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Cinque anni dopo. L’Europa e la “crisi” migrante

Più accordi e prassi illegittime per respingere che politiche di accoglienza

Photo credit: Carmen Sabello (Al confine serbo-ungherese nel settembre 2015)

Articolo ispirato dalla conferenza “Five Years after: The European Refugee Crisis and the Political Response” organizzato da Respond.

Sebbene si parli molto di diritti umani all’interno dell’Unione Europea e del Consiglio d’Europa, gli stessi organi che dovrebbero proteggerli non sono finanziati adeguatamente per stessa ammissione di chi ne fa parte, né sembra esserci volontà politica per implementare i doveri che gli stati si sono assunti.

In particolare, chi ha sofferto di più queste mancanze sono stati le persone migranti, soprattutto a partire dal 2015, quando molti siriani in fuga dalla guerra sono arrivati alle porte d’Europa, in Grecia e Ungheria.

La risposta europea è stata sconcertante. Tunisia, Marocco, Turchia, paesi un tempo solo di transito, sono stati classificati come paesi terzi sicuri, ossia paesi nei quali richiedenti asilo potessero rimanere, sicuri di essere trattati con dignità e rispetto della loro umanità. La Turchia, in cui l’erosione dello stato di diritto ha portato a numerose violazioni di diritti umani, come attestato da Human Rights Watch, tra cui refoulments e violenze ai confini ai danni di persone migranti, ha potuto addirittura firmare un patto con l’UE per tenere i migranti entro i confini turchi. Similmente la Libia, teatro di atroci violenze, ha firmato un patto con l’Italia, nonostante le torture nelle carceri. Trattenere degli esseri umani lontani da ciò che noi non vogliamo condividere, sembra più importante della loro stessa vita.

E così, la Turchia ha oggi il più alto numero di rifugiati al mondo, il Libano ha il più alto numero di rifugiati per persona nel mondo, mentre l’Europa continua a creare una narrativa d’invasione, mentre i numeri parlano di altro.

L’”invasione” che l’Europa dovrebbe fronteggiare, secondo molti governi populisti europei, necessita di strumenti: ecco quindi Frontex, uno strumento promosso come una sorta di guardia costiera europea. Tuttavia, quello che Frontex fa ai confini, lascia intendere un’interpretazione di garantire la sicurezza, che contrasta fortemente con i diritti umani.

Tra la Grecia e la Turchia gli agenti di Frontex hanno distrutto documenti, sottratto cellulari, rubato oggetti personali ai migranti, prima di spingerli indietro con violenza, come sottolinea Lena Karamanidou. Questi ufficiali non sono mai stati legalmente perseguiti, sebbene questi pushbacks siano illegali, per non parlare della sottrazione indebita e distruzione di oggetti personali. I pochi casi di violenze che sono stati portati all’attenzione pubblica, sono stati riportati dai media, non dagli ufficiali responsabili per il rispetto dei diritti umani di Frontex, che pure sono stati assunti per assolvere questo compito.

Le violenze, i pushbacks sono pratiche comuni, avvengono via terra e via mare, nel nostro Mediterraneo, a qualche chilometro dalla Sicilia, che gli italiani vantano essere posto di accoglienza. E così in Grecia, racconta Eva Papatzani, i ritardi per ottenere cure sanitarie sono infiniti, e così quelli per registrarsi per ottenere i documenti. Le persone migranti vivono in un limbo, molti ancora bloccati sulle isole, dopo mesi, anni dal loro arrivo.

Il fatto che questo possa accadere, nonostante la popolazione sia a conoscenza di quello che capita ai confini, basti pensare alle foto scattate tra Ungheria e Serbia di poliziotti che prendono a calci chi tenta di attraversare, fa pensare che la popolazione stessa non sia così toccata da queste violazioni.

Insieme a misure legali che si oppongono al rispetto dei diritti che l’UE ha sottoscritto, ci sono infatti altri elementi che rendono l’Europa sempre meno accogliente. La narrativa che presenta i migranti, i richiedenti asilo come persone di cui non fidarsi, violenti, lontani anni luce dai valori democratici che invece l’Europa così fieramente rappresenta crea un senso di odio che alimenta xenofobia e razzismo.

A questo si aggiungono, sottolinea Karl Kopp di Pro Asyl, le costanti contraddizioni tra i proclami e quello che viene realizzato per le comunità nazionali rendono i cittadini sfiduciati di fronte ai propri rappresentanti. Il sentimento di sfiducia verso la classe politica, di percepita incapacità o non volontà di occuparsi dei problemi, e la “terribile” prospettiva di avere nuove persone ad occupare il nostro posto portano al disprezzo per l’altro.

Si dimentica che l’altro, sia questo il nostro vicino o un migrante, ha dei diritti. Quando si parla di richiedenti asilo in particolare, si deve ricordare che non siamo noi che graziosamente concediamo diritti, sono loro che, come esseri umani, hanno diritti che noi dobbiamo proteggere e rispettare.

Purtroppo, il concetto di diritti inalienabili sembra sfuggire non solo alla cittadinanza, ma anche ai legislatori. Un triste esempio è il recente Migration Pact che, proposto come la panacea di tutti i mali, guarda alla migrazione non dal punto di vista di chi parte, ma secondo una politica di frontiera che ha come obiettivo rendere i confini meno porosi possibile.

La soluzione a questa crisi umanitaria, resa tale dalla mancanza di policy e da inadeguatezza politica e non dalle persone in fuga da povertà e guerra, sembra essere duplice.

Solidarietà e giustizia. Dobbiamo cambiare una narrativa tossica e falsa, che presenta la migrazione solo in termini negativi e vedere la ricchezza che porta alle comunità, in termini culturali ed economici, soprattutto in quei paesi in cui l’età media è molto avanzata e i figli sono sempre meno.

Basti pensare che le persone migranti infatti, migranti economici e richiedenti asilo, producono in Italia il 9,5% del PIL, aiutando fortemente l’economia di un paese che non solo è il più vecchio d’Europa, con un tasso di natalità bassissimo, ma che è tornato ad essere di emigrazione. I politici sono ben consapevoli di questi dati e consci che l’esistenza di un paese deriva dalle sue forze giovani e da idee nuove. L’Europa stessa, per secoli terra di incontri e scontri, fa vanto delle bellezze di una cultura passata che parla di Arabi, Unni e Normanni e dovrebbe quindi essere ben consapevole che l’identità di un paese si crea attraverso lo scambio e l’incontro e che la sua economia, senza giovani, nuove idee, e scambi, muore.

Dall’altra parte, non dobbiamo fermarci a quello che la migrazione porta a chi accoglie, ma dobbiamo comprenderla in termini di diritti e giustizia e non di concessioni e scelte opzionali, come è stato invece nel recente passato.

Elettra Repetto

Dopo anni di attivismo in ambito ambientalista e dopo aver lavorato e collaborato con ONG italiane e greche che si occupano di richiedenti asilo e rifugiati, ho deciso di dedicarmi alla ricerca. Ora sono una dottoranda in Teoria Politica e Diritti Umani alla Central European University di Budapest/Vienna. Come membro di Eurodoc, il Consiglio Europeo dei Dottorandi, partecipo al gruppo di lavoro che combatte per equità e uguaglianza in ambito accademico.
I miei interessi di ricerca principali sono la disobbedienza civile, la giustizia globale, l’ambiente e la migrazione.
Oltre a collaborare con Melting Pot, sono chief editor di Rights!, una piattaforma editoriale specializzata in diritti umani.
Da anni porto avanti un progetto fotografico sull'identità e i luoghi.