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da Il Manifesto del 7 ottobre 2005

«Ci portano nel Sahara, senza viveri»

«La situazione è tragica. Non solo ci sparano addosso, ma hanno cominciato a rimpatriarci verso il Sahara». Al telefono da Rabat, la voce del nigeriano Peter trema dalla paura. «Vivo rintanato in casa, col terrore di essere acchiappato e spedito chissà dove», aggiunge questo giovane meccanico, che da tre anni vive da clandestino in Marocco con la speranza di «passare dall’altra parte». Oggi Peter vede nero. Grazie al tam tam degli immigrati, la notizia si è diffusa in un baleno: le forze di sicurezza marocchine non rimpatriano più i «clandestini» al confine algerino di Oujda-Maghnia, nella zona nord-orientale del paese, da dove poi rientravano rapidamente. I gendarmi di Rabat hanno deciso di optare per una soluzione ben più estrema: lasciare i clandestini in pieno deserto, al confine meridionale con la Mauritania o nella zona sud-orientale, nel territiorio occupato (e pieno di mine) del Sahara occidentale.

Con l’attenzione mediatica concentrata sulle «vallas» di Ceuta e Melilla, sono ben pochi a interessarsi a quanto accade più a sud. Dove nel corso dell’ultima settimana un migliaio di cittadini sub-sahariani sono stati letteralmente abbandonati a se stessi, senz’acqua né generi di conforto. Secondo l’Ong spagnola «Paz Ahora» almeno otto persone (tra cui una donna) sono già morte di sete nel deserto.

Dopo gli assalti alle due enclaves spagnole, le forze di sicurezza marocchine hanno evidentemente avuto indicazioni di usare le maniere forti: le retate nei quartieri-ghetto di Casablanca e Rabat – dove migliaia di sub-sahariani vivono accatastati a decine per casa, in attesa di prendere una barca di legno verso le Canarie spagnole – si sono moltiplicate. Secondo l’Ong spagnola «Sos Racismo», lo scorso week-end la polizia ha preso d’assalto queste aree della città, arrestando tutti gli africani che incontrava. Peter conferma: «La settimana passata hanno preso alcuni miei amici. Mi hanno detto che li hanno mandati più a sud. Ma questa è una crudeltà. Se ci devono rimpatriare, che almeno ci rimpatrino verso i nostri paesi d’origine».

Ma i soldi per rimpatriare gli immigrati nei vari paesi d’origine non ci sono. E così il Marocco LI rispedisce indietro, da dove presumibilmente erano transitati prima di entrare nel suo territorio. In Algeria, quindi. O in Mauritania.

Nessun criterio governa queste rimpatri, che vengono fatti nel più totale arbitrio e nel massimo spregio di quella legislazione internazionale che dovrebbe proteggere i rifugiati e i richiedenti asilo. Secondo «Sos Racismo», lunedì scorso quattro autobus, ognuno con 60 subsahriani, si dirigevano verso la frontiera con la Mauritania. In uno dei veicoli, c’erano «22 persone con la richiesta d’asilo politico effettuata in territorio marocchino. Tra loro, un cittadino della Costa d’Avorio del partito ribelle di Alassane Outtara». Che quindi dovrebbe godere della protezione umanitaria internazionale.

Alcuni altri sarebbero stati trasportati nel deserto del Sahara occidentale, nei pressi di Tindouf, in quella zona dove il Marocco ha fatto costruire un muro divisorio per fronteggiare gli attacchi dei ribelli sahrawi del Fronte Polisario. Una zona impervia e, soprattutto, zeppa di mine.

L’Ong spagnola «Sos Inmigración» ha parlato apertamente di «genocidio». Intervistato dalla stazione radiofonica Cadena Ser, il coordinatore generale di questa Ong Diego Lorente ha accusato il governo spagnolo e l’Unione europea di «corresponsabilità di queste violazioni dei diritti umani». Un’accusa ripresa – sia pur in toni meno aspri – dal delegato dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) in Spagna, Carlos Boggio. Che ha criticato il fatto che Madrid rimpatri immigrati in Marocco, «Perché lì si violano i diritti umani».

Rintanato nella casa fatiscente di Rabat che divide con altri dodici connazionali, Peter aspetta che passi la tempesta. E spera che non venga il suo turno.

STEFANO LIBERTI