1.La morte dei migranti in mare, neppure un rigo di cronaca.
Malgrado gli accordi di pattugliamento e di riammissione con la Libia e con gli altri paesi di transito, come la Tunisia e l’Egitto, anche quest’anno, con l’arrivo della primavera, sono ripresi i viaggi della disperazione attraverso il Canale di Sicilia.
Rispetto agli anni precedenti si tratta di poche imbarcazioni, altre probabilmente affondano, ma ogni volta i naufraghi arrivano in condizioni fisiche peggiori e ci sono puntualmente morti e dispersi che i mezzi di informazione ignorano.
Cresce l’atteggiamento di sfiducia nei confronti dei migranti, anche tra le forze dell’ordine. Quando si dovrebbero contare i morti, puntualmente, le autorità di polizia ritengono non veritiere le dichiarazioni dei sopravvissuti che raccontano di avere dovuto gettare cadaveri in mare, oppure lamentano la caduta in acqua e l’annegamento di qualche loro compagno, proprio quando la salvezza era vicina, magari in prossimità di un mezzo militare italiano. A questa generale sottovalutazione del dramma di chi è sopravvissuto per giorni in alto mare, senza che nessuno lo avvistasse e intervenisse in soccorso, corrisponde una censura sempre più rigida. Notizie sugli sbarchi che in passato, fino ai tempi del governo Prodi per intenderci, facevano la prima pagina, oggi vengono relegate in cronaca locale, forse un modo per non oscurare le ricorrenti dichiarazioni del ministro Maroni che esulta per i “successi storici” conseguiti nella lotta contro l’immigrazione “clandestina”, dopo la stipula dei “suoi” accordi con la Libia il 4 febbraio dello scorso anno. “Successi” che nascondono pratiche in contrasto con il diritto internazionale, ma che evidentemente l’elettorato di destra ha saputo apprezzare, nel silenzio più assoluto delle forze di opposizione presenti in Parlamento.
Successi fasulli, perché il numero degli irregolari in Italia aumenta continuamente, ma pagati a caro prezzo, con la vita dei migranti.In assenza di canali di ingresso regolare, i viaggi della speranza non si arrestano ma diventano sempre più lunghi e pericolosi, in qualche caso si parte anche dall’Egitto, e la maggiore permanenza a mare, conseguenza dei pattugliamenti congiunti italo libici, in collaborazione con l’Agenzia europea FRONTEX, comporta un numero imprecisato di vittime. Si potranno mai contare le vittime degli abusi e delle violenze della polizia libica nei centri di detenzione in cui i migranti sono ammassati in Libia, da quando si è fatta più intensa la collaborazione tra la polizia di quel paese e la polizia italiana, che ha inviato numerosi agenti “di collegamento”? Stando alle dichiarazioni ufficiali, questi poliziotti in trasferta si limiterebbero a compiti di “addestramento” della polizia libica, ma non parteciperebbero attivamente alle operazioni di cattura dei migranti irregolari, ma è possibile che nessuno di loro si accorga di quello che i libici infliggono ad uomini e donne colpevoli soltanto di fuggire dal proprio paese in guerra ?
Si indaga sulle telefonate di soccorso lanciate dai barconi in procinto di affondare nelle acque del Canale di Sicilia, ma nessuno si preoccupa delle violenze subite dai migranti nelle operazioni di trasbordo sulle unità italo-libiche, e tanto meno dei casi di omissione di soccorso che tempi di permanenza così lunghi in mare aperto dovrebbero fare ipotizzare. E non si hanno più notizie delle indagini aperte dalle Procure di Agrigento e di Siracusa dopo i respingimenti collettivi verso la Libia, praticati lo scorso anno, dal 6 maggio in poi, dalla Guardia di Finanza.
Il carattere strettamente “poliziesco” delle fasi successive all’ingresso irregolare compromette una tempestiva e corretta istruzione delle richieste di asilo, con il risultato che sta lievitando la percentuale di dinieghi, mentre diventa sempre più difficile, per gli avvocati indipendenti e per le associazioni umanitarie, raccogliere le procure e presentare tempestivamente i ricorsi contro i respingimenti “differiti”, le espulsioni, i dinieghi di status. Anche in Sicilia, come nel resto d’Italia, si frappongono ostacoli sempre maggiori ai contatti tra gli immigrati trattenuti nei centri di detenzione e le associazioni indipendenti o gli avvocati. Nulla di quanto avviene in questi centri deve trapelare all’esterno e, come documenta l’ultimo rapporto di Medici senza frontiere, l’uso forzato degli psicofarmaci all’interno dei CIE è in continuo aumento. Ma anche questo rapporto deve essere ignorato da parte dell’opinione pubblica, ed in Sicilia nessun politico o nessun prefetto ha risposto agli inviti di MSF che voleva presentare pubblicamente a Palermo il risultato di anni di indagine sui CIE e sui Cara ( centri di accoglienza per richiedenti asilo). Un rapporto che ancora una volta, dopo la relazione De Mistura del 2007, condannava senza appello il centro di detenzione Serraino Vulpitta di Trapani, che a breve, secondo quanto si dice, dovrebbe essere chiuso, quando si potrà aprire la nuova struttura detentiva di Trapani Milo.
Sull’immigrazione in Sicilia, come sui centri di detenzione ed accoglienza, deve calare il silenzio, nessuno deve più collegare Lampedusa alle rotte dei migranti, e delle ultime operazioni di salvataggio, effettuate nel mese di marzo nel Canale di Sicilia, non si sa in effetti nulla, anche perché i migranti vengono fatti sparire subito dopo il loro sbarco, distribuiti in centri diversi,anche in Calabria ed in Puglia. Diventa sempre più difficile il compito delle associazioni umanitarie nel seguire questi percorsi di dispersione che spesso preludono ad una nuova condizione di clandestinità, imposta dalle particolari modalità di “accoglienza” dietro le sbarre. Si apre dunque un nuovo fronte di impegno per quanti sapranno documentare quanto avviene e rimane nascosto.
D’altra parte si cerca di fare “sparire” i migranti prima ancora che arrivino. Non è concepibile che in un tratto di mare come il Canale di Sicilia, sorvegliato continuamente dalle autorità militari e battuto da centinaia di unità commerciali e pescherecci, “barconi” carichi di decine di migranti possano restare invisibili per una settimana o più. Probabilmente molti non vedono, o fanno finta di non vedere. E del resto su questa situazione di diffusa omissione di soccorso pesa ancora la condanna da parte del tribunale di Agrigento dei due comandanti tunisini che nel 2007 salvarono la vita a decine di migranti, conducendoli poi a Lampedusa, malgrado un repentino mutamento delle decisioni del governo italiano, che dopo una prima autorizzazione, al momento dell’ingesso nelle acque territoriali italiane, aveva poi deciso che i migranti dovevano essere ricondotti in Tunisia dagli stessi pescherecci che li avevano salvati. Il processo è ancora in fase di appello, a Palermo, ma nel frattempo i comandanti ed i pescatori (per quanto questi ultimi siano stati assolti) sono ridotti alla fame ed i pescherecci, sottoposti a sequestro giudiziario a Lampedusa, sono stati depredati e non ne rimane che lo scheletro. Come al solito, chi aveva la responsabilità di custodire quei mezzi, bloccati in porto a Lampedusa da una decisione dei magistrati, mezzi che rappresentavano l’unica risorsa di lavoro per i pescatori ingiustamente sotto processo, non pagherà neppure un euro. E intere famiglie saranno rovinate per sempre. Un ennesimo monito per tutti coloro che vogliono operare tempestivamente interventi di salvataggio, senza obbedire ai calcoli politici ed alle logiche di respingimento dei governi.
Il processo di appello dovrà dunque costituire una importante occasione di mobilitazione per le associazioni antirazziste, per continuare ad esprimere la loro solidarietà a chi ha perduto il lavoro e le speranze di futuro della propria famiglia, solo per avere compiuto un gesto di solidarietà.
Dopo il salvataggio e lo sbarco a terra, la sorte dei migranti arrivati nel territorio siciliano appare segnata. Anche a seguito della sospensione dei progetti che in Sicilia consentivano un immediato intervento delle associazioni umanitarie, i sopravvissuti, come si verificava fino al 2007, vengono “trattati” unicamente da personale di polizia, forse al fine di potere praticare interrogatori ancora più serrati, con l’unico obiettivo di scoprire scafisti e porti di partenza e quindi vengono avviati verso diversi centri di detenzione, da ultimo anche a Crotone, in Calabria. Ormai non c’è più spazio nei CIE italiani ed a Trapani, al Serraino Vulpitta che rimane per ora l’unico CIE aperto in Sicilia, i pochi posti residui, appena 54, dopo il ridimensionamento della struttura a seguito del rogo del 1999, sono occupati in prevalenza da ex detenuti, prima dell’espulsione, anche se hanno scontato la loro pena o sono ancora in attesa di giudizio definitivo. Alla vigilia di una stagione nella quale si possono attendere nuovi sbarchi, si rischia ancora una volta di riprodurre nei CIE siciliani, in quelli che saranno riaperti e nel Serraino Vulpitta in particolare, fino a quando resterà in funzione, quella stessa situazione di promiscuità che nel 1999 determinò una serie di rivolte culminate nel rogo del 29 dicembre e nella morte di sei migranti. Una strage rimasta senza colpevoli, anche se lo stato italiano è stato condannato in sede civile a risarcire i superstiti, con una sentenza che individua chiaramente le responsabilità della tragedia.
Una parte degli immigrati sbarcati in Sicilia in questi primi giorni di primavera è costituita da richiedenti asilo somali, mentre sono “scomparsi” i sudanesi, i liberiani e i migranti di altri paesi del centro Africa, per effetto dei rimpatri che la Libia, con le risorse finanziarie e tecniche italiane, provenienti in parte ( assai esigua) anche dall’Unione Europea, sta effettuando verso quei paesi. Deve fare riflettere anche l’ultimo arrivo in Sicilia di migranti tunisini, innanzitutto perché conferma come, chiusa una rotta se ne apre subito una nuova, ma anche perché non si può ritenere “a priori” che siano tutti migranti economici, o che provengano da un paese terzo sicuro, in quanto potrebbero essere anche potenziali richiedenti asilo, come già si è verificato lo scorso anno, in fuga dalla dittatura di Ben Alì, da sempre grande amico, come Gheddafi, dei governanti italiani. In dialetto siciliano un vecchio proverbio dice : “nessuno si sceglie se non si assomiglia”. E l’Italia ha rinviato in Tunisia persone che avevano fatto richiesta di asilo, come ha respinto in Libia migranti che in Europa avrebbero certamente ottenuto uno status di protezione internazionale.
2.Cosa potrà succedere in Sicilia dopo l’approvazione del pacchetto sicurezza.
Rispetto ad altre regioni la Sicilia ha avuto finora un numero più basso di immigrati regolari che si sono fermati nel suo territorio, anche per la cronica difficoltà di trovare un autentico contratto di lavoro e dunque di potere conseguire un permesso di soggiorno. Per lo stesso motivo molti richiedenti asilo si trasferiscono in altre regioni non appena ottengono un titolo di soggiorno, altri proseguono il loro viaggio verso altri stati europei. In alcuni settori come in agricoltura il lavoro irregolare riguarda il 70 per cento delle imprese agricole.
Sono circa 2.000 i migranti, molti dei quali irregolari, che lavorano annualmente da stagionali in Sicilia, ma i numeri, e le persone, sono destinati a crescere, come si sta verificando già in questi mesi, fino probabilmente a raddoppiare. Quest’anno infatti si registra un afflusso più consistente dalle regioni del nord, sia per i numerosi licenziamenti inflitti dalle aziende che preferiscono delocalizzare, e riducono il personale partendo proprio dagli ultimi arrivati, sia per le campagne antimmigrati che stanno facendo la fortuna dei sindaci leghisti e diventano sempre più, ogni giorno che passa, una vera e propria pulizia etnica ai danni dei migranti. Almeno per quelli che non vogliono sottomettersi ad una integrazione violenta, come le scuole di dialetto imposte agli “stranieri” che vogliono continuare a risiedere nelle regioni settentrionali. Un ennesimo abuso reso possibile anche dalla genericità della disciplina del nuovo “accordo di integrazione”, una novità introdotta lo scorso anno dal governo per tenere sotto scacco anche gli immigrati dotati di regolare permesso di soggiorno, un permesso di soggiorno ormai a punti, come la patente, che si potrà anche perdere prima della sua scadenza, magari perchè non si conosce bene l’italiano o ci si ostina a praticare e ad trasmettere ai figli la propria religione.
Tutte queste gravi limitazioni dei diritti di libertà e dei diritti al lavoro dei migranti nelle regioni settentrionali fanno crescere il numero di quanti ritornano in Sicilia, dopo esservi transitati negli anni passati subito dopo lo “sbarco”. Prevalentemente tre le zone in cui si dividono coloro che rientrano per lavori stagionali; Cassibile e Pachino (Siracusa), Vittoria (Ragusa) e da Alcamo a Castelvetrano ( in provincia di Trapani). Le condizioni di grave disagio in cui vivono i lavoratori agricoli migranti in Sicilia sono state denunciate, più volte, da Medici Senza Frontiere e da altre associazioni, e sono ben documentate in un video girato da Enrico Montalbano, Ilaria Sposito ed Angela Giardina, La Terra (E)strema. L’anno scorso, la Croce Rossa ed altre associazioni hanno allestito, ad Avola, nel Siracusano, e nei pressi di Alcamo, delle tendopoli che hanno ospitato centinaia di persone. I migranti arrivano in migliaia a Cassibile in febbraio – molti provengono da Rosarno – per la raccolta delle patate. Mentre a settembre il lavoro si concentra nei vigneti di Alcamo. Una concentrazione meno numerosa, ma più stabile di immigrati – la maggior parte dei quali regolari, però, – lavora nelle serre di Comiso e Vittoria (Ragusa). A differenza degli anni passati per effetto delle maggiori restrizioni introdotte dall’ultimo pacchetto sicurezza, e delle prassi più rigorose, al limite dell’arbitrio, adottate da molte questure italiane, si può attendere una crescita esponenziale del numero di immigrati che in passato erano “regolari”, ma che oggi sono rimasti, privi di un regolare contratto di lavoro, e dunque nella condizione di non potere richiedere o ottenere il rinnovo dei propri titoli di soggiorno. Anche per questi nuovi irregolari la fuga verso sud e le occupazioni di carattere stagionale rimangono le uniche possibilità di sopravvivenza in Italia.
Neppure in Sicilia la situazione sembra destinata ad evolvere positivamente con l’entrata a regime della nuove norme introdotte lo scorso anno dalla legge 94, che ha introdotto il reato di immigrazione clandestina, ma ha anche reso più precaria la condizione di quanti godevano di un permesso di soggiorno. La relativa facilità con la quale si può essere privati di un permesso di soggiorno, ed i tempi biblici di rinnovo stanno producendo una raffica di provvedimenti di espulsione. In Sicilia si lamenta inoltre la mancanza di un effettivo controllo giurisdizionale sulla detenzione amministrativa oltre che l’ attuazione, spesso “cartacea”, del principio del contraddittorio nelle diverse fasi processuali che riguardano gli immigrati irregolari.
Si registra anche l’assenza di un effetto sospensivo dei ricorsi contro le decisioni di diniego ( dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o della protezione umanitaria), di respingimento differito, ai sensi dell’art. 10 comma secondo del testo unico n. 286 del 1998, o di espulsione ai sensi dell’art. 13 dello stesso testo unico.
Diventa dunque sempre più difficile un effettivo esercizio dei diritti di difesa sanciti dall’art. 24 della Costituzione per tutti, cittadini e stranieri, senza discriminazioni. I giudici ordinari rifiutano di emettere sentenze sui ricorsi contro i provvedimenti di respingimento “differito” disposti dal Questore, mentre i tribunali amministrativi si spogliano della competenza ritenendo che la stessa materia rientri nella giurisdizione del giudice ordinario. In questo modo gli immigrati vengono privati della possibilità di presentare utilmente un qualsiasi ricorso contro il provvedimento di respingimento, previsto dall’art. 10 comma secondo del testo unico sull’immigrazione senza la indicazione di uno specifico mezzo di ricorso, e lo stato italiano viola in questo modo gli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Gli uffici immigrazione delle Questure siciliane, in misura crescente dopo l’approvazione dei vari pacchetti sicurezza, si caratterizzano per le prassi assolutamente discrezionali e spesso contrastanti, magari a pochi chilometri di distanza. In qualche caso, come a Palermo, hanno un atteggiamento di generale ostilità nei confronti degli immigrati, ostilità preconcetta che si traduce in dinieghi e ritardi che poi i magistrati dichiarano illegittimi, con gravissimi danni patrimoniali e morali, per coloro che sono costretti ad attendere anni per un semplice rinnovo o per un ricongiungimento familiare, danni appena mitigati dalla condanna dell’amministrazione al pagamento delle spese processuali. Decine e decine di casi, autentici drammi umani che finiscono nelle aule giudiziarie per la totale mancanza di senso di umanità, per un modo di applicare discrezionalmente il diritto dell’immigrazione che porta ad adottare interpretazioni tanto restrittive della legge, da sconfinare nell’abuso e nella illegittimità. E’ tempo anche in Sicilia, come in altre parti d’Italia di proporre delle “class action” per impedire alle questure ulteriori discriminazione e ritardi nell’esame delle pratiche relative ai migranti ed ai richiedenti asilo. Anche su questo fronte occorre un impegno congiunto di associazioni, di comunità organizzate di migranti e di avvocati.
Con l’approvazione della legge 94 dello scorso anno (impropriamente definita come “pacchetto sicurezza”), e dopo le nuove prassi più restrittive nei confronti dei potenziali richiedenti asilo previste dalla legge 159 del 2008, la detenzione amministrativa rischia di diventare la tappa obbligata per tutti coloro che giungono in Sicilia dalle coste dell’Africa settentrionale e per questa ragione è probabile che si intensifichi la “militarizzazione” di altri luoghi da destinare a centri di detenzione, malgrado il temporaneo rallentamento degli sbarchi. Si osserva d’altra parte un aumento delle operazioni di controllo del territorio finalizzate esclusivamente alla “cacciata” degli immigrati irregolari, se non al loro arresto, anche a danno di innocui ambulanti. Qualcuno a nord vorrebbe andare a cercare gli immigrati irregolari anche con rastrellamenti casa per casa, ma presto, alla fine dei raccolti nei quali sono impegnati i lavoratori stagionali, anche in Sicilia sono da attendersi altre retate, come è già successo negli anni precedenti. Per questa ragione appare particolarmente urgente un intervento diffuso di monitoraggio e di assistenza in favore di tutti i lavoratori stagionali impegnati nelle campagne siciliane, costretti talvolta a sopravvivere in condizioni di estremo isolamento, alla mercé dei caporali e delle organizzazioni criminali che controllano il territorio.
L’introduzione del reato di immigrazione clandestina rende “irreversibile” il destino di esclusione di quanti vengono sorpresi nel territorio nazionale privi di documenti di soggiorno, anche per il blocco dei decreti flussi annuali che consentivano una parziale regolarizzazione successiva di chi era entrato irregolarmente. Per effetto di questo nuovo reato aumenta in modo esponenziale la possibilità di ricatto e dunque lo sfruttamento dei lavoratori irregolari che, per timore di essere espulsi, non denunciano i gravi abusi quotidiani che subiscono, sia dai datori di lavoro, sia anche, in talune e documentate occasioni, dalle forze dell’ordine.
I provvedimenti di respingimento o di espulsione ed il trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione ( CIE) rischiano così di diventare pratiche generalizzate applicate nei confronti di tutti i cd. “clandestini”, siano essi migranti economici o richiedenti asilo, magari con esiti sempre più modesti, dal punto di vista di chi conteggia soltanto il numero degli immigrati respinti o espulsi, una parte minima ( dal 20 al 40%) di tutti coloro che vengono internati nei centri di detenzione.
D’altra parte occorre ricordare come, malgrado i tentativi di estensione temporale della detenzione amministrativa, che potrebbe durare adesso fino a sei mesi, anche dopo la legge 94 del 2009, si continui a verificare in Sicilia, nella maggior parte dei casi di fermo di immigrati privi di permesso di soggiorno, la immediata liberazione degli immigrati “clandestini”, che vengono arrestati e condotti in Questura, magari processati e condannati per il reato di immigrazione clandestina, ma subito dopo rilasciati con l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni. E questo anche se risultano completamente privi di mezzi e documenti o se provengono da paesi verso i quali non è possibile fare ritorno per il rischio di subire trattamenti inumani o degradanti. Di fatto destinatari di un ordine impossibile da eseguire.
Anche in queste situazioni di apre uno spazio enorme per la discrezionalità delle forze di polizia, con conseguenze assai gravi nel caso di arresto di giovani donne irregolarmente presenti nel territorio. La cronica mancanza di interpreti contribuisce ad aggravare la condizione di chi spesso è vittima di procedimenti amministrativi o penali senza intendere nemmeno cosa gli sta veramente succedendo.
3. L’apertura di nuovi centri di detenzione in Sicilia.
Quanto avviene oggi all’interno di tutti i CIE italiani dopo il prolungamento a sei mesi della durata massima della detenzione amministrativa getta una luce sinistra sulle prospettive che si profilano alla vigilia dell’apertura di nuove strutture detentive, a Lampedusa nella base Loran, e in località Milo, in provincia di Trapani. I lavori sono stati “secretati” per anni e, grazie ai decreti del governo che reiterano periodicamente lo stato di emergenza in materia di immigrazione, si sono svolti con appalti conferiti in base alla “somma urgenza”, con le procedure accelerate degli interventi della protezione civile ( quindi al di fuori di gare a rilevanza pubblica). La Corte dei conti è stata intanto privata di quei poteri di controllo che fino al 2005 avevano permesso di mettere in evidenza sprechi, opacità di ogni genere, addirittura rifiuti reiterati di fornire informazioni alla magistratura contabile.
All’insegna dello “stato di emergenza” sono sorti in Sicilia come funghi, a partire dal 2007, centri di accoglienza e centri di identificazione, talora definiti come “centri ibridi”, in quanto al di fuori delle previsioni di legge che riguardavano i CPTA, come nel caso del centro di Cassibile, chiuso nel luglio dello scorso anno, dopo l’esplosione di scandali a ripetizione, culminati adesso in diversi procedimenti giudiziari, una struttura nella quale si cumulava la funzione di centro di identificazione e quella di centro di espulsione.
Adesso, con la diminuzione degli sbarchi, è probabile che lo stesso “privato-sociale” che in Sicilia ha cogestito il sistema dell’accoglienza, con i comuni e con le Prefetture, tenti di riconvertirsi verso le nuove strutture che praticheranno la detenzione amministrativa. Ed il governo ha fornito una copertura agli abusi amministrativi commessi per anni, reiterando le dichiarazioni di stato di emergenza, mentre la nuova denominazione dei CIE, che rende bene la vera destinazione dei centri di detenzione, ha superato la ipocrita definizione dei CPTA ( Centri di permanenza temporanea ed assistenza), introdotti nel 1998 dalla legge 40 (Turco- Napolitano), ma ha lasciato immutate le condizioni disumane del trattenimento di persone colpevoli soltanto di non avere un permesso di soggiorno.
La politica sui CIE e la gestione amministrativa dei diversi centri è ormai sfuggita ad ogni controllo, dopo che la Corte dei Conti nelle sue relazioni annuali, fino al 2005, aveva espresso forti perplessità sulle modalità di spesa delle centinaia di milioni di euro destinate ai Centri di permanenza temporanea ed assistenza, ed alle operazioni di rimpatrio forzato, cifre enormi per l’esecuzione delle misure di allontanamento di qualche migliaio di migranti, molti dei quali residenti in Italia da anni.
In realtà la maggior parte degli immigrati irregolari effettivamente allontanati dall’Italia non transitava neppure dai CPT, come allora si chiamavano gli attuali CIE. Allora come oggi le operazioni di polizia, come “Vie libere”, erano mirate soprattutto verso quei gruppi nazionali, come i rumeni che fino al 2007 erano extracomunitari, i cui stati avevano gà predisposto i documenti individuali di viaggio, e dunque era possibile allontanarli anche entro pochi giorni, eludendo anche i controlli della magistratura. Anche per questa ragione le statistiche sulla percentuale di espulsioni effettivamente eseguite attraverso i CIE vanno lette tenendo conto dell’allargamento dell’Unione Europea e della fine dei conflitti nei paesi balcanici dai quali molti immigrati avevano fatto ingresso irregolare ottenendo però lo status di protezione umanitaria.
Dopo le elezioni regionali del 2010 il governo italiano si appresta ad aprire dieci nuovi CIE in tutte le regioni che ancora ne sono prive, ed in Sicilia sono già quasi pronti i due nuovi centri di detenzione di Lampedusa, nella ex base Loran, e di Trapani Milo, in prossimità dello svincolo autostradale per Palermo. Il sindaco di Lampedusa, che lo scorso anno aveva criticato il governo, negli ultimi mesi si è convertito alla linea di Maroni, al quale ha chiesto pubblicamente scusa per le critiche rivoltegli lo scorso anno, quando l’isola era diventata un gigantesco lager a cielo aperto, per effetto delle decisioni dello stesso ministro dell’interno che aveva sospeso i trasferimenti dei migranti che erano riusciti ad approdarvi, verso altre strutture, ubicate nel territorio italiano,. Siamo curiosi di vedere quali posizioni assumerà la giunta di Lampedusa quando sarà riaperto il centro di detenzione situato nella vecchia base Loran, dove si sta lavorando alacremente, una struttura che snatura l’ambiente dell’isola tagliandola praticamente in due, ma che ormai risulta quasi totalmente ristrutturata, malgrado le violazioni urbanistiche e la devastazione del territorio che avevano sollecitato in passato anche l’interesse della magistratura.
Non si sa ancora, comunque, quando e come riaprirà il centro di detenzione (CIE) di Lampedusa istituito lo scorso anno a gennaio, con un decreto “fantasma” del governo, al di fuori delle procedure previste per l’attivazione dei centri di identificazione ed espulsione. Non si comprende se il governo intende utilizzare questa struttura come luogo di detenzione per quei migranti che dovessero ancora raggiungere Lampedusa, oppure, e sarebbe la prospettiva più allarmante anche per la sorte dell’isola e dei suoi abitanti, per creare un nuovo luogo di confinamento, un centro di detenzione amministrativa “di uscita” per coloro che non troveranno posto nei CIE del nord e potrebbero essere trasferiti a Lampedusa per essere trattenuti, anche per mesi, in attesa che si renda possibile il rimpatrio, o la deportazione verso un paese di transito. Per questa ragione occorre che la popolazione di Lampedusa comprenda una volta per tutte che l’immagine dell’isola non è stata macchiata dai cronisti degli sbarchi che hanno soltanto esercitato il loro diritto/dovere di cronaca, ma dalle scelte dei politici di governo che hanno considerato da sempre l’isola come una piattaforma “offshore”, uno spazio extraterritoriale, un luogo di detenzione e deportazione, sulla quale non valgono ( neppure per gli abitanti) i diritti affermati dalla Costituzione e dalle leggi italiane.
In Sicilia rimane ancora chiuso il centro di detenzione (CIE) di Caltanissetta a Pian del lago, dopo l’incendio che lo scorso novembre ne ha distrutto le strutture. La riapertura del centro sembra ritardare per il rallentamento degli sbarchi, ma forse anche in vista del completamento del nuovo CIE in Contrada Milo, alle porte di Trapani, dove potranno essere rinchiusi centinaia di migranti e dove è prevista anche una sezione femminile. Anche in questo caso, come se non avesse insegnato nulla la torbida storia del CPTA femminile di Ragusa, chiuso nel 2008 dopo una serie di scandali, segnati anche alla morte sospetta di alcune “ospiti”, dopo anni di denunce ed esposti da parte delle associazioni e dopo una richiesta espressa di chiusura, nel 2007, da parte della commissione ministeriale sui CPT presieduta da De Mistura. Una richiesta che il governo Prodi aveva accolto disponendo la chiusura del centro, poi riaperto con l’insediamento del governo Berlusconi. Anche su questa struttura dovrà indirizzarsi l’iniziativa di monitoraggio e di denuncia delle associazioni antirazziste siciliane.
Diversa la situazione che si registra nei Cara (centri per i richiedenti asilo) aperti in Sicilia, che sono a Salina Grande, in provincia di Trapani e a Caltanissetta, strutture che risultano più vivibili anche per effetto dell’attuazione delle direttive comunitarie in materia di accoglienza e di procedure per i richiedenti asilo. Nel Ragusano, invece, a Pozzallo opera un centro di prima accoglienza, aperto quando si verificano gli sbarchi più numerosi. Anche in questo caso sta venendo meno il lavoro di prima accoglienza dopo gli sbarchi da parte delle associazioni convenzionate con il Ministero dell’interno, come l’OIM, la Crocerossa, l’ACNUR, Save The Children, ed è urgente che le associazioni esistenti sul territorio siciliano riescano ad intervenire in modo coordinato su tutte le situazioni in cui occorra erogare assistenza ed informazione. Ma nelle quali occorre anche recuperare un ruolo di confronto e di contrattazione sui diritti dei migranti con le Questure e le Prefetture.
4. Il circuito carcere – CIE, i centri polifunzionali ed i diritti fondamentali della persona. Verso nuove pratiche di resistenza.
Le misure legislative che sanzionano aumenti di pena per i recidivi, introducono l’aggravante di clandestinità e limitando i benefici della legge Gozzini per i detenuti hanno reso ancora più drammatiche le condizioni degli istituti di pena italiani, dove i suicidi e le violenze da parte della polizia penitenziaria non si contano più. La situazione esplosiva che si sta determinando nelle carceri, proprio a causa della politica penitenziaria del governo e per effetto del conseguente sovraffollamento, sta scaricando tensioni ancora più forti sui centri di detenzione amministrativa. In Sicilia e nelle regioni meridionali si corre il rischio che il trasferimento di immigrati irregolari dalle carceri e dai CIE delle grandi aree urbane del nord determini nei nuovi CIE che stanno per essere aperti in Sicilia situazioni fuori controllo, esattamente come era avvenuto nell’autunno del 1999, prima della strage del Serraino Vulpitta a Trapani.
Le tragedie del passato, come il rogo che nel 1999 costò la vita di sei immigrati rinchiusi nel CPT di Trapani, ed i processi penali, come quello per le violenze al centro Regina Pacis di Lecce giunti, anche se solo in qualche caso, alla condanna dei gestori e delle forze dell’ordine che li coadiuvavano, non sembra che abbiano modificato le prassi amministrative.
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A Trapani, nel centro di detenzione amministrativa Serraino- Vulpitta, come a Caltanissetta, a Pian del lago, fino al momento del rogo che nel novembre dello scorso anno ne ha comportato la chiusura, si sono spesso registrati tentativi di fuga e gesti di ribellione, che sono stati “sanzionati” non in base a quanto prescritto dalla legge, con una denuncia penale, nel rispetto comunque della dignità e della integrità fisica delle persone, ma con veri e propri “pestaggi” personalizzati che hanno solo determinato un clima di tensione sempre più difficile da gestire.
In passato le visite dei parlamentari nazionali e regionali avevano accertato le condizioni fisiche assai critiche di molti immigrati, alcuni dei quali con evidenti segni di ematomi, che sarebbero stati conseguenza, a detta delle forze dell’ordine, di scontri tra diversi gruppi o di incidenti avvenuti durante partitelle di calcio. Il timore di ritorsioni spesso induce gli stessi immigrati ad ammissioni solo parziali sulla reale causa delle loro ferite. Quando qualche denuncia viene presentata scatta immediatamente la rappresaglia, sia sul piano fisico, se l’immigrato è trattenuto nel centro di detenzione che sul piano legale, con la “consueta” denuncia per calunnia.
Negli anni scorsi, all’interno del centro di detenzione Serraino Vulpitta, nel piano sottostante alle stanze destinate al “trattenimento” si trovava una cella di isolamento nella quale venivano rinchiusi gli immigrati che si ribellavano, e dove si sono raccolte testimonianze di duri pestaggi. Durante le ultime visite effettuate nel 2006 nel CIE di Trapani siamo stati testimoni diretti di espressioni minacciose da parte di alcuni agenti di polizia nei confronti di immigrati che protestavano con maggiore vigore per le condizioni di trattenimento e per la impossibilità di fare valere i propri diritti. Oggi non ci sono più gruppi di parlamentari che effettuano visite nei CIE, e tutto avviene nel silenzio più totale, come confermano gli immigrati che ancora possono usare il cellulare per comunicare con l’esterno. E i rapporti di MSF e di altre organizzazioni indipendenti segnalano di recente il Centro Serraino Vulpitta come una struttura inadeguata che andrebbe chiusa al più presto. Ma quel centro rimane aperto ancora oggi.
Servirebbe ricostituire al più presto gruppi permanenti di parlamentari e di rappresentanti di associazioni per riprendere le visite nei CIE, per impedire che con la nuova situazione politica e normativa che si è determinata in Italia gli abusi si possano moltiplicare, anche in Sicilia. Un impegno ancora più necessario quando riaprirà il CIE di Caltanissetta ed apriranno i nuovi centri di detenzione di Lampedusa e di Trapani.
La diffusione dei “centri ibridi o polifunzionali” ( CPT, centri di identificazione e centri di transito), come quelli di Crotone e Caltanissetta, fortemente voluti dal Ministero dell’interno, rende ancora più incerta la condizione giuridica degli immigrati che vi sono rinchiusi e costituisce la premessa per ogni sorta di abusi e violenze. L’elenco degli abusi rischia di allungarsi ancora di più se si pensa che nei “centri di identificazione” gli immigrati vengono spesso trattenuti per giorni senza ricevere la notifica di provvedimenti di espulsione o di respingimento, di fatto una limitazione della libertà personale in evidente contrasto con l’art. 13 della Costituzione italiana. Come risulta in contrasto con la stessa norma costituzionale la prassi di prorogare la durata del trattenimento nei CIE con una convalida meramente cartacea, senza la presenza dell’immigrato trattenuto all’udienza, senza che l’avvocato abbia il tempo per esaminare il caso, senza che sia possibile nominare e fare arrivare un avvocato di fiducia. Abusi sanzionati adesso da una recente sentenza della Corte di Cassazione (Corte di Cassazione (I sez. civile, sent. n. 4544 del 24 febbraio 2010, pres. Adamo, rel. Macioce) , una sentenza esemplare, ma che in molti centri di detenzione continua a restare lettera morta. E spesso persino gli avvocati di fiducia hanno difficoltà a comunicare con i propri clienti, peggio che in carcere, peggio di quanto avviene per i mafiosi sottoposti al regime carcerario del 41 bis.
Sarebbe necessaria l’istituzione di una commissione di indagine sui centri di detenzione aperti in Sicilia, e su quelli che stanno per essere attivati, dopo che negli anni scorsi numerosi parlamentari nazionali e regionali, associazioni ed agenzie umanitarie, hanno effettuato periodiche visite, riscontrando situazioni di totale negazione della dignità umana, dei diritti fondamentali della persona ( a partire dal diritto di difesa e di comprensione linguistica), delle minime condizioni igieniche e sanitarie.
Non si può tollerare ancora il clima di malcelata intimidazione nel quale si trovano spesso ad operare i rappresentanti delle associazioni antirazziste. Per non parlare del costante monitoraggio e delle intercettazioni illegali ai danni di tutti coloro che prestano assistenza agli immigrati irregolari. Sarebbe tempo che in questo campo intervenisse il Garante della privacy. Per tutte queste ragioni occorre costituire un Osservatorio regionale su CIE e sui Cara, in modo da monitorare dall’esterno quanto avviene all’interno di queste strutture.
Il ministro dell’interno Maroni non ha ancora risposto ad una interrogazione a risposta scritta presentata nel 2008 sul centro di accoglienza e di identificazione di Cassibile, malgrado la parlamentare Rita Bernardini abbia sollecitato per una decina di volte la risposta, fino allo scorso gennaio. Da parte del governo una manifestazione eclatante di disprezzo dei diritti delle persone, oltre che dei regolamenti parlamentari. Prima della risposta del governo è arrivata la chiusura del centro e le indagini della magistratura.
Sarebbe anche tempo che il Parlamento nazionale avvertisse l’esigenza di una indagine conoscitiva per stabilire cosa avviene dentro i centri di detenzione e quale sorte è riservata ai migranti ed richiedenti asilo che finiscono in queste strutture. Ci saranno parlamentari disposti a verificare il rispetto dei diritti fondamentali della persona umana anche nei centri di detenzione?
Le risorse destinate all’immigrazione non devono esaurirsi nel finanziare gli accompagnamenti coattivi in frontiera, o la costruzione di nuove strutture detentive, ma vanno destinate a favorire percorsi di integrazione, di emersione dalla irregolarità e di effettivo riconoscimento normativo ed assistenziale del diritto di asilo riconosciuto dall’art. 10 della nostra Costituzione.
Malgrado gli sforzi dei Prefetti e degli enti di gestione i centri di permanenza temporanea non sono luoghi che possono essere umanizzati. Occorre rompere il circuito carcere – CPT e abolire il principio incostituzionale della doppia pena, base della legge Bossi-Fini ( detenzione + trattenimento amministrativo), con una diversa e più selettiva disciplina dei casi di respingimento e di espulsione. Vanno seguiti con la massima attenzione i casi dei migranti trasferiti dalle carceri nei CIE, soprattutto quando si riscontrino problemi di tossicodipendenza o di sieropositività.
Per queste ragioni l’impegno delle associazioni antirazziste dovrà collegarsi con il lavoro quotidiano degli avvocati e delle associazioni che difendono i diritti dei detenuti, anche per consentire a quanti si trovano in carcere la possibilità di legalizzazione del soggiorno in Italia, soprattutto quando siano presenti vincoli familiari o rapporti di lavoro.
La legalità e la sicurezza si possono basare soltanto sull’inclusione e sulle prospettive di regolarizzazione, contro i professionisti della (in)sicurezza, che sono capaci soltanto di alimentare esclusione, frustrazione e clandestinità.
E poi qualcuno ha il coraggio di parlare anche di politica dell’amore…