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Tratto dal sito http://www.erroneo.org/

Chi si ricorda di Portopalo?

A cura di Manuele Bonaccorsi e Andrea D'Urso

[Prima parte]

Nessuno sa, a Portopalo di Capo Passero, nel sud del sud del nord del mondo – e il suo faro, che illuminando a settentrione guarda verso Tunisi – che questa è la più grande frontiera d’Europa. E la trincea su cui si affaccia un campo di battaglia seminato di cadaveri.

Il Presidente scuote la testa e rotea le mani in aria: “Ancora quella storia!”. Edmondo Pisana, UDC, presidente del Consiglio Comunale di Portopalo di Capo Passero, ci accoglie nella stanza del Sindaco, al termine della riunione dei capigruppo e, per avere forse meno di trentacinque anni, ha già un’idea ben chiara della politica: basta dire che tutto va bene, se sei in maggioranza.

I semi da cui nasce il famoso pomodorino di Pachino, certo saranno stranieri, ogm israeliani forse, ma di ottima qualità. E nei campi, sotto le serre di plastica, dove la sabbia scotta e si respira a 60 gradi, nessun immigrato lavora in nero, e ogni padrone rispetta il contratto. E quando, nel 2001, un giovane giornalista e un navigatore esperto scoprirono che quel mare, così limpido e pescoso, nascondeva la più grave tragedia di mare che il Mediterraneo abbia visto dalla seconda guerra mondiale, ebbene proprio in quell’estate di 2 anni fa, il presidente Pisana non soggiornava in paese: in viaggio per lavoro.

E poi giù, con una raffica di luoghi comuni: Bellu, giornalista de La Repubblica, il solito uomo del nord interessato unicamente a denigrare la “nostra amata terra”. Salvatore Lupo, l’unico a parlare, quando ormai da mesi i 700 pescatori del piccolo paese, tra triglie e calamari rigettavano in mare cadaveri senza testa, un arrivista. Lo dimostra la tessera dei DS nascosta lì, sotto la plancia di comando. E poi, che colpa abbiamo noi, se il Canale di Sicilia, terra di nessuno tra l’Europa e il nulla, è probabilmente il più grande cimitero del mondo.

La tragedia

Quella notte di Natale del 1996 c’era un gran freddo. E pioggia. E vento. Ormai da 5 giorni nessun pescatore aveva l’ardire di spingere a largo la sua barca. E’ un mare difficile, quello che separa la Sicilia dall’Africa, correnti e fondali profondi. Nord 36, 25′,32″; est 14, 54′, 34″, acque internazionali, 19 miglia da Portopalo di Capopassero: una complessa manovra, tra la motonave battente bandiera libanese Yohan e una carretta del mare, si trasforma in tragedia.

Tra la schiuma e la pioggia, circa 450 clandestini, in gran parte cingalesi, vengono costretti a salire su quella barchetta instabile, schiaffeggiata dalle onde. Ma è impossibile, la piccola barca, troppo carica, non riesce a reggere il mare in tempesta, rischia di affondare. E allora si torna indietro, virata di 180°, per restituire il carico umano, bagnato e infreddolito nei suoi stracci, alla Yohan. Nessuno saprà mai cosa accadde esattamente in quei momenti: l’unica certezza che abbiamo è ancora oggi sotto il mare, 19 miglia a largo di Portopalo, 108 metri di profondità: 283 morti, forse 289.

Il 30 Dicembre dello stesso anno i 175 superstiti vengono abbandonati sulle spiagge di Salonicco: ai soccorritori racconteranno una storia terribile, ma nessuno di loro sarà creduto. Fino al giugno del 2001, quando Salvatore Lupo, comandante di uno dei 170 pescherecci che affollano il piccolo molo di Portopalo, troverà nelle sue reti un grido che non è possibile ignorare: Anpalagan Ganeshu, 17 anni, cittadinanza cingalese, etnia tamil: la sua carta d’identità diventa la prova del naufragio fantasma.

Incontriamo Salvatore Lupo su una signorile nave turistica che, a prezzi modici, offre un giro di boa attorno alla magnifica punta meridionale della Sicilia. E’ un piccolo uomo robusto e forte, dal suo sguardo emerge con timida chiarezza la sua storia: trent’anni passati su un piccolo peschereccio, in un lavoro più duro che ricco. Oggi Salvatore Lupo è un uomo solo, per i suoi compaesani è l’autore di una delazione che non può essere perdonata. E’ lui, solo lui, ad aver attirato sul piccolo paese gli occhi sconcertati dell’opinione pubblica. “Quando trovai la carta d’identità tra le reti, pensai che era venuto il momento di farla finita col silenzio”. Perché a Portopalo tutti sapevano, già da mesi emergevano ossa, piccoli oggetti, segni di una vita drammaticamente interrotta, a pochi chilometri dalla terra promessa.

E quei pescatori che, ignari di tutto, denunciarono per primi il ritrovamento di un cadavere tra le reti, furono costretti dall’autorità giudiziaria a fermare il proprio lavoro per settimane. Senza che nessuno si impegnasse, finalmente, 4 anni dopo la tragedia, in un’accurata ricerca del relitto. Qualcuno voleva che nulla si sapesse?
Salvatore Lupo fa intendere di sì: “Mi fu consigliato vivamente di lasciar perdere, di ributtare quel piccolo documento in acqua. per questo decisi di portare la notizia a Giovanni Maria Bellu, fino a Roma, nella sede de La Repubblica”. un errore imperdonabile…

Salvatore Lupo, preferisce non parlare. Ormai è in pensione, ha venduto da un anno il suo peschereccio, e arrotonda con qualche piccolo lavoro stagionale. Come questo, in giro tra lo Ionio e il Canale di Sicilia, tra Marzamemi e l’Isola delle Correnti. Proprio lui, un navigatore esperto, l’unico in grado di trovare, con straordinaria precisione, il luogo della tragedia. “Dopo giorni di ricerche, i carabinieri vennero a casa mia, e mi portarono col loro, alla caccia del relitto. da giorni la loro navigazione a largo di Portopalo era infruttuosa”.

Oggi Salvatore Lupo è un uomo solo: ci vuole poco perché un eroe diventi un fantasma. Troppi nemici, a partire dall’amministrazione comunale, nella quale AN gioca un ruolo di primo piano, fino al corrispondente locale de “La Sicilia”, Sergio Taccone, fratello del vicesindaco, troppo zelante nel presentarci con tono aspramente infastidito e dubbioso la figura di Lupo. Fino a Rocco Giudice, caporedattore di “Colophon”, tutti impegnati, patriotticamente, a difendere l’immacolato candore della propria terra, anche quando è macchiata di sangue.

Luoghi comuni, per loro. E la memoria torna a Sebastiano Falbo e Katia Scollo, residenti a Pachino, a pochi chilometri da Capopassero, accusati nel 1999 di far da basisti per il traffico di clandestini. Un provvedimento di custodia giunto in carcere, dove i due conviventi erano in attesa di giudizio: facevano parte di una banda dedita al racket. Sotto il costume di guardiani, vecchio archetipo della criminalità mafiosa, chiedevano il pizzo ai pescatori del porto di Portopalo, in stretto collegamento con i catanesi cursoti e con la mafia di Noto.

Chi avrà consigliato a Lupo di tacere?

[Seconda parte]

Il cimitero delle carrette

Sotto il sole delle 11, la pietra bianca del molo, a Portopalo, ti costringe a chiudere gli occhi. A quest’ora il porto dorme: il lavoro si inizia a notte inoltrata, e solo pochi pescatori aggiustano le reti o riparano lievi danneggiamenti. Su un piccolo colle dietro il molo, il comandante della Guardia di Finanza ci indica, davanti al mercato ittico, un piccola gru. Carica la sabbia che, come un parassita, si insidia tra le rocce bianche, squadrate, del piccolo porto. Dietro, un capannone, vecchie barche in alaggio: il cimitero delle carrette del mare, un piccolo cantiere che, per conto dell’autorità giudiziaria, demolisce le navi sequestrate agli scafisti.

Il paese è piccolo e, con non poca sorpresa, scopriamo che Salvatore Bulgaretti, responsabile della SNG Cantieristica, è nipote di Salvatore Lupo. Sta lì, Bulgaretti, a guardare impassibile il lavoro della gru, mentre risponde con straordinaria precisione ad ogni domanda sul suo lavoro. “Ognuna di queste barche ha forse meno del 30% di possibilità di concludere il suo viaggio. Il legno è marcio, mancano le pompe di sentina, i motori diesel non hanno la potenza sufficiente per trasportare un carico anche 2 o 3 volte superiore a quello consentito. Per ogni arrivo, non ho dubbi, immaginate 2 affondamenti. Solo quest’anno abbiamo demolito 7 barche, ma ne sono arrivate 14. Aspettiamo solo l’autorizzazione della magistratura per procedere alla demolizione”.

Ci indica una barca verde poco distante, lunga meno di 10 metri: è la carretta dell’ultimo sbarco, risale al 7 luglio; dentro vediamo ancora stracci, bottiglie di plastica, vicino alla plancia di comando del tè arabo. In questa barca, maldestramente verniciata, bruciata dal sole, hanno viaggiato per molte ore più di 100 clandestini. Ora sono imprigionati al Centro di Permanenza Temporanea di Lamezia Terme. Non sanno di essere fortunati, i 100 ultimi arrivati, tra loro 10 donne e un bambino di 5 mesi: la loro vita, la loro speranza, è stata appesa per interminabili ore ad una semplice probabilità.

I fondali, nel Canale di Sicilia, superano in molti tratti i 1000 metri di profondità. Ad un chilometro sotto le onde, il mare è una lapide che non è possibile rimuovere: lì nessuna rete, nessun navigatore esperto, nessun bravo giornalista può giungere. Dieci sbarchi ogni anno, qui a Portopalo. Per ognuno di essi, forse, 10 sbarchi di cui nessuno ha notizia. Su 100 navi, forse, 70 sono ancora sotto quei fondali. E qui, a Portopalo, nessuno sembra avere voglia di rendersene conto. Se quei trecento corpi sono ancora lì, a 100 metri di profondità, vittime di una tragedia fantasma di cui tutti sapevano, chi mai recupererà gli altri 3000 cadaveri?

Kader

Nel porto di Marzamemi, vivace frazione di Pachino, in fondo alla sua lunga e affollata passeggiata a mare, incontriamo Kader, al termine del suo secondo turno di lavoro giornaliero. Kader lava i piatti in un grande ristorante a pochi metri dalle barche, di fronte ad una splendida baia sabbiosa: due turni al giorno, pranzo e cena.

Nel periodo di Agosto, racconta Kader, quando mai neppure un tavolo è vuoto, non c’è il tempo di tornare a casa. “Ma meglio qui, che sotto le serre, nei campi sabbiosi del pomodorino”, aggiunge nel suo linguaggio, metà francese, metà italiano.

Da due anni in Italia, proveniente dall’Algeria, Kader ha una lunga storia da raccontare: è un poeta, scriveva canzoni, ma qualcuno gli consigliò di lasciar perdere e cercare fortuna altrove, quei testi, le parole d’amore delle sue musiche, non erano ben visti nel suo paese. E ora, Kader ha un sogno: Parigi, Montreal, San Francisco… ma il sogno è ancora lontano.

Tutti, a Pachino, conoscono Kader: durante le convulse giornate della seconda guerra del golfo, fu l’unico immigrato a salire sul palco e recitare una breve poesia nel corso di una piccola manifestazione per la pace: “Mi batterò per difenderti/ senza mai portare un’arma in mano/ mi batterò per difenderti/ ma con la parola e pregando Dio”.

Sarà lui, il piccolo poeta algerino, a farci da guida nel nostro viaggio tra i 3, forse 5 mila immigrati che vivono nel triangolo tra Pachino, Mazamemi e Portopalo: quelli che, dopo lo sbarco, sono rimasti qui, sotto un sole africano, nei colli di sabbia e plastica, tra le serre del famoso pomodorino.

Il 10 luglio il Giornale di Sicilia titola a tutta pagina, nella cronaca di Pachino su un presunta violenza sessuale, vittima il figlio tredicenne di uno degli imprenditori agricoli della zona, attori alcuni immigrati nordafricani, subito arrestati. Non si parla d’altro, il 10 luglio, tra gli immigrati che riposano sulle panchine del Bar Sport, proprio davanti al mercato ortofrutticolo dove ogni giorno, all’alba, qualcuno sceglie chi tra loro avrà il diritto di portare a casa una piccola paga.

Negano, gli immigrati, marocchini e algerini, l’ipotesi della violenza sessuale. Ma non negano l’intimidazione: da settimane ormai, quei braccianti non ricevevano la paga. E ogni richiesta, dinanzi al padrone che ha, ben conservato nel cassetto, il contratto che vale il permesso di soggiorno, diventa, di risposta, una minaccia. 8 ore, 48 euro: ma spesso si lavora anche per 10-12 ore e la paga, quando non diminuisce, rimane la stessa.

Questa è la storia di A. e M. costretti a lavorare tutto l’anno sotto le serre, alte meno di 2 metri, dove crescono i ricchi pomodorini, ma anche meloni, angurie, zucche. Nel periodo della raccolta, ci raccontano, vengono qui lavoratori da tutto il mezzogiorno; dormono all’addiaccio in vecchie masserie fatiscenti, per alcuni settimane. “Non c’è altra possibilità: le case in affitto, per noi, sono tutte adibite ad ufficio”.

Una di queste masserie è a pochi chilometri dal centro di Pachino: è chiamata Vita Novella, era un vecchio centro di culto della Chiesa Valdese e, ancor prima, una tra le tante ville dei nobili Moncada: all’ingresso, annerito dal fumo e dalla sporcizia, si intuisce ancora lo stemma principesco della casata. Oggi, qui, si nasconde chi sta peggio: i clandestini, chi non conosce ancora la lingua o è ricercato dalla polizia.

Sul tetto della stalla un immigrato prega, rivolto verso La Mecca. Sotto materassi, resti di un pranzo frugale, ceneri già fredde di un fuoco notturno, forse acceso prima di incamminarsi verso gli sterminati campi. Sulle mura barocche, graffiti in arabo e francese.

Col prezioso aiuto di Kader riusciamo a tradurre dall’arabo le poche parole di Adel, immigrato clandestino, un’età indefinibile, tra i 30 e i 50. E’ arrivato solo da pochi mesi, lui è uno dei soppravvisuti al massacro degli sbarchi, 2000 dollari per un viaggio durato settimane. E’ qui per mantenere gli studi in medicina di suo figlio, ma da settimane non riesce ad avere più notizie della sua famiglia.

Il processo

Il 21 Ottobre di quest’anno si aprirà il dibattimento del processo che accusa Turab Ahmed Sheik, 43 anni, pakistano e El Hallal Youssef, 46 anni, libanese, di omicidio plurimo volontario. I due imputati, ambedue estradati in Italia e poi, con un’assurda ordinanza del Tribunale di Siracusa, in aperto contrasto con le richieste del PM, liberati il 6 maggio del 2001, sono il basista e il comandante della nave, la Yohan… due tra i responsabili della strage del Natale del 1996.

La tragedia fantasma, forse, sarà ricostruita nei suoi minimi particolari, l’ennesima strage, forse, non rimarrà senza colpevole. Ma pesanti dubbi si insinuano tra le carte di un procedimento che ha una storia lunga e complessa e un esito incerto.

Su segnalazione della capitaneria di porto di Portopalo e in seguito al sequestro della Yohan, rinvenuta, due mesi dopo la tragedia, nelle acque del porto di Reggio Calabria, la Procura della Repubblica apre un’inchiesta che si conclude, nella primavera del 2001, col rinvio a giudizio di 13 persone per omicidio colposo, associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina, disastro colposo. Tra gli accusati basisti, collaboratori, marinai… l’intera organizzazione di quel maledetto viaggio viene investita dal procedimento, grazie al prezioso aiuto delle testimonianze dei 175 superstiti e dei loro familiari, in gran parte sparsi in paesi dell’Europa centrale e settentrionale.

Poco dopo… il prezioso lavoro di Bellu e Lupo… “Il ritrovamento del relitto, conferma probatoria degli elementi testimoniali, segnò anche una necessaria interruzione del procedimento: il naufragio, avvenuto in acque internazionali e gli imputati, tutti stranieri, diventano, da un momento all’altro, non perseguibili…”, spiega Ezechia Paolo Reale, avvocato di parte civile, per conto delle associazioni dei familiari delle vittime della strage del ’96.

Nasce, in questo momento, un complesso problema di giurisdizione, che investe appieno i limiti e le deficienze del diritto internazionale. “La giurisprudenza parla di Giurisdizione Universale- precisa l’avvocato Reale- quando, anche se avvenuto in territorio non nazionale, la gravità dei reati permette alla magistratura di un paese di intervenire al di fuori dei propri confini. L’unico vincolo è rappresentato dalla Richiesta di Procedimento, che il ministero di Grazia e Giustizia può, a discrezione, concedere”.

Dinanzi alla richiesta della Procura, il Ministero, dopo 8 lunghi mesi, concede l’autorizzazione a procedere solo per 2 dei 13 imputati (Sheik e Youssef) e solo per il reato di omicidio volontario plurimo. L’otto luglio di quest’anno, finalmente, il GIP decide per il rinvio a giudizio: il 21 ottobre, davanti alla corte d’assise, il PM Roberto Campisi, Procuratore capo, ricorderà che la tragedia fantasma è realmente avvenuta, luoghi, date, nomi e cognomi dei responsabili.

Ma è un processo che nasce mutilato, quello del 21 ottobre. Sheik, con tutta probabilità, sarà assolto… il basista non ha nessun ruolo nella dinamica della tragedia, non può essere accusato di aver costretto i 300 clandestini ad un folle trasferimento, né di aver speronato la carretta. E Yousseuf, di certo, dinanzi ad un probabile ergastolo avrà il buon senso di rendersi latitante.

Nonostante ci siano i dati per colpire tutta l’organizzazione criminale che organizzò quel viaggio, la miope risposta del Ministero non consente il procedimento. Sarà il ministro Castelli, in opposizione ai suoi stessi proclami, a bloccare un procedimento contro gli scafisti. E nessuno, forse, parlerà delle gravissime omissioni di Capitaneria di Porto, Guardia di Finanza, dello stesso tribunale siracusano: 300 morti sotto il mare, per 5 anni, senza alcuna ricerca, mentre tutti sapevano.

D’altro canto, a Lupo, come ai pescatori di cadaveri, fu consigliato di ributtare tutto a mare… Da chi, e per quale motivo? Forse mai nessuna risposta a questa domanda.

Il processo del prossimo ottobre sarà, forse, solo un inutile risarcimento morale per i familiari delle vittime. Come a dimostrare, contro ogni prova, che esiste, per chi scappa dalla propria terra, senza identità e senza un soldo in tasca, una qualche giustizia.

Ma vera giustizia sarà fatta, a Portopalo di Capopassero, nel canale di Sicilia, solo quando tutti i siciliani, tutti gli italiani, sapranno, comprenderanno, discuteranno, di cosa è successo in quel Natale del ’96 e nei cinque anni seguenti. Solo se il processo del prossimo ottobre riuscirà ad imboccare i due binari, oggi morti, che, soli, porterebbero ad una vera verità: colpire realmente, al di là dei folli vincoli del diritto internazionale, i responsabili di questi viaggi della morte; colpire chi, nel civilissimo nord del mondo, a un passo dalla terra di nessuno, lascia marcire trecento, tre mila cadaveri nel mare pescoso e limpido di Portopalo.