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Come i migranti utilizzano i media per ‘tornare a casa’

Intervista a Tiziano Bonini, ricercatore alla Iulm di Milano

D. In quale modo i media possono servire a superare quel senso di spaesamento che tu definisci come implicito in tutte le esperienze di mobilità e che certamente diventa più pesante quando si tratta di migranti che lavorano a migliaia di chilometri dalle loro case e non vivono in un ambiente esattamente accogliente ritrovandosi invece ad abitare dei luoghi in qualche modo ostili?

R. La prospettiva da cui sono partito, ciò che mi interessa, è l’uso sociale dei media e in questo caso ho indagato che uso ne fanno i migranti.
L’ipotesi cui ho tentato di dare forma e un po’ di spessore, che potrebbe essere più che altro una metafora per spiegare questo uso, è che i media, in maniera sicuramente più fragile, più temporanea di altri oggetti simbolici (ci sono molte cose che fanno sentire a casa qualcuno quando sei straniero, come la tua lingua, le persone che conosci, l’accoglienza) siano una membrana molto sottile che ci avvolge nel momento in cui siamo connessi alla radio del nostro paese d’origine, o guardando la tv satellitare del canale televisivo del nostro Stato d’origine o anche semplicemente guardando la foto – che una volta avevamo nel portafoglio e che oggi abbiamo nel telefonino – delle persone care che abbiamo lasciato a casa. Ecco, in quel momento la temperatura si alza, ci si sente un po’ più vicino a casa per la durata della telefonata, per la durata dello sguardo sulla foto o per la durata della trasmissione radiofonica.
La mia ricerca nasce da un momento particolare che ho vissuto quando ero in viaggio in autobus per gli Stati Uniti e una sera, per motivi che non sto qui a spiegare, ero abbastanza squattrinato, mi sono trovato a dormire fuori da una stazione degli autobus e ho condiviso quella notte con due messicani da poco arrivati negli Stati uniti per la raccolta delle mele nel Rochester, New Jersey.
Loro, per tutta la notte, hanno tirato fuori il cibo che si erano portato dal Messico, hanno fumato sigarette messicane, hanno bevuto birra messicana e, a un certo punto, hanno acceso una radiolina e l’hanno sintonizzata su una stazione locale americana che però trasmetteva in messicano.
Quando hanno acceso la radio uno di loro ha esclamato: “…el sonido de casa!”, ecco il suono di casa, finalmente. E io li ho immaginati così, come avvolti in questa membrana, in una specie di piccolo territorio messicano, di frammento di Messico, incastonato nel suolo nordamericano. In quel momento loro erano casa grazie a quelle pareti invisibili decorate decorate con il suono di casa.
Quella è stata la scintilla, pensare che i media possano essere una specie di scenografia portatile, una cornice portatile che uno tira fuori nei suoi momenti di disperazione, di spaesamento, di nostalgia , e mettendosi dentro questa cornice, inserito dentro questa cornice, può temporaneamente e in maniera molto fragile sentirsi a casa.

D. Nel tuo lavoro parli della formazione di ‘sfere pubbliche diaporiche’ e di sfere nazionali rimappate dai movimenti migratori. In che senso utilizzi queste definizioni?

R. L’idea classica di sfera pubblica habermasiana in qualche modo è una cosa che è stata messa in discussione moltissimo nel tempo e ci sono ad esempio alcuni studiosi inglesi che dicono che la Bbc ha avuto un ruolo fondamentale nel nutrire, nel fornire una base, una piattaforma di discussione, di alfabetizzazione alla cultura nazionale inglese. Solo che oggi, prendiamo il caso dell’Inghilterra per comodità, ci sono delle comunità migranti che vivono lì e che non sono più rappresentate dalla Bbc, ma molti di loro guardano la televisione o programmi o i canali satellitari delle loro nazioni d’origine.
In questo caso si tratta di comunità che vivono fisicamente in Inghilterra ma che, nel momento in cui si connettono ai media dei loro paesi d’origine, è come se fossero delle piccole sfere disperse fuori dal territorio madre che ci rientrano virtualmente attraverso l’suo dei media. Seguono il dibattito pubblico il discorso pubblico, lo svolgersi della cultura nazionale del proprio paese non essendo fisicamente lì, sono diasporiche.
Questa è una cosa che la tv satellitare in primis ti permette di fare, o almeno è questo l’uso che se ne fa, specie da parte della prima generazione di migranti.
Poi ci sono altri media che permettono anche di partecipare, di prendere parte anche se in remoto, virtualmente, in maniera difficile, alla vita pubblica del tuo paese.
Nella settimana in cui ho vissuto a casa del portiere filippino del mio condominio per farmi raccontare da lui come usa i media per tornare a casa, mi diceva di sentirsi sia italiano che filippino ma di passare la maggior parte del suo tempo a controllare i siti dei giornali filippini, a scrivere a casa attraverso la chat, a mandare e-mail, a telefonare a casa, e lui ha spesso anche scritto delle e-mail ai politici locali dopo avere letto articoli sui siti internet dei giornali filippini su alcuni temi politici locali. Quindi in qualche modo lui partecipa molto più al discorso pubblico filippino che a quello italiano e lo fa oggi molto più che ieri grazie agli strumenti che ha.

D. Credi che la rimappazione di queste sfere pubbliche nazionali su altri territori risulti compatibile con delle dinamiche di vita comune tra migranti e cittadini autoctoni dei territori stessi in cui i migranti abitano o che in qualche modo esse possano rallentare o ostacolare processi di condivisione e meticciato?

R. Secondo me le due cose non si escludono a vicenda, non si ostacolano sicuramente.
C’è una prima generazione di migranti che certamente ha una tendenza molto maggiore rispetto ai propri figli che sono cresciuti qui ad alleviare la nostalgia di casa e ad alimentare il proprio bisogno di casa attraverso l’uso di tutti i mezzi che possono in qualche modo tenere in contatto con la casa di origine. Però, allo stesso tempo, ed esempio nel caso del signore filippino che ho intervistato, lui dice di essere diviso, che si sente con un piede in Italia e un piede nelle Filippine. Lui è assolutamente integrato nella sua comunità nel quartiere dove vive a Milano e guarda anche la televisione italiana, ha anche una socialità di quartiere alta, la moglie lavora in un negozio italiano, ecc.
Credo che oltre ai media esiste anche il mondo fisico dove accade l’integrazione quotidiana ed è lì che si sperimenta in primo grado l’accoglienza o la non accettazione. I media non impongono più di tanto, rispondono semmai a dei bisogni.
Alcuni studi di sociologi inglesi che ho dovuto affrontare per la tesi dicevano che le comunità indiane non si sentivano rappresentate dalla Bbc, e allora la Bbc dovrebbe cominciare a pensare che non è più il media nazionale degli inglesi bianchi di un certo tipo, ma che è il media di una comunità fatta di tante comunità diverse e dovrebbe provare a rispondere di più, a rappresentare di più queste comunità.
Qui torniamo al discorso generale che facevi tu all’inizio, a come i media rappresentano i migranti: se i migranti non si sentono rappresentati dai media, si chiudono nella rappresentazione identitaria che ne dà il proprio mezzo ci comunicazione originario.

D. A volte abbiamo visto che le politiche, ad esempio in Italia, addirittura cercano in qualche modo di ostacolare le forme di comunicazione dei migranti.
Pensiamo a quel che è accaduto in Lombardia qualche tempo fa dove un’ordinanza aveva sostanzialmente cercato di chiudere la maggior parte dei phone center presenti sul territorio imponendo dei criteri di adeguamento difficilmente raggiungibili.
Quale valore politico possiamo allora attribuire a quel gesto e quale valore simbolico hanno questi luoghi che sono notoriamente dei luoghi di aggregazione per la popolazione migrante?

R. I Phone center sono luoghi dove non soltanto si entra per tornare a casa temporaneamente, per passare quella mezz’ora al telefono con i propri cari, ma sono anche come il bar del quartier: posti dove non solo si fa socialità ma dove si va per cercare lavoro, perché c’è quel tuo amico che ti deve lasciare il numero per un possibile lavoro. Sono davvero luoghi di scambio di solidarietà, dove si riunisce tutta la comunità. Chiuderli significa dare un segno abbastanza chiaro di non accoglienza. Io chiudo i luoghi di socialità e tu sei costretto a ricostruirla altrove o a privatizzarla, a rimanere in casa.

D. Finora abbiamo parlato con te del ruolo che i media hanno nella vita dei migranti già presenti sul territorio, ma esiste anche un ruolo che i media hanno nella costruzione dei progetti migratori delle persone che scelgono o che sono costrette a lasciare il proprio paese, anche prima che il viaggio inizi fisicamente?

R. Questa è una cosa abbastanza interessante da notare.
Se confrontiamo i dati dell’immigrazione storica tra ‘800 e ‘900 e quelli degli ultimi anni, alcuni storici ti dicono che la prima è stata in termini numerici maggiore della seconda, ma la grande differenza che c’è nell’immigrazione degli ultimi anni è che è fortemente condizionata dai media.
Sappiamo tutti che in Albania si vedeva la televisione italiana negli anni ’90 e gli albanesi avevano imparato a parlare italiano attraverso la televisione. Anche per questo hanno deciso di andare in Italia, per loro era l’avamposto della modernità, dell’Europa ricca, il paradiso in terra. Questo è uno degli esempi più famosi.
È vero che i media da soli non bastano a spingere qualcuno a lasciare la propria casa, i motivi sono certamente altri: il disagio, la persecuzione, cose molto più grandi. Ma la scelta di dove andare, di cosa aspettarsi, questa sì è condizionata.
Perché è soprattutto un discorso di aspettative – anche la musica rap ascoltata nei sobborghi delle metropoli africane poi crea un immaginario, lavora sull’immaginario dei giovani che si fanno un’idea dell’America, dell’Occidente che si modella simbolicamente attraverso i prodotti mediatici con cui vengono a contatto, dai Cd, ai film, ai frammenti di televisione che colgono, alle immagini degli eroi della musica stamparti sulle magliette, sicuramente l’aspettativa del mondo occidentale è condizionata dai media.

Ascolta l’intervista:
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