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Colonialismo digitale – Le multinazionali Big Tech e il Sud Globale

di Michael Kwe, ROAR Magazine

Proponiamo la traduzione a cura di Globalproject.info di questo articolo di Michael Kwet – originalmente pubblicato da ROAR Magazine – sul dominio globale delle multinazionali dell’alta tecnologia, che mostra come – in un contesto capitalista – la digitalizzazione sia legata a un estrattivismo insostenibile e al rafforzamento di una divisione del lavoro altamente ineguale tra Nord e Sud del mondo.

Nel 2020, i miliardari si sono arricchiti a dismisura. Il patrimonio personale di Jeff Bezos è cresciuto da 113 a 184 miliardi di dollari. Elon Musk ha per poco eclissato Bezos con un aumento di patrimonio di 27 miliardi di dollari, che l’ha portato a possederne 185 miliardi. Per i capitalisti alla testa delle multinazionali Big Tech, è stato un anno da favola.

Tuttavia, per quanto l’accresciuto potere di tali multinazionali nei propri mercati interni è stato oggetto di numerose analisi critiche, la loro portata globale è discussa molto meno frequentemente, soprattutto dagli intellettuali più in vista dell’impero americano. Infatti, studiando i meccanismi e le cifre, è chiaro che il Big Tech non è solo globale ma anche coloniale e dominato dagli Stati Uniti. Questo fenomeno è il colonialismo digitale.

Nel mondo in cui viviamo, il colonialismo digitale rischia di diventare una minaccia per il Sud Globale di gravità ed estensione simili a quelle del colonialismo classico dei secoli passati. Le profonde disuguaglianze e l’accresciuta sorveglianza da parte di stati e aziende attraverso sofisticate tecnologie poliziesche e militari sono solo alcuni sintomi di questo nuovo ordine mondiale. Per quanto tale fenomeno possa sembrare nuovo, esso si è incastonato nello status quo globale nel corso dei decenni passati. In assenza di un movimento di contropotere sufficientemente forte, la situazione non potrà che peggiorare.

Che cos’è il colonialismo digitale?

Il colonialismo digitale è l’uso delle tecnologie digitali per il dominio politico, economico e sociale di un’altra nazione o territorio. Sotto il colonialismo classico, gli europei si impadronirono di terre straniere e vi si trasferirono, costruirono infrastrutture come fortini militari, porti marittimi e ferrovie, usarono navi da guerra a scopi di penetrazione economica e conquista militare, insediarono macchinari pesanti e sfruttarono i lavoratori per estrarre materie prime, eressero strutture panottiche per sorvegliare la mano d’opera, schierarono gli ingegneri necessari a uno sfruttamento avanzato (es. chimici per l’estrazione di minerali), si appropriarono dei saperi indigeni per incorporarli nei processi industriali, spedirono le materie prime in madrepatria per trasformarle in prodotti manifatturieri, distrussero i mercati del Sud Globale con beni manifatturieri a basso costo, perpetuarono la dipendenza di popoli e nazioni del Sud Globale da una ineguale divisione globale del lavoro ed espansero un dominio economico, diplomatico e militare volto al profitto e al saccheggio. In altre parole, il colonialismo dipendeva dalla proprietà, dal controllo di territori e infrastrutture, dall’estrazione di lavoro, saperi e risorse e dall’esercizio del potere statale.

Tale processo si è evoluto nei secoli e le nuove tecnologie vi si sono amalgamate nel corso del loro sviluppo. Nel diciottesimo secolo, cavi sottomarini facilitavano le comunicazioni via telegrafo al servizio dell’impero britannico. I progressi nella registrazione, archiviazione e organizzazione dell’informazione furono collaudati dai servizi segreti statunitensi nella conquista delle Filippine.

Oggi, le “vene aperte” del Sud Globale di cui parlava Eduardo Galeano sono le “vene digitali” che attraversano gli oceani, cablando un ecosistema tecnologico posseduto e controllato da poche multinazionali, perlopiù statunitensi. Alcune tra queste fibre ottiche transoceaniche sono in mano a compagnie come Google e Facebook, funzionali alla loro estrazione e monopolizzazione di dati. Gli odierni macchinari pesanti sono le cloud server farm dominate da Amazon e Microsoft – usate per immagazzinare, concentrare e processare big data – che stanno proliferando come le basi militari dell’impero americano. Gli eserciti sono composti da ingegneri e programmatori d’élite con generosi stipendi da 250.000 dollari all’anno o più. La mano d’opera sfruttata è fatta di schiere di lavoratori razzializzati che estraggono i minerali in Congo o in America Latina, codificano dati per lo sviluppo d’intelligenza artificiale dalla Cina o dall’Africa o ripuliscono i social media da contenuti traumatizzanti, con i conseguenti impatti sulla propria salute mentale. Le piattaforme e i centri di spionaggio (come la NSA) sono i panottici e i dati sono le materie prime processate per creare servizi basati su tecnologie di intelligenza artificiale.

In termini più generali, il colonialismo digitale consolida una divisione globale del lavoro ineguale, in cui le potenze dominanti usano la proprietà di infrastrutture digitali, saperi e mezzi di computazione per mantenere il Sud Globale in una condizione di dipendenza permanente. La divisione globale del lavoro si è trasformata. Economicamente, l’industria è scesa nella gerarchia del valore ed è stata rimpiazzata da un’economia hi-tech in cui le multinazionali Big Tech dominano.

L’architettura del colonialismo digitale

Il colonialismo digitale ha le sue radici nel dominio della “roba” del mondo digitale che costituisce i mezzi di computazione – software, hardware e collegamenti di rete. Ciò include le piattaforme che fanno da gatekeeper, i dati estratti da fornitori di servizi intermediari e le norme di settore, come la “proprietà intellettuale” e la “intelligenza digitale”. Il capitalismo digitale si è profondamente integrato con gli strumenti convenzionali del capitalismo e della governance autoritaria, quali lo sfruttamento del lavoro, la policy capture, la pianificazione economica, i servizi segreti, l’egemonia della classe dirigente e la propaganda.

Cominciando dal software, possiamo notare un processo in cui il codice – che una volta era liberamente e ampiamente condiviso dai programmatori – è diventato sempre più privatizzato e soggetto a copyright. Negli anni ‘70 e ‘80, il Congresso degli Stati Uniti ha iniziato a rafforzare i diritti d’autore dei software. C’è stato un movimento di opposizione nella forma delle licenze “Free and Open Source Software” (FOSS) che garantivano agli utenti il diritto di usare, studiare, modificare e condividere software. Questo ha avuto benefici intrinseci per alcuni paesi del Sud Globale, in quanto ha creato una “comune digitale”, libera dal controllo delle grandi aziende e dalla ricerca di profitto. Tuttavia, diffondendosi verso Sud, il movimento Free Software ha sollecitato una reazione da parte delle grandi aziende. Microsoft ha schernito il Perù quando il governo ha provato ad allontanarsi dai software brevettati da Microsoft. Ha anche provato ad impedire ad alcuni governi africani di usare il sistema operativo FOSS GNU/Linux nei ministeri del governo e nelle scuole.

La privatizzazione dei software è stata accompagnata dalla rapida centralizzazione di Internet nelle mani di fornitori intermediari di servizi come Facebook e Google. Essenzialmente, questo passaggio ai servizi in cloud ha annullato le libertà che le licenze FOSS garantivano agli utenti, perché il software è eseguito dai computer delle multinazionali Big Tech. I cloud delle multinazionali espropriano le persone dalla possibilità di controllare i loro computer. I servizi in cloud forniscono petabyte di informazioni alle multinazionali, che utilizzano i dati per addestrare i loro sistemi di intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale usa i Big Data per “imparare” – ha bisogno di milioni di immagini per riconoscere, per esempio, la lettera “A” nei diversi font e formati. Applicando questo agli umani, i dati sensibili delle vite private delle persone diventano una risorsa dal valore incalcolabile che i giganti della tecnologia provano incessantemente ad estrarre.

Nel Sud Globale, la maggior parte delle persone è essenzialmente bloccata con telefoni o smartphone di basso livello, con pochi dati a disposizione. Di conseguenza, milioni di persone vivono Facebook come “l’internet” e i dati su di loro sono consumati da imperialisti stranieri.

Gli “effetti di retroazione” dei Big Data rendono la situazione peggiore: chi ha più dati e di maggiore qualità può creare i migliori servizi di intelligenza artificiale, che attraggono più utenti, i quali forniscono ancora più dati per rendere il servizio migliore e così via. Come accade nel colonialismo classico, i dati sono stati assunti come materie prime per le potenze imperialiste, che li processano e fabbricano servizi da restituire al pubblico globale, cosa che rafforza ulteriormente il loro dominio e pone il resto della popolazione in una situazione subordinata di dipendenza.

Cecilia Rikap, nel suo prossimo libro Capitalism, Power and Innovation: Intellectual Monopoly Capitalism Uncovered, mostra come i giganti della tecnologia statunitensi basino il loro potere di mercato sui loro monopoli intellettuali, stando in cima a una complessa catena di produzione di aziende subordinate, con l’obbiettivo di estrarre profitti e sfruttare lavoro. Grazie a ciò, sono in grado di accumulare il “know-who” e il “know-how” per pianificare ed organizzare catene di valore globali e di privatizzare la conoscenza ed espropriare i saperi comuni e i risultati pubblici della ricerca.

Apple, per esempio, estrae profitti dagli IP e il branding dei suoi smartphone e coordina tutta la catena di produzione. I produttori di basso livello, come gli assemblatori di telefoni degli stabilimenti della multinazionale taiwanese Foxconn, gli estrattori dei minerali necessari per le batterie in Congo e le aziende che producono chip che forniscono i processori, sono tutti subordinati alle richieste e ai capricci di Apple.

In altre parole, i giganti della tecnologia controllano le relazioni commerciali lungo tutta la catena di produzione, traendo profitto dalla loro conoscenza, il loro capitale accumulato e l’egemonia delle componenti funzionali fondamentali. Ciò permette loro di imporre il prezzo a, o fare a meno di, aziende relativamente grandi ma in una posizione subordinata. Le università sono complici. Le più prestigiose, nel cuore dei paesi imperialisti, dominano lo spazio di produzione accademico, mentre le più vulnerabili, nella periferia o semi-periferia, sono le più sfruttate e spesso mancano di fondi per la ricerca e lo sviluppo, della conoscenza o capacità di brevettare le scoperte e delle risorse per ribellarsi quando il loro lavoro viene espropriato.

La colonizzazione dell’istruzione

Un esempio di come il colonialismo digitale si sviluppa è il settore dell’istruzione. Come espongo dettagliatamente nella mia tesi di dottorato sulle tecnologie della didattica in Sud Africa, Microsoft, Google, Pearson, IBM e altri giganti della tecnologia si impongono nei sistemi didattici in tutto il Sud Globale. Per Microsoft, non è niente di nuovo. Come scrivevo sopra, Microsoft ha tentato di intimidire alcuni governi africani affinché rimpiazzassero Free Software con Microsoft Windows, anche nelle scuole.

In Sud Africa, Microsoft ha un esercito di persone addette a formare gli insegnanti su come usare il software Microsoft nel sistema educativo. Fornisce anche tablet Windows e software Microsoft a diverse università, come l’Università di Venda, una partnership che ha pubblicizzato ampiamente. Più di recente, ha collaborato con l’operatore di telefonia mobile Vodacom (posseduto per la maggior parte dalla multinazionale britannica Vodafone) per fornire una didattica digitalizzata agli studenti sudafricani.

Nonostante Microsoft sia il principale fornitore, con contratti in almeno cinque dei nove dipartimenti educativi provinciali in Sud Africa, anche Google sta cercando una quota di mercato. In collaborazione con la startup sudafricana CloudEd, Google sta cercando di chiudere il primo contratto con un dipartimento provinciale.

Anche la Michael and Susan Dell Foundation si è gettata nella mischia, offrendo una piattaforma Data Driven District (DDD) ai governi provinciali. Il software DDD è progettato per raccogliere dati che rintracciano e monitorano insegnati e studenti, compresi voti, presenze e “questioni sociali”. Al momento le scuole caricano i dati raccolti settimanalmente piuttosto che in tempo reale, ma lo scopo ultimo è di fornire un monitoraggio del comportamento e della performance degli studenti in tempo reale, per la gestione burocratica e la “analisi longitudinale dei dati” (analisi dei dati dello stesso gruppo di individui raccolti nel tempo).

Il governo sudafricano sta anche potenziando il cloud del Department of Basic Education (DBE), che potrebbe prima o poi essere usato per una sorveglianza tecnocratica invasiva. Microsoft si è avvicinato al DBE con la proposta di raccogliere dati “per il ciclo di vita dell’utente”, a partire dalla scuola e, per chi mantiene un account di Microsoft Office 365, nella vita adulta, in modo che il governo possa condurre analisi longitudinali su cose come il rapporto tra istruzione e impiego.

Il colonialismo digitale delle Big Tech si sta diffondendo rapidamente nei sistemi educativi del Sud Globale. Scrivendo dal Brasile, Giselle Ferreira e i suoi co-autori dichiarano: “La somiglianza tra ciò che sta accadendo in Brasile e l’analisi di Kwet (2019) del caso sudafricano (e probabilmente di altri paesi del ‘Sud Globale’) è notevole. In particolare, quando le multinazionali GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple) offrono generosamente tecnologie agli studenti svantaggiati, i dati di questi ultimi vengono estratti senza ostacoli e conseguentemente trattati in un modo che rende le specificità locali prive di importanza.”

Le scuole sono ottimi siti di espansione del controllo del mercato digitale per le Big Tech. I poveri del Sud Globale spesso ricevono dal governo o dalle aziende un dispositivo a costo zero, che li rende però dipendenti da terzi per quanto riguarda la decisione del software che usano. Quale modo migliore di acquisire mercato che prevaricare software Big Tech sui dispositivi offerti ai bambini – che altrimenti non potrebbero permettersi altre tecnologie che un telefonino di vecchia generazione? Questa strategia ha il vantaggio aggiuntivo di catturare futuri sviluppatori di software, che probabilmente preferiranno, ad esempio, Google o Microsoft (invece di soluzioni tecnologiche popolari basate su Free Software) dopo aver passato anni ad usare il loro software ed essersi abituati alle loro interfaccia e funzionalità.

Sfruttamento del lavoro

Il colonialismo digitale è altresì evidente nella maniera in cui gli stati del Sud Globale sono pesantemente sfruttati per fornire alcune materie prime indispensabili alle tecnologie digitali. Da tempo si rileva che la Repubblica Democratica del Congo fornisce più del 70% del cobalto mondiale, un minerale essenziale per le batterie delle automobili, degli smartphone e dei computer. Quattordici famiglie congolesi stanno denunciando Apple, Tesla, Alphabet, Dell e Microsoft accusandole di impiegare manodopera infantile nell’industria mineraria. L’estrazione dei minerali di per sé spesso agisce negativamente sulla salute dei lavoratori e del loro habitat.

Per quanto riguarda il litio, le riserve maggiori si trovano in Cile, Argentina, Bolivia e Australia. Gli stipendi nei paesi latinoamericani sono bassi rispetto agli standard dei paesi ricchi, soprattutto considerando le condizioni lavorative. La disponibilità di dati non è uniforme, ma in Cile i minatori guadagnano fra i 1.430 e i 3.000 dollari al mese, in Argentina lo stipendio mensile arriva a essere compreso fra i 300 e i 1.800 dollari. Nel 2016, il salario minimo mensile dei minatori in Bolivia è stato “aumentato” a 250 dollari. Come termine di paragone, i minatori australiani guadagnano circa 9.000 dollari al mese e possono raggiungere i 200.000 dollari all’anno.

Gli stati del Sud Globale offrono anche abbondante forza lavoro a basso costo per i giganti tecnologici. Fra le mansioni sottopagate ci sono: raccoglitori di dati per i server di intelligenza artificiale, operatori di call center e moderatori di contenuti per i giganti dei social media come Facebook. I moderatori di contenuti puliscono i feed dei social media dai contenuti scioccanti, come violenza e materiale sessualmente esplicito, e spesso ne subiscono i danni psicologici. Nonostante ciò, un moderatore di contenuti in un paese come l’India può guadagnare fino a un massimo di 3.500 dollari all’anno – e solo dopo un “aumento”, partendo da una retribuzione base di 1.400 dollari.

Un impero digitale cinese o americano?

In Occidente si parla molto di una “nuova Guerra Fredda”, con gli Stati Uniti e la Cina che si contendono la supremazia tecnologica globale. Tuttavia, uno sguardo più approfondito sull’ecosistema tech rivela che le multinazionali americane sono dominanti nell’economia globale.

La Cina, dopo decenni di forte crescita, genera il 17% del PIL globale e si prevede che superi gli Stati Uniti entro il 2028, dando adito a voci che l’impero americano sia in declino (una narrativa che è stata popolare anche durante l’ascesa del Giappone). Se si misura l’economia in termini di potere di acquisto, la Cina è già più grande degli Stati Uniti. Tuttavia, come osserva l’economista Sean Starrs nella New Left Review, questa tesi considera erroneamente gli stati come unità autonome, “che interagiscono come palle su un tavolo da biliardo”. Starrs sostiene che in realtà il dominio economico americano “non è in declino, si è globalizzato”. Questo è particolarmente vero quando si considera il Big Tech.

Nel periodo dopo la Seconda Guerra Mondiale, la produzione delle grandi aziende si è distribuita lungo reti di produzione transnazionale. Per esempio, negli anni ‘90 aziende come Apple hanno cominciato a sub-contrattare all’estero la produzione elettronica, spostandola dagli Stati Uniti alla Cina e Taiwan, sfruttando la manodopera di lavoratori assunti da compagnie come Foxconn. Un altro esempio: spesso le multinazionali tech americane progettano l’IP per gli interruttori dei router ad alta prestazione (Cisco) e allo stesso tempo acquistano all’estero la capacità produttiva dei fabbricanti di hardware nel Sud Globale.

Starrs ha redatto un profilo delle 2000 grandi imprese pubbliche classificate da Forbes Global 2000 organizzandole in 25 settori, in cui si evidenzia il dominio delle multinazionali americane. Dal 2013 queste ultime hanno dominato, in termini di quote di profitto, in 18 dei 25 settori. Nel suo libro American Power Globalized: Rethinking National Power in the Age of Globalization, Starrs dimostra che gli Stati Uniti rimangono in testa. Per i servizi e software IT, la quota di profitto è del 76% contro il 10% della Cina; per tecnologia e attrezzatura hardware è del 63% per gli USA e del 6% per la Cina; per l’elettronica è rispettivamente 43% e 10%. Altri paesi, come la Corea del Sud, il Giappone e Taiwan, riescono a raggiungere percentuali superiori in queste categorie rispetto alla Cina.

Ritrarre gli USA e la Cina come competitori alla pari nella battaglia per la supremazia tecnologica globale, come spesso viene fatto, è quindi molto fuorviante. Per esempio, un rapporto del 2019 delle Nazioni Unite, Digital Economy, afferma che: “La geografia dell’economia digitale si concentra in due paesi” – gli Stati Uniti e la Cina. Tuttavia, il rapporto non solo ignora i fattori identificati da autori come Starrs ma omette anche il fatto che la maggior parte dell’industria tecnologica cinese mantiene il proprio dominio all’interno dei confini nazionali della Cina, eccezion fatta per importanti prodotti e servizi, come il 5G (Huawei), le telecamere CCTV (Hikvision, Dahua) e alcuni social media (TikTok), che riescono a detenere grandi quote all’estero. La Cina possiede anche investimenti sostanziali in alcune aziende techestere, ma questa non è in nessun modo la prova di una minaccia al dominio degli Stati Uniti, i quali posseggono una quota assai più ampia di investimenti esteri.

In realtà, gli USA mantengono una posizione di dominio sull’impero tech. All’esterno dei confini nazionali di USA e Cina, gli USA primeggiano nelle categorie: motori di ricerca (Google); web browser (Google Chrome, Apple Safari); sistemi operativi per tablet e smartphone (Microsoft Windows, macOS); software per ufficio (Microsoft Office, Google G Suite, Apple iWork); infrastrutture e servizi cloud (Amazon, Microsoft, Google, IBM); piattaforme social networking (Facebook, Twitter); trasporto (Uber, Lyft); business networking (Micosoft LinkedIn); intrattenimento streaming (Google, YouTube, Netflix, Hulu) e pubblicità online (Google, Facebook) – tra le altre. Il risultato è che se una persona fisica o giuridica usa un computer, le compagnie americane ne traggono maggior beneficio. L’ecosistema digitale gli appartiene.

Dominio politico e strumenti di violenza

Il potere economico dei giganti tecnologici USA va di pari passo con la loro influenza economico-sociale. Come per altre industrie, tra dirigenti del Big Tech e governo statunitense vi è una membrana permeabile, grazie alla quale multinazionali tech e alleanze d’affari esercitano pressioni per piegare la legislazione a favore dei loro interessi specifici – e del capitalismo digitale in generale.

Governi e agenzie di sicurezza, a loro volta, stringono alleanze con il Big Tech per svolgere il loro lavoro sporco. Nel 2013, Edward Snowden portò alla luce che Microsoft, Yahoo, Google, Facebook, PalTalk, YouTube, Skype, AOL e Apple condividevano informazioni con la National Security Agency per mezzo del programma PRISM. Seguirono ulteriori rivelazioni e il mondo venne a conoscenza che i dati conservati dalle multinazionali e scambiati in Internet erano stoccati dentro enormi database governativi a beneficio degli stati. Paesi nel Sud Globale sono stati oggetto di attacchi da parte dell’NSA, dal Medio Oriente all’Africa fino all’America Latina.

Anche polizia e militari lavorano con le corporazioni tech, che sono ben felici di incassare pingui assegni per la fornitura di prodotti e servizi di sorveglianza, anche nei paesi del Sud Globale. Per esempio, attraverso la controllata e poco conosciuta Divisone di Pubblica Sicurezza e Giustizia, Microsoft ha costruito un’estesa rete di alleanze con i fornitori di servizi di sicurezza [forze dell’ordine, milizie private, etc.] che sfruttano le infrastrutture cloud di Microsoft. Ciò include una piattaforma di sorveglianza “comando e controllo”, chiamata “Microsoft-Aware”, che è stata acquisita dalla polizia del Brasile e di Singapore e comprende anche un veicolo dotato di telecamere di riconoscimento facciale, in utilizzo a Città del Capo e Durban in Sud Africa.

Microsoft ha inoltre forti legami con l’industria carceraria. Offre svariate soluzioni software alle prigioni, che gestiscono l’intera struttura di correzione: trasgressori minorenni, audizioni del predibattimento, libertà vigilata, carceri, così come le persone rilasciate o in regime di libertà condizionale.

Non è chiaro dove venga esattamente impiegato il gestionale carcerario chiamato Netopia, ma Microsoft ha dichiarato che “Netopia è [un fornitore/partner] in Marocco impegnato nella trasformazione digitale e nei servizi governativi dedicati all’Africa centrale e del nord”. Il Marocco ha una comprovata storia fatta di brutalità sui dissidenti e tortura dei prigionieri. Recentemente, gli Stati Uniti hanno riconosciuto l’annessione del Sahara Occidentale, in violazione della normativa internazionale.

Per secoli, le forze imperiali hanno testato le tecnologie per reprimere e controllare i loro cittadini prima sulle popolazioni straniere, dal lavoro pioneristico di Sir Francis Galton sulle impronte digitali utilizzato in India e Sud Africa, alla combinazione di biometrica e innovazione made in the USA per la gestione dei dati, che ha generato il primo apparato moderno di sorveglianza utilizzato per pacificare le Filippine. Come lo storico Alfred McCoy ha evidenziato, l’insieme di tecnologie di sorveglianza impiegate nelle Filippine fornì un terreno di verifica che venne poi “re-importato” negli Stati Uniti per essere utilizzato contro i dissidenti interni. Microsoft e i progetti di sorveglianza high-tech dei suoi partner suggeriscono che i paesi africani continuano a servire come laboratori per la sperimentazione carceraria.

Reagire

Ovunque, l’informazione e la tecnologia digitale giocano un ruolo centrale nella politica economica e nella vita sociale. In quanto parte del progetto imperiale americano, le multinazionali statunitensi stanno reinventando il colonialismo nel Sud Globale attraverso la titolarità e il controllo della proprietà intellettuale, dell’intelligenza digitale e dei mezzi di computazione. La maggioranza dell’infrastruttura centrale, delle industrie e delle funzioni eseguite dai computer sono di proprietà di multinazionali americane, che sono di gran lunga dominanti all’esterno dei confini statunitensi. Le compagnie più grandi, come Microsoft e Apple, controllano le filiere globali ponendosi come monopoli intellettuali. Ne risultano uno scambio e una divisione del lavoro ineguali, che rafforzano la sudditanza nella “periferia” del mondo mentre si consolidano miseria di massa e povertà globale.

Invece di rendere disponibili i saperi, trasferendo le tecnologie e fornendo le componenti per una ricchezza globale condivisa ed equa, gli stati più ricchi, assieme alle loro multinazionali, mirano a proteggere la loro posizione dominante ed estrarre dal Sud Globale lavoro a basso costo e valore. Monopolizzando le componenti centrali dell’ecosistema digitale, promuovendo le proprie tecnologie nelle scuole e nei programmi di apprendimento e creando alleanze con le élite aziendali e statali del Sud Globale, il Big Tech sta soggiogando i mercati emergenti. Lucra persino sui servizi di sorveglianza forniti ai dipartimenti di polizia e alle prigioni, il tutto per creare profitto.

Eppure, contro le forze di un potere nelle mani di pochi, c’è chi reagisce. La resistenza al Big Tech nel Sud Globale ha una lunga storia, che risale ai giorni delle mobilitazioni internazionali contro IBM, Hewlett Packard e altre aziende che facevano affari con il Sud Africa dell’apartheid. Agli inizi degli anni 2000, per un certo periodo, gli stati del Sud Globale adottarono la filosofia dei software liberi e dei beni comuni come strumenti per contrastare il colonialismo digitale, anche se molte di queste iniziative fallirono. Negli ultimi anni, nuovi movimenti che combattono il colonialismo digitale sono emersi.

Il quadro è molto complesso. La crisi ecologica creata dal capitalismo sta seriamente minacciando di distruggere la vita sulla terra e le soluzioni per un’economia digitale devono intersecarsi con la giustizia ambientale e una più ampia battaglia per l’eguaglianza. Per sradicare il colonialismo digitale, abbiamo bisogno di un paradigma concettuale altro, che metta in discussione le cause profonde e gli attori più potenti e che si leghi ai movimenti dal basso che vogliono sfidare il capitalismo, l’autoritarismo e l’impero americano, nonché i suoi lacchè intellettuali.

Alessandro Ghebreigziabiher

Scrittore, drammaturgo, attore e regista teatrale, è nato a Napoli nel 1968 da padre eritreo e madre italiana, ovvero tra due sud, come amo definirmi.