Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Chinatown – La “rivolta” dei migranti di successo

Intervista ad Antonella Ceccagno, docente di lingua e letteratura cinese presso l’Università di Bologna

Il pensiero corre lontano, attraversa mezzo mondo, fino all’estremo oriente.
Le immagini non sono molte, ma quei preziosi fotogrammi sono rimasti impressi nelle nostre menti.
Erano coraggiosi i ragazzini che sfidavano i tank in Piazza Tian’anmen, il loro coraggio, era proporzionale alla spinta di libertà che li muoveva.
Parlando di “rivolta cinese”, non possiamo non pensare a quei giorni, che avrebbero segnato la storia della Cina e di tutto il mondo.
Oggi, è bene ricordarlo, la Cina è una delle più grandi potenze mondiali, è entrata nel Wto come un colosso. dopo anni di riforme capitalistiche gestite dal più grande partito comunista del mondo, come neppure i più acuti pensatori liberali avrebbero saputo fare.
Ma non è degli universitari che hanno trainato le rivolte di quei giorni che stiamo parlando, bensì di chi, dalla Cina di oggi, quella del mercato mondiale, ha preso la via della migrazione verso l’occidente, verso il più vecchio continente del mondo.
Giovani studenti, in gran parte, erano anche quei cittadini che sono stati protagonisti dell’altra “rivolta cinese”, quella di questi giorni, che ricorderemo sicuramente per molto tempo e che tanto ha fatto discutere.
Di quei fotogrammi lontani, i giovani di via Paolo Sarpi, si portano dentro solo la rabbia che accende sempre gli occhi di chi è indignato, ma loro sono i figli degli operai del tessile o più probabilmente di quei tanti commercianti cinesi che, coinvolti nei processi globali della mobilità, hanno trovato il loro spazio nei quartieri supermarket delle nostre metropoli.
A loro danno gioca il fatto di aver saputo interpretare al meglio la richiesta di autonomia imprenditoriale che caratterizza il mercato neo-liberista, attirandosi le antipatie di chi teme per la competitività dei marchi italiani.

Niente a che vedere con i cultori del libretto rosso di Mao Tse-tung, né con le guardie rosse che accompagnarono la rivoluzione culturale cinese, neppure con i ribelli di Piazza Tian’anmen, questa è una falla aperta nel cuore dell’Europa, nelle contraddizioni che attraversano le metropoli contemporanee.

Siamo lontani da ogni improbabile parallelismo, piuttosto, ci troviamo davanti alla necessità di confrontarci con la fotografia di uno scarto che, mentre racconta grossolanamente gli enormi cambiamenti che hanno investito la Cina a cavallo tra i due secoli, ci immerge profondamente nella nostra realtà trasformata, segnata pesantemente dalle attuali leggi sull’immigrazione e dalle politiche sicuritarie che governano le nostre città.
Perché se c’è una cosa da capire veramente meglio, che va indagata per essere trasformata, non va ricercata certo nelle differenze che la comunità cinese, come altre, esprime in un mondo che ci piace immaginare multicolore e ricco di diversità, ma invece tra le pieghe del controllo sociale, nelle derive che, a Milano come altrove, hanno ridotto la realtà delle migrazioni ad un problema di gestione dell’ordine pubblico.

Qualcosa di irrisolto, di ancora inafferrato, ci viene consegnato dal ruolo mondiale ricoperto dalla Cina, e dalla composizione sociale che, dall’estremo oriente, ha preso la strada dell’Europa.
La Cina è incalzante tanto che, a poche ore dall’esplosione di rabbia che ha coinvolto il quartiere Paolo Sarpi di Milano, Limin Zhang, il console cinese, ha sollevato un monito con pochi precedenti contro le autorità italiane, definendo la situazione “non casuale e frutto di due mesi di forti pressioni”.
Certo non ricordiamo altre occasioni in cui, che avvenissero nei mari dei nostri confini o nel cuore delle nostre metropoli, le morti, i soprusi, le discriminazioni e le tante barriere che accompagnano i percorsi delle migrazioni, abbiano sollevato la reazione di qualche rappresentante dei paesi da cui provengono i protagonisti di questi drammi.
Ma la Cina non è la Nigeria, e neppure assomiglia all’Ucraina, al Senegal o al Marocco.
La Cina si affaccia sul mondo come la più grande potenza del ventunesimo secolo.
Ecco che allora il nostro pensiero ritorna lì, nell’estremo oriente, per ripercorrere quella distanza, quel lungo viaggio che, dalle coste cinesi, arriva fino al cuore delle metropoli europee, e che può aiutarci a capire meglio ciò che è avvenuto.

Melting Pot Europa ha voluto intervistare la Prof. Antonella Ceccagno, docente di lingua e letteratura cinese presso l’Università di Bologna che, da dodici anni, studia e lavora con la comunità cinese in Italia.
Di seguito, riportiamo alcuni estratti del suo prezioso contributo.

Il nostro viaggio nelle migrazioni cinesi ci porta sulla costa Sud-Est della Cina, nella provincia del Fujian, alla scoperta della composizione sociale che percorre la rotta europea: “i migranti che prendono la strada delle migrazioni internazionali, che escono dalla Cina, sono quelli che provengono dalle zone che si sono arricchite prima e da quelle che più hanno avuto contatti con l’esterno”, racconta Antonella Ceccagno.
La Cina è investita anche da enormi processi migratori al suo interno ed infatti, “i migranti che hanno raggiunto l’Italia e l’Europa hanno lasciato degli spazi vuoti nelle aree d’origine, occupati ora da migranti che vengono da province interne più povere. Questo fenomeno è interessante perché noi pensiamo che le migrazioni avvengano da aree depresse, mentre partono invece dalle aree più dinamiche, più collegate, perché è lì che è più facile trovare i soldi ed anche i metodi per emigrare”.
Ma la cartografia delle migrazioni cinesi è molto complessa e articolata, verso l’Europa per esempio, è avvenuta in modi e con forme molto diverse, è il caso dell’ Ungheria, che ha conosciuto una immigrazione cinese molto ricca, legata all’area di Pechino, che ha portato con sé ingenti capitali, originariamente statali e successivamente privatizzati.

L’attenzione rivolta alla comunità cinese in Italia è spesso legata all’aspetto economico che la accompagna, tanto sul piano delle importazioni, quanto sotto quello del commercio o della manifattura, la concorrenza cinese viene agitata come un pericolo da cui difendersi.
Secondo Antonella Ceccagno “una cosa che va sicuramente messa in evidenza è che è difficile pensare ad interessi della comunità cinese che siano completamente disgiunti da quelli degli italiani”.
Vi è una realtà negata infatti, che durante questi anni di lavoro a contatto con la comunità cinese in Italia, Antonella Ceccagno ha potuto invece verificare: dalla metà degli anni ottanta ad oggi, i cinesi hanno lavorato nei settori di produzione di vestiario, di scarpe, o di divani, per conto di interessi italiani.

Un altro elemento che emerge è come, anche per quel che riguarda le importazioni di prodotti dalla Cina, vi siano interessi cinesi e italiani assolutamente intersecati, molto spesso infatti, “ci sono laboratori cinesi in Italia che cuciono tessuti importati dalla Cina nel nostro Paese da imprenditori italiani, spesso inoltre, i laboratori o i negozi in cui lavorano i cinesi sono di proprietà italiana”.
E’ il caso per esempio dei laboratori che in questi giorni sono stati messi sotto accusa a Forlì.

Ma vi è un altro elemento interessante, che ha a che vedere con le paure e gli allarmi sollevati contro la competitività della comunità cinese.
“E’ chiaro – secondo Antonella Ceccagno – che i cinesi sono migranti di successo, questa è forse la cosa che fa più paura, perché si allontanano da quella visione dei migranti come persone che rimangono, sempre e comunque, in una posizione subordinata”.

Essere inclusi pur rimanendo ai margini: la richiesta continua di essere parte viva del mondo produttivo è un ricatto che viene giocato come chiave di accesso ai diritti di cittadinanza.
Integrarsi significa sposare totalmente modi e stili di vita, lavorare ad ogni condizione per avere dignità: questo schema consolidato sembra però entrare in crisi davanti all’intraprendenza della comunità cinese.
Non che lo sfruttamento e la marginalità siano questioni che non toccano gli immigrati d’estremo oriente, ma possiamo rilevare come alcuni dei dispositivi politico-culturali che governano le migrazioni, in questo caso, vengano messi sotto scacco.
Perché il protezionismo messo in campo per contenere la vivacità economica della comunità cinese, mentre i flussi di merci e capitali scorrazzano liberi da ogni parte del globo, e i confini dell’Europa si dissolvono per accaparrarsi, alle peggiori condizioni, la manodopera migrante, ha il sapore della discriminazione, e si è rivelato un boomerang.

“La prima questione attiene al fatto che l’Italia è un paese di immigrazione recente” sempre dalle parole di Antonella Ceccagno, “ quello di inserimento dei migranti è sempre stato un modello subordinato: non solo per lavoro subordinato, ma per mansioni subordiante, poco interessanti, mal pagate”.
Il protezionismo ha allora a che vedere con l’idea che l’immigrazione possa trovare posto solo se è funzionale al mantenimento di questa posizione subordinata.
Ma sembra che la comunità cinese sfugga a questo schema, per varie ragioni, secondo Antonella Ceccagno, “in primo luogo perché è animata da una volontà imprenditoriale, questo non significa che tutti vi riescano, ma il fatto che ci sia questa imprenditorialità di massa, dentro la comunità cinese, lascia spiazzati”.
Un’ altra questione che interviene a scombinare alcuni schemi preordinati con cui siamo abituati a leggere le migrazioni è quella legata al contatto con il paese d’origine.
“Noi partiamo da un presupposto particolare, cioè che gli immigrati che vengono in Italia provengano da paesi che complessivamente valgono meno sullo scacchiere internazionale. I cinesi vengono invece da un paese che, in vent’anni, è diventato uno dei più potenti attori presenti nel mondo, e con questo cambiamento è necessario fare i conti”.

Un’altra questione fondamentale è quella che riguarda le aspettative con cui viene presa la strada migratoria: “i cinesi mostrano come stiano cambiando le migrazioni internazionali, chi emigra non sempre lo fa in maniera definitiva ma in maniera reversibile”.
E’ evidente che la questione dell’integrazione, se vista solo come assunzione dei valori dei modi di vita del paese “ospitante”, poco ha a che fare con questo tipo di prospettiva, e che quindi un altro dei cardini del nostro schema venga messo in discussione.

Ma cosa vuol dire integrazione davanti a questo scenario?
Questa domanda richiama sicuramente un dato importante legato al numero di giovani che hanno animato la “rivolta” di via Paolo Sarpi; “questi ragazzi sono italiani ma faticano ad ottenere la cittadinanza italiana, contemporaneamente c’è da dire che siamo di fronte ad una composizione giovanile di cinesi in Italia molto variegata: alcuni sono nati qui, altri, e sono quelli per cui l’inserimento è più difficile, sono arrivati più tardi.
Dal punto di vista culturale questi ragazzi hanno un forte ricchezza, una identità multipla che in questo mondo globalizzato può dare molte risposte…siamo davanti ad una situazione magmatica, ricca, che può andare in molte direzioni.”

Intervista a cura di Nicola Grigion, Progetto Melting Pot Europa