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Cnel e MD criticano la legge Bossi Fini e le modifiche del decreto 241/2004

Si vuole dare conto di alcune osservazioni critiche sulla legge Bossi – Fini, pervenute da fonti per così dire “neutre”, ovvero da Giorgio Alessandrini, Presidente del Cnel (Coordinamento delle politiche di integrazione sociale dei cittadini stranieri), organismo ove sono rappresentati gli enti locali e le forze sociali.

Alessandrini infatti, nel corso della sua audizione nel comitato Schengen, ha detto a chiare lettere che la Bossi – Fini va corretta, per togliere gli immigrati dalla condizione di precarietà in cui si trovano, sottolineando la necessità di una vera programmazione dei flussi e quote d’ingresso per garantire un’efficace prevenzione delle forme di precarietà e di irregolarità.
“La programmazione dei flussi e delle quote d’ingresso è fondamentale – ha spiegato – perché significa apertura strutturale equilibrata all’immigrazione. Ma bisogna avere anche il coraggio di rivedere la Bossi Fini, correggendola per togliere da una condizione di precarietà l’immigrato. Il problema è quello del permesso di soggiorno regolato dalla stabilità lavorativa. Non dovremmo – ha detto ancora – esigere dagli immigrati una stabilità occupazionale che il nostro mercato del lavoro non garantisce neanche agli italiani. Per quanto riguarda poi l’esclusione dei Comuni dalla possibilità di concedere il permesso di soggiorno, questo significa mantenere una logica di precarietà.
Altro punto, tutt’altro che secondario, riguarda le politiche per l’integrazione: “La legge dà la competenza in materia agli Enti locali e questo ha significato che è venuta meno una politica nazionale e invece – ha spiegato ancora Alessandrini – serve un quadro di riferimento a livello nazionale che dia sostegno e indirizzo alle politiche delle autonomie locali”.

Il problema della competenza in materia agli Enti locali, si traduce di fatto nella possibilità per questi di fare nulla o poco e, soprattutto, si traduce in termini praticamente elettorali; è noto che un Comune che adotta politiche e interventi per gli immigrati rischia di perdere consensi, specialmente se i comuni vicini non fanno altrettanto.
Il meccanismo di delega o, per così dire, di abbandono a se stessi degli Enti locali, senza che vi sia un quadro normativo nazionale che impone agli stessi di adottare delle politiche, di assegnare strumenti finanziari, di rendere conto alla cittadinanza di quanto dovrebbero fare, crea una situazione per cui ognuno può fare “quello che vuole” e, di fatto, crea le condizioni per far sì che si faccia il meno possibile. In altre parole, fin tanto che si considererà la politica dell’integrazione, da parte degli Enti locali, come un optional e non, invece, come un normale obbligo di amministrazione del territorio, si potrà favorire e mantenere una situazione di sostanziale abbandono. Se, viceversa, le politiche dell’integrazione fossero considerate come delle attività di amministrazione ordinaria da parte degli Enti locali – come si considera tale la manutenzione delle strade o l’edilizia scolastica – , allora sarebbe abituale per ciascun ente, indipendentemente dal colore politico della giunta, dover destinare delle risorse finanziarie e dare contezza alla cittadinanza di quanto si sta facendo.
In altre parole, solo se gli enti locali saranno ritenuti responsabili effettivamente di politiche di integrazione, ci sarà la possibilità di avere una politica con cui confrontarsi; diversamente, ci si deve accontentare di qualche intervento per così dire “a pioggia” e persino essere grati a chi si assume, coraggiosamente, di adottarlo.

Le critiche alle modifiche della Bossi – Fini mosse da Magistratura Democratica
Sempre in relazione al dibattito parlamentare sulla conversione in legge del decreto legge 241/2004, il documento di Magistratura Democratica (MD) – associazione che raccoglie la maggior parte dei magistrati italiani – esprime una spiccata critica verso i contenuti del disegno di legge; in particolare, si sottolinea la forte criticabilità della scelta di attribuire ai giudici di pace la giurisdizione sui provvedimenti di polizia in materia di espulsione.

Nel documento si dice: “Questa è una scelta non in linea con la fisionomia ordinamentale dei giudici di pace, con il significato garantistico della riserva di giurisdizione previsto dall’art. 13 della Carta Costituzionale. Il giudice di pace è un giudice al quale è stata assegnata, dalla legge, una funzione più di conciliazione e di decisione delle vertenze secondo equità e, anche per quanto riguarda le recenti competenze in materia penale assegnate al giudice di pace, si tratta di un diritto penale “mite”, più orientato alla conciliazione che alla repressione. Affidare al giudice di pace delle funzioni in materia di “restrizione della libertà personale”, significa snaturare la funzione originaria del giudice di pace e soprattutto dare il senso anche alla popolazione di una sostanziale discriminazione”.
Per tutti gli altri provvedimenti relativi alla libertà personale c’è un giudice ordinario che, peraltro, beneficia di alcune garanzie costituzionali che sono rivolte ad assicurare la sua professionalità, la stabilità del suo ufficio, la sua indipendenza. Il giudice di pace aveva funzioni originariamente diverse. Ora, limitatamente ai provvedimenti che riguardano la libertà personale degli stranieri, assume invece una funzione che peraltro lo fa assimilare ad una sorta di giudice dei poveri, la qual cosa non può non turbare, ci auguriamo, almeno le coscienze.

Sempre nel documento di Magistratura democratica si sottolinea la gravità di un’ulteriore previsione, che si aggiunge alle norme già contenute nel decreto legge. Il Governo propone di modificare l’art.11 del Testo unico sull’immigrazione (Potenziamento e coordinamento dei controlli di frontiera – D.Lgsl. 25 luglio 1998, n. 286), aggiungendo allo stesso un comma 5 bis ai sensi del quale “Il Ministro dell’Interno, nell’ambito degli interventi di sostegno delle politiche preventive di contrasto all’immigrazione clandestina, contribuisce alla realizzazione nel territorio dei paesi interessati di strutture utili al fine del contrasto di flussi irregolari di popolazione migratoria verso il territorio italiano”. Si tratta di poche parole che lasciano ben comprendere ciò che non si ha il coraggio di dire.
Infatti, si prosegue nel documento: “Lo scarno tenore letterale della disposizione, corrisponde in realtà ad un’innovazione di portata dirompente. Il finanziamento della realizzazione di Centri di detenzione all’estero, una sorta di out-souorcing del trattenimento dei migranti irregolari, è svincolato da qualsiasi presupposto anche solo vagamente orientato alla tutela dei migranti; nessun limite è previsto con riferimento ai paesi destinatari dei finanziamenti, in relazione ad esempio alla loro adesione a fonti internazionali di tutela dei rifugiati; nessuna condizione è prevista, relativamente alla conformità delle strutture finanziate, agli standard minimi di rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona, prescritti dalle Costituzioni nazionali ma anche dalle Carte europee in primis la Carta di Nizza. In questo modo, le garanzie universalistiche, che costituiscono l’essenza e il valore delle Democrazie costituzionali, vengono di fatto svuotate. Ancora una volta, l’immigrazione si rivela come banco di prova delle democrazie contemporanee e della loro capacità, o incapacità, di non rinunciare alla promessa di garantire la sacralità della persona, di tutte le persone.
In questo documento di Magistratura Democratica, proprio con riguardo ai centri di detenzione collocati nei paesi extracomunitari, si sottolinea come si preveda il finanziamento dei governi stranieri per la loro realizzazione, ma nulla si dica in merito alla garanzie e ai controlli che dovrebbero essere effettuati su queste strutture; su quali saranno le sorti di questi finanziamenti; su come saranno gestiti e, soprattutto, su come saranno trattate le persone che verranno detenute in questi centri. Stupisce che da un lato si enfatizzi l’accordo – ancora non leggibile da nessuno perché per il momento è clandestino – raggiunto con la Libia, fino all’altro giorno considerato un paese antidemocratico (che peraltro non aderisce ai principali strumenti di diritto internazionale in materia di tutela dei diritti umani) e, dall’altro, si preveda disinvoltamente di inviare soldi a questo governo per creare dei centri di detenzione.

Non si comprende come si possa finanziare un’attività in un determinato paese senza che vi sia la previa verifica del rispetto nello stesso dei principi fondamentali di tutela dei diritti umani. Questa scelta è veramente “pelosa” e ci auguriamo che il dibattito parlamentare permetta di metterla in evidenza anche se, come già qualcuno sostiene, il dibattito sarà probabilmente blindato perché il Governo non si può permettere di far decadere il decreto legge.