere, la vita scorre tranquilla nessuno che è infastidito o quantomeno sorpreso.
Nella guerra tra poveri anche chi ottiene un lavoro mal pagato può ritenersi fortunato. Per esempio i palestinesi non lavorano quasi mai e ciò rende i siriani quasi dei privilegiati.

Quando qualcuno comprerà casa qui probabilmente non saprà come questa casa abbia tre piani e sicuramente parcheggiando il suo suv nel garage ignorerà che è stata l’abitazione di almeno 20 persone per svariati mesi.

Si vive come in una specie di bolla, una routine talmente ripetitiva da essere alienante. Ogni giorno si assomiglia e resta uguale a ieri e sarà esattamente come domani. Ognuno che rispondendo a qualche domanda non fa che ripetere il suo mantra interiore e collettivo “Almeno qui si può lavorare. Almeno qui non c’è la guerra.”

Anche oggi scende la notte, placida e tranquilla, in questa parte della città i feroci clacson si sentono solo in lontananza. Domani è l’ennesimo giorno di lavoro per chi è considerato “fortunato” in un paese di rifugiati.

Baalbek