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Città dal cuore di metallo

Pesaro, Fano e razzismo nelle parole dello scrittore Roberto Malini

Pesaro, 18 dicembre 2008. E’ una triste giornata di pioggia. No, non è
la pioggia che la rende triste. Siamo noi, noi italiani, noi esseri
umani, cui nessuna pioggia può lavare via l’immondizia del razzismo,
dell’intolleranza, dell’odio. Un’ora fa ero seduto al tavolino di un
bar, qui a Pesaro, insieme a un mio caro amico. Entravano persone di
tutte le età, alcune si soffermavano solo per un attimo, il tempo di
chiudere l’ombrello, controllare se i pacchi natalizi si fossero
bagnati, rassettarsi e uscire di nuovo, sotto l’acqua scrosciante. A
un certo punto è entrato un uomo di colore, sui 35 anni, che vendeva
ombrelli. Voleva solo attraversare il bar, passare da una porta e
uscire dall’altra, percorrendo pochi passi all’asciutto. Il barista,
dietro il banco, si è alzato in punta di piedi, ha assunto un tono
minaccioso e gli ha gridato: “Te lo dico per l’ultima volta, tu qui
non devi proprio entrare”. I clienti annuivano, fissando l’uomo con
ostilità. Una donna ha bisbigliato la “solita” frase: “Non se ne può
più. Ma perché non se ne tornano a casa loro”. A capo chino, l’uomo
stava per uscire, quando l’ho chiamato: “Ehi, perché non ti siedi con
noi e non bevi un caffè?”. Lui ha sorriso, ha esitato qualche istante,
poi si è rassicurato, accorgendosi che eravamo realmente amichevoli, e
si è seduto. Preferiva un cappuccino, che ho subito ordinato: “Un
cappuccino per il signore”. Gli altri clienti erano sbalorditi.
Guardavano i baristi con espressioni interrogative, cariche di sdegno.
Sembrava di essere a Montgomery, in Alabama, negli anni 1950. L’uomo
sorseggiava il cappuccino e sorrideva. Ci ha raccontato di essere
venuto in Italia perché in Nigeria faceva la fame. “Ma oggi non si
vende niente,” si lamentava, indicando il mazzo di ombrelli di tutti i
colori. Abbiamo conversato anche di calcio, dell’Inter, la squadra
italiana che lui ammira di più e della Nigeria, una delle formazioni
più forti d’Africa. Quando è uscito, con i suoi ombrelli pieghevoli,
la gente ha finalmente smesso di fissare il nostro tavolino con
sguardi di fuoco. Recentemente ho definito Pesaro come “la città dal
cuore di metallo,” in riferimento alla famosa “palla” di Arnaldo
Pomodoro, monumento bronzeo che è fra i simboli della città, ma
soprattutto all’intolleranza che si è impadronita delle Istituzioni,
delle autorità e di gran parte della cittadinanza. Qualche giorno fa
un agente di polizia mi ha chiesto come mai la mia posizione verso la
città in cui vivo attualmente, posizione che a volte esprimo sulla
stampa locale, sia così critica. “Ammiro molto l’impegno del suo
gruppo contro il razzismo, ma è davvero convinto che qui a Pesaro
siamo tutti uguali?”.
Gli ho risposto che no, non sono convinto che Pesaro sia una città
razzista. Qui ci sono anche persone che lottano per una città
multietnica, solidale e accogliente. Proprio a Pesaro ho avuto l’onore
di conoscere una donna straordinaria, che si impegna quotidianamente
per soccorrere i malati che non ricevono cure, i poveri che non
ricevono assistenza, i Rom che vengono braccati, aggrediti, minacciati
affinché abbandonino la città. Contemporaneamente, però, mi sono
accorto di come i politici, le autorità, la stampa di Pesaro, Fano e
di altri paesi del circondario conducano una campagna intollerante non
solo verso i Rom, ma verso la gente di colore e i poveri. Ho seguito
da vicino la vicenda di alcuni senzatetto, cittadini fanesi, che si
sono rivolti ai servizi sociali della loro città. “Che cosa vi
aspettate da noi?” ha chiesto loro un’assistente sociale. “Solo un
posto dove dormire la notte e l’opportunità di svolgere qualsiasi
lavoro, anche umile, anche pagato poco. “Avete sbagliato indirizzo,”
ha risposto loro la donna, “perché non siamo un albergo né un ufficio
di collocamento”. A Pesaro è lo stesso. I servizi sociali non si
occupano dei cittadini disagiati, ma sono al servizio dei politici e
dei cittadini più influenti, quelli che di certo non hanno buchi nelle
scarpe. Promosso dai media e nei comizi, l’odio razziale serpeggia
ovunque e i diversi sono indotti ad andarsene. A parole si scoraggia
il vagabondaggio delle persone indigenti, ma nei fatti anche le case
di accoglienza limitano al massimo il periodo di permanenza dei
senzatetto: tre giorni, una settimana, dieci giorni, un mese solo per
i più fortunati. Accedere ai buoni pasto è un’impresa, non un diritto:
quattro al mese, due alla settimana. Stesso discorso per i vestiti
dismessi. La gente li dona alle associazioni caritatevoli, ma per
ricevere un maglione liso o un paio di pantaloni rattoppati, bisogna
passare attraverso la gogna. L’elemosina, poi, è combattuta come se
fosse un crimine. In questi giorni natalizi, Pesaro festeggia i
simboli della nascita di Gesù, senza rendersi conto che il Redentore
venne alla luce in una casa occupata e che sua madre viveva di
elemosina, come una “zingara”. Se capitasse da queste parti, i
cittadini, secondo quanto consigliato dalla Questura, avvertirebbero
immediatamente le forze dell’ordine, segnalando la presenza sgradita
di “nomadi”. Immediatamente scatterebbe la denuncia per “occupazione
di stabile rurale” e una solerte assistente sociale provvederebbe,
autorizzata da uno di quei giudici che “firmano” il destino di esseri
umani che non si degnano neppure di conoscere, a sottrarre il Bambino
a Giuseppe e Maria, per affidarlo a una casa famiglia. Buon Natale,
Pesaro del cuore di metallo e buon Natale, Fano “lucente come una
stella cometa”.

Roberto Malini
www.everyonegroup.com