Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
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Celati alla luce del giorno

di John Doe, MAZ

Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto.
Levitico

E fu sera e fu mattina, centocinquantaquattresimo giorno.
Salpammo in più di cento dalle coste di Tripoli, con pochi soldi nelle tasche e tanto stipati su quel malandato barcone da dover lasciare a terra anche l’unico dio nel quale sapevamo pregare.
Per noi le acque erano l’unica via di salvezza, la più sicura seppur remota possibilità di scampare alla morte.
Il mare era la strada verso una meta ignota.
In quella notte in cui le prime luci sono comparse, riflesse sulla superficie dell’abisso, siamo stati condotti a riva da uno scafo della marina italiana come si fa con i criminali colti in flagrante, rei di aver chiesto più dignità del dovuto.
Ci hanno scortati, accompagnati, e ospitati tra queste quattro mura, che a quanto ci è stato riferito nella loro lingua rappresentano il migliore sinonimo di accoglienza.
Giunti in fila indiana dinnanzi al cancello principale una guardia chiedeva ad ognuno la propria nazionalità, ingnaro del fatto che i naviganti non appartengono ormai più a nessun luogo.

E fu sera e fu mattina, centocinquantacinquesimo giorno.
Il Centro di Identificazione ed Espulsione di Lampedusa si erge a ridosso di un gruppo di scogli sui quali, dalle grate delle finestre, spesso possiamo osservare i gabbiani consumare il loro pasto fresco appena cacciato, probabilmente più invidiabile della nostra carne scaduta da ormai una settimana. D’ altronde non ci si può certo lamentare quando si è ospiti in casa di altri, nè della qualità del cibo offerto, nè tanto meno delle abitudini dei padroni di casa, anche qualora queste consistano nel dover assumere qualche dose di sonnifero per restare più mansueti, rinunciare all’igiene personale per una decina di giorni o ricevere la quotidiana lezione di civiltà dal manganello facile di turno.
E’ così che passiamo le giornate qui, in quello che è stato ribbatezzato “Centro di Prima Accoglienza”, perché dare un nome diverso alle cose, da quanto abbiamo imparato, è comunque un valido metodo per cambiare le cose.
Dobbiamo considerarci fortunati per essere arrivati fino qui, perché c’è chi si è fermato prima. Come Yassin, che veniva dall’Eritrea, e il mare se l’è preso. Era già stato in gabbia, arrestato senza motivo e chiuso in uno dei tanti lager libici. Voleva fuggire per recarsi in Svezia, dove in un altro centro di accoglienza c’erano ad aspettarlo sua moglie e un figlio di cinque anni. O come Aylan, che ai cinque anni non è arrivato. Il mare s’è preso pure lui.

E fu sera e fu mattina, centocinquantaseiesimo giorno.
Girano voci qua dentro, storie di cose che sono successe qui o in altri centri simili a questo. Parlano di Reda, di Moustapha, e di tanti altri, morti durante la loro permanenza in circostanze poco chiare.
C’è chi ha tentato di fuggire, c’è chi ci è pure riuscito, seppur rinunciando alla propria vita.
Perchè per uscire dall’inferno si è disposti a pagare. Tanto. C’ è chi ha provato ad infliggersi dolore, chi ad arrecarsi ferite, soltanto per la speranza di essere condotti in un centro sanitario più adeguato. Ibrahim si è tagliato le vene all’altezza dell’incavo interno del gomito del braccio destro. Mostra la ferita sanguinante con grossi punti che la ricuciono. Cucite come sono le nostre bocche, a cui è stato impedito di reclamare il rispetto. Rispetto che abbiamo provato di prenderci un anno fa, con le forze che ci restavano in corpo, ma la nostra richiesta si è dispersa tra il fumo dei lacrimogeni e i proiettili di gomma.
Non ha diritti chi non esiste, come noi. Altrove ci chiamano sans-papier, senza carte. Qui ci chiamano clandestini, dalla loro lingua antica clam-des-tìnus: nascosto, celato alla luce del giorno.
Siamo qui, esistiamo, siamo sempre esistiti e probabilmente sempre esisteremo. Ma non ci vedi, ci tengono nascosti. Come merce di contrabbando. Pietre scartate dai costruttori. Figli illegittimi. Fratelli in esilio.
“Fermate l’ invasione”, qualcuno ci ha chiesto. E pensare che lo stesso lo chiediamo noi da secoli, ai loro progetti coloniali di ieri, alle loro multinazionali di oggi che devastano e depredano le nostre terre. Ma quello che conta, oggi, è la nostra invasione. Perchè il passato è passato, il presente è il presente, e scrivere la storia è sempre stato un privilegio per pochi.

E fu sera e fu mattina, centocinquantasettesimo giorno.
Alì è stato fuori, prima di finire qui dentro. Ha visto il loro mondo, ma loro non lo accettavano. Non ci accettano. Dicono che infanghiamo le loro tradizioni, ma pregano un profeta venuto da Oriente. Dicono che siamo il nemico perché veniamo da terre lontane, ma altrettanto non fanno con i ricchi mercanti delle americhe. Dicono che imponiamo con forza e coercizione i nostri modelli di vita, ma danno credito alle imposizioni dei loro sacerdoti.
A questi, là fuori, vorremmo dire che il nemico non siamo noi, noi che il nemico l’abbiamo conosciuto, per le strade di Asmara, di Mogadiscio, ad Abuja, a Karthum. Se il nemico per voi è chi ruba il pane, chi si nutre del vostro deserto, allora, in verità vi dico, il nemico non è tra noi.

E fu sera e fu mattina, centocinquantottesimo giorno.
I giorni proseguono, e proseguono le notti.
Ci hanno fatto spogliare dei nostri vestiti, messi in fila, umiliati, per sottoporci alla disinfestazione.
Donne, uomini, eritrei, somali, siriani, ghanesi, kurdi, cristiani e musulmani, siamo tutti in fila indiana per essere lavati da un getto di acqua fredda. Dicono che sia per debellare la scabbia, malattia che effettivamente alcuni hanno contratto a causa delle condizioni igieniche di questo posto.
I bagni e le docce non hanno le porte, l’ acqua viene razionata, alcuni dormono per terra e non possiamo rivolgerci a nessuno all’esterno per chiedere supporto legale o umano.
Di viaggiare siamo stanchi. Aman ha vissuto sette anni di pellegrinaggio su diciotto che ne ha. Umiliazioni, fughe, botte dalla polizia, carcere. E’ fuggito da un Eritrea dilaniata dalla guerra e dalla dittatura, scappando lasciando ogni cosa quando aveva appena compiuto dieci anni. E poi l’Etiopia, il Sudan, nel quale una banda di trafficanti di organi l’hanno rapito insieme ai suoi compagni e portato nel deserto. «Volevano venderci, a pezzi» – ci racconta – «ma uno non muore se non è il suo tempo». Fugge di nuovo, in Egitto lo arrestano, un anno in carcere. Poi Libia, dalla padella alla brace: «da una galera all’altra, torturato dai poliziotti, insultato dalla popolazione, minacciato persino dai bambini».
Sul barcone per l’Italia gli rubano gli ultimi soldi che ha, nella traversata vede persone morire e venire gettate in mare. E’ qui a Lampedusa da quindici giorni, non conosce il suo destino, si accontenterebbe di una coperta, una scheda telefonica per contattare parenti. E se non può lasciare l’Italia «almeno portatemi in un posto migliore di questo, per favore».
Kamadi e Ali hanno diciasette e sedici anni, da Mogadiscio uno e Kismayo – Somalia – l’altro. In Libia hanno conosciuto il governo di Gheddafi. Ora stanno seduti, in mezzo a un gruppo nel piccolo spiazzo del Centro. Alcuni raccontano vite, altri restano in silenzio. Molti desiderano continuare a spostarsi, fino alla Svizzera o la Norvegia, dove hanno dei parenti. Ma per il momento devono stare qui, in questo inferno a portata d’uomo, dove è pianto e stridore di denti.

Fuori da questa gabbia per reietti, per le strade del Mondo, si passa l’uno a fianco dell’altra contaminandosi, in un frenetico mescolarsi di odori e sapori di spezie provenienti da ogni angolo della terra. Ognuno celato o dissimulato, forestiero a modo suo, in esodo continuo verso un porto o l’altro in cerca di speranza. Ibridandosi, gli uni con gli altri, perdendo e acquistando ogni giorno nuove identità nella Babilonia del dover vivere.
Chi non è migrante scagli la prima pietra.

@mazthetelling