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Cosenza, Calabria, Italia – Ancora un tentativo di sgombero contro i Rom rumeni

di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo

1. La condizione dei rom in tutta Italia continua ad essere caratterizzata da una continua pressione delle forze dell’ordine che applicano provvedimenti di allontanamento forzato, anche con riferimento a cittadini romeni, dunque comunitari, in esecuzioni di ordini impartiti dai Prefetti, dai Sindaci ed in qualche caso come potrebbe avvenire a Cosenza, dalla magistratura.
Dopo la proclamazione dello “stato di emergenza” rom da parte del governo all’indomani del suo insediamento, nel maggio del 2008, non si contano più i casi di vera e propria “pulizia etnica” contro il popolo rom, che si sono verificati in tutte le regioni italiane, con conseguenze devastanti sulla già difficile integrazione nel nostro paese. Il caso tragico di Ponticelli, a Napoli, lo scorso anno, non rimasto isolato, ed anzi ha fatto scuola. Per effetto delle decisioni governative, che hanno aumentato a dismisura la discrezionalità delle autorità amministrative, e delle prassi di polizia che ne sono seguite, laddove non si è trattato di vere e proprie deportazioni, come nel caso delle città di Roma e Milano, si è innescata una fuga continua verso i luoghi nei quali si poteva ritenere che gli attacchi alla comunità Rom non sarebbero stati tanto violenti quanto quelli effettuati nelle grandi aree urbane nelle quali si è attribuito a Sindaci e Prefetti il potere di disperdere gli agglomerati Rom presenti da anni sul territorio, senza alcun obbligo di individuare soluzioni alloggiative decenti e senza garantire i diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto alla difesa e dal diritto alla salute.
Singoli episodi di criminalità sono stati trasformati in una responsabilità collettiva che ha prodotto la criminalizzazione di intere comunità di Rom presenti da anni sul territorio nazionale, anche dove non si erano verificati gravi reati attribuibili ai Rom, come nel caso di Cosenza. Nessuno ha saputo cogliere la novità costituita dall’ingresso della Romania e della Bulgaria nell’Unione Europea, un evento che impone una riconsiderazione della questione rom in Italia, anche alla luce dei più recenti orientamenti che stanno emergendo nel lavoro delle istituzioni comunitarie. In Italia la comunità rumena è la comunità straniera più numerosa, e sono diverse decine di migliaia i rom rumeni che sono giunti in Italia negli ultimi anni, anche per effetto della gravissima discriminazione della quale già soffrono nel loro paese e nei paesi confinanti.

La rottura dei legami sociali e dei percorsi di integrazione che in precedenza caratterizzavano in Italia l’insediamento delle comunità Rom ha comunque aumentato la marginalizzazione e il rischio di devianza, con un aumento dei reati più lievi, come l’occupazione abusiva, commessi da persone in evidente stato di necessità. Le misure adottate dal governo, a partire dai decreti che hanno proclamato lo stato di emergenza per la presenza delle comunità rom, attribuendo ai Prefetti poteri speciali, hanno permesso operazioni di vera e propria schedatura indiscriminata e di deportazione, da un ghetto ad un altro, magari meno visibile agli occhi della opinione pubblica.
Con il tempo però, questa pulizia etnica, questa politica del terrore praticato sui più deboli, che si è ritenuto di praticare per restituire una falsa “sicurezza” ai cittadini, soprattutto nelle grandi aree urbane, potrebbe tradursi anche in un aumento dei casi di criminalità più gravi, considerando la disgregazione sociale e l’isolamento nel quale si sono rinchiusi individui che sono stati privati dei più elementari diritti alla sopravvivenza. Questa situazione e questi rischi sono bene rappresentati nei rapporti delle grandi agenzie internazionali che si occupano della difesa dei diritti umani, con particolare riferimento al popolo Rom, ma non sembra che siano tenuti presenti dalle autorità locali che continuano a mettere in esecuzione provvedimenti di allontanamento forzato che si traducono soltanto in una continua dispersione dei Rom, persino di nazionalità italiana o comunitari, presenti sul territorio italiano. Anche quando si riesce a trovare una soluzione alloggiativa dignitosa, bastano le proteste di qualche comitato cittadino o di qualche esponente leghista per ottenere persino la rimozione di un prefetto da parte del ministro dell’interno, come avvenuto qualche mese fa a Venezia.

Alcuni giorni fa a Milano sono avvenuti altri due sgomberi.Gli agenti hanno effettuato operazioni di vera e propria pulizia etnica in via Siccoli, in zona Bovisa, e presso il cavalcavia Adriano Bacula. Durante il primo sgombero, sono stati denunciati venti Rom romeni per occupazione abusiva di stabile di proprietà privata (quattro nuclei familiari erano rifugiati in un capannone dismesso). Nel secondo intervento, altre due famiglie, con bambini, sono state denunciate, evacuate e costrette ad allontanarsi. Alla violenza si è aggiunta in questo caso l’ipocrisia perché per simulare il rispetto formale delle convenzioni internazionali che tutelano i diritti dei minori, le autorità hanno proposto alle donne e ai bambini di dividersi dai mariti, dai padri e dai fratelli maggiori, per essere ospitati temporaneamente nei ricoveri gestiti dal comune. E poi qualcuno si indigna se queste operazioni vengono definite come una “pulizia etnica”. Certo, ancora non si è arrivati alla sterilizzazione forzata delle donne.

2. Con Decreto del 1 ottobre 2009, il Prefetto della Provincia di Cosenza, sulla base di una segnalazione della Questura di Cosenza, accertato che numerosi rom presenti da anni nel campo di Cosenza a ridosso della struttura abbandonata del vecchio mercato ortofrutticolo, non erano in grado di indicare la data di effettivo ingresso in Italia; nè di dimostrare mezzi leciti di sostentamento; ed inoltre vivevano nel territorio italiano senza alcuna dimora effettiva per cui costituisce “una potenziale minaccia concreta ed effettiva e grave ai diritti fondamentali della persona ovvero all’incolumità pubblica, rendendo incompatibile la civile convivenza, disponevano l’allontanamento dal territorio nazionale, intimando loro di lasciare ilo stesso “territorio nazionale entro il termine di trenta giorni dalla data di notifica del provvedimento attraverso la frontiera di Fiumicino-Roma, con divieto di reingresso per anni cinque dall’effettivo allontanamento dal territorio nazionale”.
Successivamente il Tribunale di Cosenza con provvedimento dell’11 novembre 2009 annullava il provvedimento del Prefetto per vizio di legge in quanto le circostanze addotte dallo stesso Prefetto ( mancata dichiarazione della data di effettivo ingresso in Italia, mancata dimostrazione di mezzi leciti di sostentamento, assenza di una dimora effettiva) si traducevano in “ circostanze che, seppure indicative di una precarietà delle condizioni di vita, non configurano una minaccia ai valori primari della convivenza negli esigenti termini delineati dall’art. 20 …del decreto legislativo n.30 del 2007… ( e dall’art. 27 della direttiva 2004/58/CE)”.

Il Decreto Legislativo n.30/07 come modificato dal successivo decreto n. 32/08, all’art. 20 prevede al primo comma che: “Salvo quanto previsto dall’articolo 21, il diritto di ingresso e soggiorno dei cittadini dell’Unione o dei loro familiari, qualsiasi sia la loro cittadinanza, può essere limitato con apposito provvedimento solo per: motivi di sicurezza dello Stato; motivi imperativi di pubblica sicurezza; altri motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza”.
Lo stesso decreto prevede poi specificamente all’Art. 20, comma terzo, l’allontanamento per motivi imperativi di pubblica sicurezza, che sussistono quando la persona da allontanare abbia tenuto comportamenti che costituiscano una minaccia concreta, effettiva e grave ai diritti fondamentali della persona, ovvero all’incolumità pubblica, rendendo urgente l’allontanamento perché la sua ulteriore permanenza sul territorio é incompatibile con la civile e sicura convivenza.
Il successivo comma quarto del citato art. 20 prevede che: “Ai fini dell’adozione del provvedimento, si tiene conto anche di eventuali condanne, pronunciate da un giudice italiano o straniero, per uno o più delitti non colposi, consumati o tentati, contro la vita o l’incolumità della persona, o per uno o più delitti corrispondenti alle fattispecie indicate nell’articolo 8 della legge 22 aprile 2005, n. 69, di eventuali ipotesi di applicazione della pena su richiesta a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per i medesimi delitti, ovvero dell’appartenenza a taluna delle categorie di cui all’articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e successive modificazioni, o di cui all’articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni, nonché di misure di prevenzione o di provvedimenti di allontanamento disposti da autorità straniere”.
In base allo stesso comma quarto, i provvedimenti di allontanamento sono adottati nel rispetto del principio di proporzionalità e non possono essere motivati da ragioni di ordine economico, né da ragioni estranee ai comportamenti individuali dell’interessato che rappresentino una minaccia concreta e attuale all’ordine pubblico o alla pubblica sicurezza.
E’ da ribadire, poi, che l’eventuale esistenza di condanne penali non giustifica di per sé l’adozione di tali provvedimenti.

Nel caso specifico, il decreto di allontanamento emesso dal Prefetto di Cosenza aveva confuso e sovrapposto fattispecie diverse e non rispondeva a nessuno dei citati principi, risultando radicalmente privo di motivazione, in quanto quelle addotte, sulle quali, comunque torneremo innanzi, erano del tutto generiche, prive di qualsiasi riferimento a situazioni o comportamenti individuali e  non potvano costituire  i presupposti per l’adozione di provvedimenti di allontanamento per motivi di pubblica sicurezza, dovendo, questi, essere assunti sulla base di concreti ed attuali comportamenti che costituiscono una minaccia alla incolumità pubblica.

La decisione del Tribunale di Cosenza ha invece escluso la violazione della normativa internazionale in tema di espulsioni collettive (Art. 4 del Protocollo Addizionale n. 4 della Convenzione Europea a salvaguardia dei Diritti dell’Uomo- CEDU), richiamando un precedente della corte di cassazione, la sentenza n. 23134 del 2004 che si pone in contrasto con la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Il provvedimento di allontanamento forzato del Prefetto era assolutamente generico e contraddittorio quanto alla individuazione dei presupposti era di natura evidentemente collettiva, constando della mera sommatoria di 90 provvedimenti identici, contemporaneamente assunti dal Prefetto di Cosenza nei confronti di parte consistente di una comunità, quella Rom, che vive in modo stanziale e continuativo nella zona da diversi anni.
Già in precedenza, prima che la Romania entrasse nell’Unione Europea, il Tribunale di Milano con provvedimento d’urgenza del 2 agosto 2004 aveva applicato l’Art. 4 del Protocollo Addizionale n. 4 della CEDU, qualificando come espulsione collettiva l’adozione di una decina di decreti di espulsione emessi nei confronti di cittadini rom di nazionalità rumena ed adottati in forma collettiva senza esaminare le singole situazioni personali dei soggetti coinvolti.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affrontato un caso di espulsione di cittadini rom verso la Slovacchia nella Sentenza cosiddetta “Conka”.
In quella occasione ha precisato che l’ipotesi di provvedimenti di allontanamento eguali, ci si trovi innanzi una decisione non individualizzata, da cui è possibile dedurre l’esistenza di una fattispecie di “espulsione collettiva”.

Nei provvedimenti di allontanamento disposti ad ottobre del 2009 dal Prefetto di Cosenza sono state dunque scambiate e sovrapposte diverse fattispecie normative che si riferiscono a situazioni individuali profondamente diverse.
I motivi di allontanamento indicati nei provvedimenti adottati in base all’ art. 20 del citato D. lgs, sono in alcuni casi tipizzati (come nei casi dei motivi imperativi di pubblica sicurezza indicati al comma 3), ed in altri devono essere individuati specificamente caso per caso come previsto dal comma uno riguardo: a) motivi di sicurezza dello Stato; b) altri motivi di ordine pubblico o di sicurezza pubblica.
I motivi di pubblica sicurezza sono imperativi quando il cittadino dell’Unione o un suo familiare, qualunque sia la sua cittadinanza, abbia tenuto comportamenti che compromettono la tutela della dignità umana o dei diritti fondamentali della persona umana ovvero l’incolumità pubblica, rendendo la presenza del cittadino comunitario nel territorio dello stato incompatibile con l’ordinaria convivenza. Questo sancisce la norma.
Il provvedimento adottato dal Prefetto di Cosenza, aveva applicato impropriamente la misura dell’allontanamento forzato, che sarebbe prevista dall’art. 20 comma 3, a casi che potevano essere qualificati eventualmente, ma solo sulla base dell’accertamento di condotte individuali, come allontanamento per motivi di pubblica sicurezza.
Il decreto di allontanamento era così mal scritto (su formulari che evidentemente corrispondevano ad ipotesi diverse) che vi risultava una correzione, addirittura con un tratto di penna, del riferimento al comma 3 (motivi imperativi di pubblica sicurezza) trasformato in comma 1 (che riguarda invece i motivi di pubblica sicurezza).

3. Poche settimane dopo l’annullamento del provvedimento di allontanamento forzato adottato dal Prefetto, il Giudice delle indagini preliminari di Cosenza disponeva il sequestro preventivo dell’area nella quale erano insediati i rom rumeni nella zona adiacente all’ex mercato ortofrutticolo di Cosenza sia per ragioni connesse alla situazione di degrado dei luoghi, che per la presunta commissione di reati nella stessa zona, e precisamente l’occupazione abusiva e lo scarico di materiali tossici. Lo stesso giudice, rilevato che l’esecuzione del sequestro comportava lo sgombero delle persone che occupavano “abusivamente” l’area, rinviava l’esecuzione della misura al 1 marzo 2010 al fine di consentire alle autorità locali di adottare nel frattempo i necessari interventi per dare assistenza alle numerose famiglie rom da sgomberare e predisporre l’allestimento di aree attrezzate in modo sa soddisfare le esigenze di accoglienza dei rom rumeni, la maggior parte dei quali residente a Cosenza da lungo tempo.
Nel decreto di sequestro preventivo adottato nei confronti di oltre cento rom rumeni residenti a Cosenza nel campo a ridosso del fiume Crati, si osservava tra l’altro, su conforme richiesta della Procura, che gli stessi Rom destinatari del provvedimento, oltre a commettere il reato di invasione al fine di occupazione abusiva di aree pubbliche e private, avrebbero scaricato nello stesso terreno occupato materiali tossici, e si sarebbero resi responsabili del furto di energia elettrica. Nella richiesta di sequestro preventivo dell’area, la Procura della Repubblica aveva inoltre addotto, come ragioni per il sequestro dell’area, e quindi lo sgombero dei rom, le condizioni di pericolo per l’igiene e la sanità, la situazione di pericolo per la pubblica e privata incolumità, una generica attività di accattonaggio che avrebbero svolto alcuni appartenenti alla comunità Rom di Cosenza.

In questo modo quanto non era stato possibile eseguire in forza del provvedimento di allontanamento forzato adottato dal Prefetto ad ottobre, dunque lo sgombero del campo Rom di Cosenza, è divento ancora una volta eseguibile in forza di un provvedimento adottato dal giudice penale sulla base delle relazioni e delle schedature effettuate dalla polizia, dai vigili urbani e dal corpo delle guardie forestali. Per nulla sembra rilevare che i Rom presenti nel campo abbiano trovato in loco, nell’area abbandonata da tempo, i rifiuti tossici, e che siano cittadini italiani che continuano impunemente, nella più totale assenza di controlli da parte delle istituzioni preposte, a scaricare ogni genere di rifiuti nei pressi del campo Rom. Come per nulla sembra rilevare che le famiglie Rom visitate frequentemente da associazioni e volontari facciano ricorso a gruppi elettrogeni per la produzione di energia elettrica, che dunque non rubano. Ma per provare questo ormai ci vorrà un processo penale. In ogni caso non si può trasformare l’aggravante del concorso in un supposto reato, in una vera e propria responsabilità collettiva. In base alla Costituzione italiana ed al vigente codice penale la responsabilità penale rimane individuale, ed i singoli fatti di reato vanno provati persona per persona.

In aggiunta alle contestazioni rivolte ai Rom identificati e schedati dalle forze di polizia, il provvedimento del giudice penale adombra gravi responsabilità a carico di quegli amministratori locali, il Sindaco ed il Presidente della provincia in particolare, che nel termine fissato dal magistrato non provvedessero ad adottare quei provvedimenti di accoglienza e di alloggio che sono visti come presupposti obbligatori per l’esecuzione effettiva dello sgombero forzato dell’area, secondo quanto affermato dal magistrato, al fine di bilanciare le esigenze di pubblica sicurezza con la doverosa tutela dei diritti all’assistenza ed all’accoglienza dei Rom rumeni identificati e schedati, peraltro solo una parte dei Rom che abitano nell’accampamento ubicato tra il vecchio mercato ortofrutticolo di Cosenza, oggi in stato di abbandono, ed il fiume Crate.

In base al provvedimento del Giudice delle indagini preliminari di Cosenza , una volta decorso il termine del primo marzo, toccherà quindi alle forze di polizia eseguire lo sgombero forzato dell’area sottoposta a sequestro, fermo restando il dovere ( e le conseguenti responsabilità) degli amministratori locali, di predisporre una soluzione alloggiativi alternativa prima di quella data. La contestazione di diversi reati, quali l’invasione abusiva di suolo altrui ed il furto di energia elettrica, per quanto debba riconoscersi agli imputati la presunzione di innocenza, fino alla condanna definitiva, esattamente come per gli italiani, tende comunque a configurare come socialmente pericolosa una collettività di soggetti individuata attraverso un elenco di nomi. Una intera comunità viene ritenuta responsabile della commissione di reati sulla base di rapporti di polizia che identificano le persone e le baracche nelle quali vivono, anche con rilievi fotografici, ma sempre in modo assolutamente generico quanto alla diretta riferibilità alla commissione dei reati contestati. Questa attività di censimento e di schedatura sembrerebbe costituire il presupposto reale, piuttosto che lo stato di pericolosità dei luoghi o il ricorso all’accattonaggio, peraltro da dimostrare individualmente, per la misura di sequestro e dunque per l’allontanamento forzato.
Anche se la misura di sgombero è disposta dal giudice penale per realizzare le finalità di sequestro dell’area, occorre ricordare che, in base all’Art. 20 comma 4 del d.lgs 30 del 2007: “I provvedimenti di allontanamento sono adottati nel rispetto del principio di proporzionalità e non possono essere motivati da ragioni di ordine economico, né da ragioni estranee ai comportamenti individuali dell’interessato che rappresentino una minaccia concreta e attuale all’ordine pubblico o alla pubblica sicurezza. L’esistenza di condanne penali non giustifica di per sé l’adozione di tali provvedimenti”.
La norma riproduce quanto disposto dalla direttiva 2004/38/CE, che a sua volta riproduce i principi che la Corte di Giustizia ha costantemente affermato in materia a partire dalla decisione Bouchereau (C-30/77) del 1977. Cioè, dunque una giurisprudenza assolutamente consolidata ormai da più di 30 anni.
Non intendiamo in questa sede entrare ulteriormente nel merito delle contestazioni rivolte ai rom dal giudice penale di Cosenza, come faranno invece gli avvocati che li difenderanno nel successivo eventuale giudizio, vogliamo soltanto sottolineare intanto che il “bilanciamento”, che lo stesso giudice individua come preliminare allo sgombero, tra la necessità di eseguire il provvedimento di sequestro dell’area a ridosso del vecchio mercato ortofrutticolo di Cosenza e le esigenze abitative delle famiglie rom che occupano la stessa area chiama direttamente in causa la responsabilità delle autorità locali che sono chiamate anche dalla magistratura ad individuare una diversa soluzione alloggiativa. Occorre considerare anche il fatto che molti rom del campo di Cosenza sono stabilmente residenti in quella città da molti anni, non hanno mai costituito un pericolo per la sicurezza pubblica, ed anzi sono spesso costretti a lavorare in nero, in quanto i loro datori di lavoro non intendono metterli in regola, e li accettano solo a questa condizione, circostanza questa che impedisce loro di potere documentare mezzi di sostentamento leciti che sono richiesti per fondare il diritto alla residenza stabile.
E dunque la questione dello sfruttamento del lavoro, e non certo quella dell’accattonaggio, al quale pure sono costretti alcuni dei rom che vivono nelle condizioni più disagiate, che si intreccia con la negazione ad una soluzione alloggiativa stabile e durevole. I Rom di Cosenza non sono nomadi, come a qualcuno forse piacerebbe definirli ancora, e la soluzione non potrà consistere nel loro ennesimo allontanamento forzato, in una loro ulteriore clandestinizzazione, anche perché sono cittadini comunitari, e dunque qualsiasi problema non si risolverà certo con una espulsione, o con l’internamento in un centro di detenzione amministrativa, come invece si continua a fare con i cittadini extracomunitari privati dei più elementari diritti di difesa e di ricorso davanti ad una autorità giurisdizionale indipendente. A meno che non si voglia usare il processo penale ed la prospettiva del carcere come strumenti di soluzione di un problema sociale, come avviene ormai in tutta Italia, magari soltanto come una minaccia di fronte alla quale non rimane altra possibilità che la fuga nella clandestnità.