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a cura dell'Avv. Marco Paggi

Cittadini comunitari – L’applicazione della Direttiva 38 è deludente

Il Rapporto della Commissione Europea boccia la normativa italiana. Discriminazioni e prassi scorrette sotto accusa

Il rapporto della commissione europea sull’applicazione della direttiva 38 del 2004 relativa al diritto dei cittadini dell’unione e dei loro familiari a circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri ha rivelato notevoli problemi applicativi e interpretativi. Abbiamo più volte denunciato le non corrette applicazioni della direttiva europea nell’ambito del decreto legislativo 30 del 2007 e del successivo decreto legislativo 32 del 2008. Ma ancora più evidenti risultano le violazioni dei principi stabiliti nella direttiva nelle prassi più disparate di applicazione di queste norme da parte degli uffici anagrafe dei comuni che sono competenti a recepire l’iscrizione anagrafica e quindi ad accertare il diritto di soggiorno da parte dei cittadini dell’UE come pure per i loro familiari extracomunitari che continuano ad essere soggetti alla procedura di rilascio della carta di soggiorno.
La commissione nota come il recepimento della direttiva è nel complesso alquanto deludente. La relazione finale consiglia agli stati membri di migliorare le loro leggi e soprattutto le pratiche amministrative al fine di riconoscere i diritti sanciti ai cittadini dell’unione europea e dei loro familiari extracomunitari.
La direttiva 38 del 2004 conferisce ai cittadini dell’UE e ai loro familiari il diritto di residenza permanente, dopo 5 anni di soggiorno, nello stato membro ospitante ed estende a determinate condizione il diritto al ricongiungimento famigliare ai partner che hanno contratto un’unione registrata anche se per questo aspetto l’ordinamento italiano non riconosce le unioni di fatto. Gli stati membro erano tenuti a mettere in vigore le disposizioni legislative e amministrative per conformarsi alla direttiva entro il 30 aprile 2006, anche se per quanto riguarda l’Italia e non solo ciò è avvenuto in ritardo. Secondo il rapporto della commissione tutti gli stati membri hanno adottato leggi nazionali per proteggere il diritto dei cittadini dell’UE e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio dell’unione, ma nessuno stato ha recepito in modo effettivo e corretto l’intera direttiva.
Le scorrette interpretazioni dei diritti dei cittadini comunitari e dei loro familiari nell’esercizio del diritto di libera circolazione sul territorio dell’UE si constata soprattutto in relazione ai seguenti fenomeni:
– il diritto d’ingresso e soggiorno di familiari cittadini di paesi terzi, con problemi che vengono posti nella prassi in relazione al visto d’ingresso o all’attraversamento delle frontiere, condizioni imposte per ottenere il diritto soggiorno ma non previste dalla direttiva, oltre al ritardo delle carte di soggiorno;
– l’obbligo per i cittadini dell’UE di presentare a sostegno della domanda di soggiorno documenti non previsti dalla direttiva, si pensi per esempio alla documentazione riguardante il reddito o la documentazione richiesta dagli ufficiali dell’anagrafe riguardo l’idoneità d’alloggio, cosa che tra l’altro è astata regolata con alcune ordinanze dei sindaci maggiormente visibili per il loro atteggiamento discriminatorio.

La commissione sottolinea che solo Cipro, Grecia, Finlandia, Malta, Portogallo, Lussemburgo e Spagna hanno adottato correttamente più dell’ 85% delle disposizioni della direttiva, Italia e Romania hanno applicato il 70% delle disposizioni.
Naturalmente questa valutazione percentuale non tiene conto dell’importanza strategica che quella percentuale di norme non correttamente applicate ricoprono nel senso che il recepimento di queste direttive ha.
In Austria, Danimarca, Estonia, Slovenia, Slovacchia il recepimento è corretto per meno del 60% delle disposizioni.

I familiari extracomunitari di cittadini comunitari
Secondo la commissione, in particolare, alcuni aspetti della legislazione in vigore in Italia sono in conflitto con la direttiva perché i diritti di residenza non possono essere negati per il solo fatto che un solo membro sia entrato illegalmente nello stato membro: com’è noto, nel caso di ingresso di un membro della famiglia extracomunitario, che sia entrato senza visto e che quindi una volta presente nel territorio italiano eserciti il diritto di soggiorno chiedendo alla competente questura la carta di soggiorno, documentando il vincolo matrimoniale con un cittadino dell’UE, le questure rifiutano il rilascio della stessa carta di soggiorno sostenendo che il familiare sarebbe entrato clandestinamente. La sua condizione di soggiorno, secondo moltissime questure, non sarebbe più sanabile. Questo avviene contrariamente a quanto stabilisce l’art. 5 del decreto legislativo 30 in cui si stabilisce che il familiare del cittadino comunitario che intenda ricongiungersi al familiare comunitario già presente in Italia, debba chiedere preventivamente il visto d’ingresso. Sempre l’art. 5 però prevede in un comma successivo che, nel caso questi sia presente alla frontiera privo di visto d’ingresso, gli deve essere garantito un tempo non inferiore di 24 ore per dimostrare con adeguata documentazione il possesso dei requisiti per l’ingresso. In questo caso quindi dovrebbe essere ammesso nel territorio.
Se questa disposizione ammette espressamente la possibilità di sanare un vizio quale la mancanza di un visto, documentando solo la condizione di avente diritto, non si vede perchè la possibilità di sanare la condizione d’ingresso inizialmente irregolare non possa essere fatta valere direttamente di fronte alla questura, chiedendo e ottenendo la carta di soggiorno.
Peraltro, una recente sentenza del luglio scorso della Corte di Giustizia, organo giudiziario deputato all’interpretazione della normativa comunitaria, sottolinea che in questi casi non può essere rifiutato il diritto al soggiorno. Ciò nonostante le questure in Italia continuano a rifiutare il rilascio della carta di soggiorno.

Le espulsioni
Italia e Finlandia sono gli unici paesi che prevedono poi espulsioni automatiche quando i cittadini dell’UE commettano crimini di una certa gravità. Una grave violazione del diritto comunitario, che il Parlamento si appresta a sanare dopo le dure critiche espresse dalle istituzioni europee, è il fatto che sia stata introdotta nell’ordinamento nazionale italiano una legge che aumenta la durata della detenzione per reati commessi da persone che stanno soggiornando illegalmente, ivi compresi i cittadini comunitari. Si ricorda poi che la Corte di Giustizia ha stabilito varie volte, per es. con la sentenza del 25 luglio 2002, che l’omissione di un cittadinno dell’UE di conformarsi a procedure amministrative riguardo la residenza può essere sanzionato soltanto in misura proporzionale e non discriminatoria.

Le discriminazioni
A proposito delle violazioni del diritto comunitario è giusto ricordare che è una norma di legge, il decreto legge del 25 giugno 2008 n°112, convertito poi dalla legge del 6 agosto 2008 n°133, intitolato “disposizioni urgenti per lo sviluppo economico la semplificazione e la competitività la stabilizzazione e la finanza pubblica la perquisizione tributaria”, nelle sue varie pieghe, ha introdotto una norma di chiara discriminazione nei confronti dei cittadini comunitari, una norma che è espressamente riferita alle certificazioni e prestazioni sanitarie. Con l’art. 37 è stato modificato l’art. 1, comma 2, del Testo Unico sull’immigrazione il quale ricordava che “il presente testo non si applica ai cittadini membri dell’UE se non in quanto si tratti di norme più favorevoli”. Il concetto è molto semplice: le norme del Testo Unico sono destinate ai cittadini extracomunitari e agli apolidi, tuttavia, se queste disposizioni del TU contengono norme più favorevoli rispetto alle norme che in via generale sono emanate per la circolazione e lo stabilimento dei diritti dei cittadini comunitari, le norme più favorevoli prevalgono e quindi si applicano non solo ai cittadini extracomunitari ma anche a quelli comunitari, perchè è fin troppo evidente che non avrebbe senso, alla luce dei principi generali dell’ordinamento comunitario, trattare in modo peggiore cittadini comunitari rispetto a quelli extracomunitari. In particolare questa disposizione aveva una evidente utilità per quanto riguardava il diritto alle cure sanitarie da parte di cittadini stranieri non in regola con le norme in materia di ingresso e soggiorno ed in condizione di indigenza.
L’art. 35 del TU prevede espressamente che i cittadini stranieri in condizioni irregolare di soggiorno e privi di adeguate risorse economiche, abbiano comunque diritto, finché permangono sul territorio italiano, a fruire di tutte le cure, non solo di quelle urgenti altrimenti dette di Pronto Soccorso, ma anche di tutte le cure essenziali ,anche quelle non ospedaliere a carattere ambulatoriale, quindi le cure specialistiche, gli esami di laboratorio ecc. Questa norma, tuttora vigente nel TU sull’immigrazione, risulta favorevole e utile anche per quanto riguarda i cittadini comunitari poiché nella normativa sulla libera circolazione degli stessi non c’è nessuna specifica disposizione che contenga questa salvaguardia particolare che riguarda il diritto alla salute. Con l’ingresso nell’UE della Romania e della Bulgaria si era posto questo problema. Molte persone che prima, come cittadini extracomunitari irregolarmente soggiornanti, avevano diritto di usufruire di cure sanitarie anche non urgenti, un momento dopo l’entrata nell’UE la loro condizione di cittadino extracomunitario irregolarmente soggiornante è venuta meno e con essa anche la possibilità di usufruire del cosiddetto tesserino STP, Le aziende ospedaliere e le unità sanitarie locali hanno ritenuto di non dover più corrispondere gratuitamente queste cure, chiedendo quindi ai cittadini comunitari di rispettare i criteri già stabiliti dal decreto legislativo 30 e quindi di dimostrare il possesso di fonti di reddito e di chiedere preventivamente l’iscrizione all’anagrafe con l’accertamento del diritto di soggiorno.
Queste disposizioni hanno creato seri problemi a quelle persone che operano per esempio nel campo delle vittime di tratta perché che fino allora potevano fruire, nell’ambito di progetti di risocializzazione e tutela, di assistenza sanitaria gratuita in quanto prive di mezzi di sostentamento anche se in posizione irregolare, o comunque, anche se in possesso di un permesso rilasciato in base all’art 18 del TU sull’immigrazione. Nel momento in cui sono divenute comunitarie hanno di fatto perso il permesso per protezione sociale dedicato solo ai cittadini extracomunitari ed al tempo stesso perduto anche il diritto all’assistenza sanitaria.
Questa norma, introdotta col decreto legge citato, ha di fatto modificato il quadro: al testo originario dell’art.1, comma 2, che prevedeva questa clausola di salvaguardia e quindi il diritto dei cittadini comunitari ad un trattamento giuridico non peggiore di quello riservato ai cittadini extracomunitari, ha ribaltato la situazione. Il nuovo testo dell’ art 1, comma 2, introdotto dal decreto legge 112 del 2008 convertito in legge il 6 agosto 2008 con la legge numero 133, prevede che “il presente TU non si applichi ai cittadini degli stati membri dell’UE salvo quanto previsto dalle norme dell’ordinamento comunitario”.

Sempre in base a questa modifica, ai cittadini comunitari non si può più applicare nemmeno l’art 5, comma 6, del TU, quella disposizione che in circostanze eccezionali ed allo scopo di salvaguardare i diritti e gli interessi fondamentali tutelati anche a livello costituzionale, consente al questore di concedere discrezionalmente un permesso di soggiorno per motivi umanitari anche se applicando le disposizioni generali non sussistono le condizioni per il rilascio del permesso o per il suo rinnovo. Questa disposizione, grazie alla modifica della normativa, non si applica più ai cittadini comunitari che, anche da questo punto di vista, sono trattati peggio di quelli extracomunitari. Quello che dal punto di vista più strettamente giuridico rileva è che sembrano palesemente violati gli articoli 39, 43, 49 del trattato istitutivo dell’UE, in particolare l’art 49, comma 2, che garantisce il principio generale del divieto di discriminazioni. In altre parole si dispone che non sia possibile trattare i cittadini comunitari peggio di quelli extracomunitari.

Confidiamo che la commissione provveda a segnalare anche questa tra le tante violazioni e confidiamo anche che nel frattempo il disegno di legge 733 che riprenderà a breve i lavori parlamentari venga depurato delle ulteriori violazioni del diritto comunitario che già più volte abbiamo evidenziato.

Direttiva 2004/38/CE – Linee guida della Commissione delle Comunità Europee
Direttiva 2004/38/CE – Relazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio