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Chi siamo noi a Lampedusa

di Eleonora De Majo, Laboratorio Occupato Insurgencia, Napoli

In questi giorni di guerra, ad ogni ora, in ogni angolo, si produce discorso sulla guerra. Ognuno di questi discorsi soffre di una parzialità caratterizzante, non soltanto perchè esprime un punto di vista anziché un altro, ma pure perchè subisce la complessità di uno scenario geopolico inedito che ha ridefinito le geometrie politiche formali e dato ragione alla sostanza di recondite ed insospettabili amicizie di convenienza tra diversi molto simili.

L’inedita complessità non rende facile a nessuno la produzione di discorso e dunque impone più che la scelta di un punto di vista, un punto di partenza, una parola prima, la porta d’ingresso al cammino verso Tripoli. La parola d’ingresso che qui si sceglie non è né bombe, né dittatura, né rivolta, né imperialismo. Tutte queste parole sono inadatte. Tutte queste parole rischiano di farci trovare, prima ancora di cominciare, imbrigliati nella trama pericolosa qui più che mai, della lettura politica retroattiva. Allora la parola che si sceglie deve necessariamente stare fuori dal lessico che condì la produzione di discorso negli scenari di guerra occidentale dinanzi a cui ci siamo trovati fino alla più recente e vergognosa campagna in Iraq. Scegliamo allora la potenza della parola di uno spazio, un nome di una terra, uno spazio piccolo e marginale, uno spazio lontano a Sud e lontano da ogni Sud, uno spazio che è di per sé una porta di ingresso per tracciare la linea di fuga dalla disperazione, dalla schiavitù, dalla tortura, dalla morte, dalla mortificazione della fame e della sete. Questo nome, questo luogo riempito oggi solo del suo luogo comune è Lampedusa.

La porta d’ingresso verso la produzione di discorso su Tripoli è Lampedusa. Lampedusa è l’isola più a Sud d’Italia, una terra più vicina all’Africa che alla capitale del suo stesso Stato. A Lampedusa arrivano i migranti , che fuor di retorica sarebbe meglio chiamare profughi. Oggi arrivano a gettito costante barca dopo barca. Vengono dai luoghi della rivolta. Praticano esodo. Arrivano per attendere e tornare ,forse per tornare. Il loro arrivo è pieno di incognite, è fuga dall’incertezza delle fasi costituenti. Forse è poco eroico, ma tremendamente umano. Arrivano pure perchè ora che nel Maghreb tutto sta cambiando è più facile partire, è più facile prendere il mare, salire su quelle barchette di legno in cui si rischia la vita per la vita. E’ una sottrazione per l’esodo, una ridondanza nel lessico dei teorici della politica, ma una dilaniante realtà di fatto per chi ha subito il martirio del proprio corpo nei lager libici, in attesa di poter comprare la libertà di partire.

La sottrazione per l’esodo ha Lampedusa come approdo non definitivo. Da Lampedusa ha inizio un iter senza fine che va di lager in lager, di ghetto in ghetto.

In questi giorni,in tutti i programmi televisivi che parlano inesorabilmente della guerra c’è almeno un collegamento in diretta con Lampedusa che prova a raccontare lo stato d’animo della gente di là giù, che prova a dipingere il quadro di una insofferenza e che prova a localizzare in quel luogo il germe della paura dell’avvento “barbaro”, della grande orda che spingerebbe alle porte dell’innocente occidente. Eppure, incredibilmente, Lampedusa riesce a sottrarsi alla narrazione che provano a cucirle addosso e a dare sfoggio di una incredibile capacità di accoglienza , senza generalizzare chiaramente, e con la lucidità che tiene conto di tutti gli episodi che contraddicono questa tendenza e che vivono dei fasti delle cronache, quelli sì a dispetto invece delle diffuse pratiche quotidiane. Lampedusa è un’isola piccola che collassa di corpi di stranieri, eppure quel meccanismo di esclusione che ha grande facilità nello sfociare in gesta violente ed efferate nei confronti dello straniero invasore non riesce a prodursi, nonostante le sollecitazioni televisive, nonostante l’estrema destra abbia ricoperto Roma di manifesti che inneggiano ad una fantomatica rivolta di Lampedusa , nonostante il vicesindaco leghista, nonostante i Servizi Segreti  che cominciano la consueta messa in guardia dai pericoli del solito terrorismo senza nome né contesto.
Nonostante tutto a Lampedusa la gente dà coperte e cibo ai ragazzi che arrivano dalla costa difronte.

Nonostante tutto i pescatori raccontano con le lacrime agli occhi lo scempio a cui hanno dovuto fare abitudine, scempio che parla di barchette piccole e precarie in balia delle onde e di uomini e donne senza cibo né acqua da giorni.

Nonostante tutto, di notte, a Lampedusa non si vanno a cercare i negri, non li si cosparge di benzina e gli si dà fuoco.

Nonostante tutto si fa appello a chi arriva e gli si chiede di lottare insieme, contro il Governo, che permette che a Lampedusa si consumi la tragedia umanitaria a cui stiamo assistendo, e che è protagonista della guerra contro quel dittatore che era amico ed alleato fino all’alba della rivolta.
Non è ovvio.

In questo tempo e da queste parti l’ovvietà chiamerebbe il contrario.
Non è neppure per semplificare la giusta complessità che reclama la descrizione della gente di Lampedusa, che si mette l’accento su questo tratto di solidarismo di cui difficilmente si parla.

E su cui lo stesso silenzio è colpevole di una strumentalizzazione. Ciò che accade a Lampedusa tutti i giorni, il semplice fatto che non si consumi una brutta insurrezione dai tratti identitari contro gli occupanti abusivi di un suolo considerato proprio, il semplice fatto che si identifichi difficilmente un nos collettivo teso a segnare il confine con un vos alieno e per questo pericoloso, è di fatto una variabile imprevedibile e straordinaria.

Ebbene è probabilmente vero che la costituzione di quel  nos, quella che si produce tramite pratiche di individuazione collettiva che si riconosce in comuni processi di grammatizzazione, in comuni modalità affettive e relazionali, in comuni produzioni cognitive ed affettive , proprio con quei ragazzi che arrivano stremati dalla costa difronte non riesce a produrre tanti elementi di discontinuità quanti sono quelli di continuità. La costituzione del nos  passa attraverso lo specchio d’acqua e la manciata di chilometri che separa quell’isola al Sud del Sud dall’Africa e stabilisce spontaneamente le coordinate di un comune che lì individua la risposta alla spola che le donne di Lampedusa continuano a fare da casa ai campi di fortuna per portare cibo e coperte a chi arriva di notte, stremato,  ha freddo e ha paura.

La costituzione di questo nos, che è labile quanto la stessa astrazione teorica sulle singolarità e sui processi con cui le singolarità individuali si  fanno singolarità collettive, è sostanziata dalla consapevolezza che tra le forme di dominio e le forme di subalternità, Lampedusa, Tunisi, Piazza Tahir e Bengasi stanno sempre inesorabilmente dalla stessa parte; subalterni al nuovo volto coloniale delle potenze dell’Europa continentale, subalterni a dittatori, efferati criminali, che con i governi europei hanno banchettato in allegria fino a troppo poco tempo fa, prima che si aprisse il nuovo  processo tumultuoso e costituente, subalterni a tutte le governance globali che hanno definito il perimetro della parola sud attorno allo sfondo di un costante sfruttamento e soprattutto di una condanna senza appello alla pauperizzazione senza speranza.

Portare il discorso verso Tripoli, passando attraverso la porta di Lampedusa, smaschera senza appello le velleità umanitarie che le alleanze bellicose e offensive utilizzano come dispositivo motivazionale, che riesce inesorabilmente pure ad attrarre  una larga fetta di pubblica opinione.

A Lampedusa, mentre i corpi in fuga si ammassano affianco ad altri corpi in fuga, e mentre la lettura di questa nuovo grande esodo racconta soltanto la difficoltà gestionale e la produzione mediatica di paure mortifere, cade giù la maschera ai  salvatori dei popoli oppressi e insorti , che per  appunto buttano bombe e comandano tornado, e che a quegli stessi oppressi riservano la fame e il freddo delle notti a Lampedusa o la violenza delle prigioni di identificazione e di permanenza a tempo indeterminato. Da Lampedusa passano sostanzialmente le nuove affinità elettive dei dibattiti televisivi. Da Lampedusa verso Bengasi, con la stessa maschera e per le stesse ragioni, si producono quelle geometrie inedite, che hanno sparigliato l’assetto delle poltrone dei salotti di “Ballarò” e di “Porta a Porta” , in modo che sul tema della guerra in Libia non si sappia più chi è dirimpettaio di chi, chi sta a destra e chi a sinistra, chi vuole la guerra e chi non la vuole. Il governo è in guerra svogliato e pigro, sostanzialmente  per il ricatto dell’esclusione dalle spartizione finale della torta- motivazione utilizzata senza vergogna da più parti e che nuovamente smaschera la logica neo-coloniale con cui le vecchie madri patrie tornano a mettere le mani sulle questioni dei paesi del nord-africa a volto scoperto, senza bisogno  di nascondersi dietro gli incontri dalle remote latitudini dei potentati economico finanziari.

L’opposizione vuole la guerra più del governo, difende le bombe senza batter ciglio, le difende senza reticenze, come se le bombe non fossero bombe, non usassero l’uranio impoverito per ammalare  a lungo, come se non tenessero dentro l’imprevedibilità del bersaglio, come se non maciullassero i corpi, come se non distruggessero case e villaggi, come se fossero un gesto di filia, verso quei giovani belli, pieni  di sogni e di speranza verso un futuro fuori dall’oppressione della dittatura del rais. Quegli stessi giovani stanno a Lampedusa ammassati, forse è per il loro poco eroismo guerresco che il Partito Democratico non volge loro lo stesso benevolo sguardo. La filia delle bombe è uno dei paradossi di questi giorni, forse il più drammatico.

Poi nelle nuove geometrie riemergono giustamente i pacifisti, o meglio i nostalgici di un pacifismo recente ma già troppo remoto in questo mondo che sostituisce le sue storie rapidamente e che costringe chi cerca di capirne le pieghe a non ritirarsi  mai in discorsi prodotti in passato, neppure se il passato è recente e i casi appaiono sinonimici. Anche a chi produce una posizione che definirei comodamente pacifista bisogna mettersi in guardia. Come si diceva infatti lo scenario è inedito, e pure se non si può esitare nel condannare la guerra come risoluzione finale volta alla chiusura coatta di uno scomodo processo di rivolte che si sono richiamate  l’una dopo l’alta e vicendevolmente per tre lunghissimi mesi, non si può non tenere in conto che la città simbolo della rivolta Libica, stremata dalle violenze del regime, dalle torture e dei bombardamenti indiscriminati, chiedeva a gran voce un intervento esterno ed occidentale. Bisogna allora provare a tenere insieme tutti  i pezzi che hanno composto l’attualità politica e che compongono il riassetto mondiale di questi ultimi mesi, bisogna provare a smascherare i protagonisti, inserendoli nella storia della più grande e profonda crisi che il capitalismo abbia conosciuto durante la sua storia, bisogna inserirseli nel fallimento del modello globale e finanziario che solo dieci anni fa era difeso da quasi tutti come nuovo volto di una modernità senza frontiere. Bisogna leggere in questa chiave l’inedito ruolo degli stati nazione della Mittel Europa, che intervengono nelle vicende maghrebine come fossero i padroni di casa propria forti del passato coloniale e sfruttatore e che scalzano l’incerta America di Obama, agendo con la furbizia francese e la cortesia britannica, cedendo terreno per evitare le crisi, ma tenendosi stretta la corsa all’egemonia. Bisogna tenere conto di Gheddafi seduto affianco a Ben Ali e Mubarak, in un podio di vergogna a cui l’occidente è stato tremendamente affezionato e che in poche ore ha assunto il volto dei ricercati internazionali,  dei public enemies da eliminare con ogni mezzo, anzi con un mezzo solo, che è, quello sì, sempre lo stesso. I più lenti a sciogliere le reticenze, i più affezionati alle convenienze di quelle esotiche amicizie, quelli più incapaci a scendere sul terreno della conquista politica del nuovo spazio aperto dai rivoltosi, quelli come Berlusconi insomma, mostrano il volto scavato dalla sofferenza per la scelta bellicosa e per aver dovuto tradire un così fedele alleato, un così comodo dirimpettaio, carceriere violento alle frontiere, spregiudicato investitore nelle holding d’occidente, singolare incarnazione di un perfetto equilibrio tra  modernità e tradizione, tra sultanismo volgare e incontenibile spirito imprenditoriale. Sono lenti perché costretti in una dinamica inattesa ed odiosa, che ha fatto sì che gli  altri scegliessero di fare di un amico un nemico senza consultare tutti i vecchi amici di quel nemico. Sono nervosi pure perché ritengono senza vergogna, che il diritto  alla spartizione di quella torta lì sia più nostro che di altri, in nome  di un passato coloniale che nei fatti si rivendica ossessivamente.

Forse è qui che assume forma lo scenario che scompagina definitivamente le analisi pure recenti sul tema bellico. Non sulla guerra e sulla sua condanna bisogna fermarsi a pensare, ma su due aspetti che si  chiamano in causa pericolosamente l’uno con l’altro: la riemersione in questa specifica fase di crisi economica e politica internazioanale degli stati nazione europei , ma soprattutto la riemersione  di un certo modo di fare degli stati nazione in Europa, colonizzatori a buon diritto come cento anni fa  e senza nascondersi, crociati post-moderni verso le sponde di un mediterraneo che dal ferro e dal fuoco poteva riemergere in una forma drammaticamente democratica.