Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Crisi dei migranti, Europa, hotspot. La fabbrica della differenza

Cosa può un hotspot?

Diverse centinaia di donne, uomini e minori attendono nei pressi di un’area portuale del sud Italia. Molti hanno attraversato il Sahara, qualcuno partendo da molto più a sud. Qualcuno ha impiegato diverse settimane per compiere il tragitto. Qualcuno è in transito da mesi, qualcun altro è in movimento da anni. Qualcuno ha scelto di imbarcarsi per l’Europa, qualcun altro non aveva alternative. Percorsi individuali e collettivi diversi, motivazioni soggettive irriducibili ad unità si intrecciano e si separano, negli hub di transito lungo le rotte, per poi ritrovarsi sulle imbarcazioni che solcano il mediterraneo, nonostante l’inverno e il mare grosso. E ora tutti aspettano, in un insieme disomogeneo per provenienze e desideri: questa volta la traversata è andata bene, le imbarcazioni hanno retto il mare e l’Europa è sotto i piedi, e ha le sembianze di una banchina in un porto dell’Europa meridionale.
Nonostante le condizioni fisiche precarie, prodotto di mille percorsi, pericoli, attraversamenti, sconfinamenti, attese, rallentamenti e ripartenze, c’è, tutto sommato, ancora una buona dose di pazienza che consente di aspettare che le procedure di registrazione, da espletare immediatamente dopo l’ingresso nelle aree di primo soccorso, vengano concluse. Infondo si è arrivati a destinazione, sopravvivendo ad un viaggio spesso mortale. Probabilmente avranno pensato questo le migliaia di persone alle quali è stato finora somministrato, negli ultimi mesi, il foglio notizie, una scarna paginetta predisposta dal Ministero dell’Interno, distribuita dalla polizia di frontiera nei centri hotspot (e in diverse Questure) come messaggio di benvenuto in Europa. In alto si indicano le generalità, a metà pagina la nazione di provenienza. In basso, invece, si risponde ad un piccolo questionario a risposta multipla, in verità un po’ sui generis. Due delle risposte opzionabili, in particolare, in corrispondenza del quesito “Venuto in Italia per” hanno un suono strano. Le possibili risposte “lavoro-occupation” e “fuggire dalla povertà – escaping for poverty” sembrano decisamente retoriche: è ben noto il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro; e l’ingresso nel mondo del lavoro, nei desideri e nei bisogni di coloro che arrivano da sud e da est, è una necessità pratica, e di vita, che diventa spesso un’ossessione.
Questo foglio notizie serve, dunque, per registrare gli ingressi nelle strutture di prima accoglienza? È una rilevazione statistica ai fini del conteggio delle persone da segnalare per la relocation in altri luoghi dell’Ue?
No: è, nella sua oscena semplicità, un agile strumento, dalle sembianze inoffensive, utilizzato negli ultimi mesi in vari porti di arrivo e nelle Questure delle località di transito per sezionare a colpi di accetta l’insieme delle donne e degli uomini in migrazione, separando coloro che vengono prodotti da questa messa in scena come migranti economici dalla restante parte dei potenziali rifugiati.

Tanto basta, in Europa, per ritrovarsi in condizione di illegalità, senza documenti, senza accoglienza. È sufficiente rispondere in buona fede ad un questionario/trappola, in condizioni psicofisiche precarie, al culmine di un viaggio insidioso e sfiancante, in violazione degli obblighi di informazione e orientamento, senza che nessun apparato amministrativo, poliziesco o umanitario, italiano o europeo, sia interessato ad ascoltare le motivazioni, soggettive e oggettive, alla base del percorso migratorio.
L’idea che questo meccanismo di selezione abbia a che fare con una pur embrionale valutazione del caso concreto, del percorso di vita, del contesto biopolitico dal quale si fugge è, ovviamente, insostenibile. Questa circostanza non sorprende: la priorità del management delle migrazioni è, anche alla luce dei crescenti populismi e razzismi, mettere in scena la divisione, più che la compassione. Questo meccanismo, evidentemente, non ha a che fare con la registrazione della differenza, ma con la sua produzione.
Lo scenario nel quale ci si muove, anche alla luce del manifestarsi delle prassi sopra descritte, è in rapido mutamento: è una fase a tutti gli effetti laboratoriale. L’attuale cassetta degli attrezzi utilizzata per costruire la differenza sarà probabilmente integrata da meccanismi meno rozzi, più diffusi, o meno visibili. In questa fase sperimentale è necessario cogliere la portata dei meccanismi extranormativi utilizzati per rendere vigente quello che il Governo italiano definisce approccio hotspot. La Roadmap italiana, redatta dal Governo e indirizzata alla Commissione Europea, è un documento privo di valore normativo che, però, delinea comportamenti, prassi e procedure già vigenti, pur in assenza di esplicite produzioni normative che formalmente li descrivano e istituiscano. La portata delle novità introdotte tramite questo meccanismo informale è tutt’altro che irrilevante. Nella Roadmap si parla, infatti, degli hotspot come centri chiusi, caratterizzati da una procedura di preselezione, tramite la compilazione del foglio notizie, al fine di aumentare il numero di rimpatri forzati. A tal fine saranno predisposti accordi tecnici con i paesi di origine e, nelle more dell’espulsione, saranno aumentati i posti disponibili nei CIE.
A tutti gli effetti siamo di fronte, evidentemente, ad un programma politico di media/lunga durata. Le novità non riguardano soltanto le località portuali indicate, nella stessa Roadmap, come sede fisica dei centri hotspot (Lampedusa, Pozzallo, Trapani, Porto Empedocle, Augusta e Taranto). L’utilizzo del termine approccio, messo a sistema con l’analisi delle prassi in via di diffusione ben oltre i territori elencati, dimostra che hotspot, più che un insieme di centri o una procedura codificata, è un’ipotesi generale di gestione dei flussi migratori.

Divenire hotspot

Alla luce di ciò, è legittimo parlare del divenire hostpot delle politiche migratorie, europee e italiane. Siamo in presenza, è bene ribadirlo, di un contrazione complessiva del diritto d’asilo, dentro la quale soltanto chi ricalca fedelmente l’immaginario consolidato del buon profugo (siriani e iracheni in testa) può ragionevolmente pensare di superare per lo meno la fase di preselezione. In ogni caso anche chi è evidentemente nelle condizioni di ottenere il riconoscimento della protezione internazionale è nei fatti intrappolato nelle maglie dell’hotspot. Uno dei pilastri intorno ai quali ruota l’impianto complessivo dell’operazione in corso è legato all’obbligatorietà del fotosegnalamento e della registrazione delle impronte, funzionali all’inserimento dei dati del richiedente nella banca dati Eurodac, operazione che delinea l’impossibilità di richiedere protezione presso altri paesi UE, alla luce del regolamento di Dublino. Anche la prospettiva della relocation è, nei fatti, una chimera: anche per coloro che l’Europa riconosce come rifugiati l’hotspot è un dispositivo che impedisce la realizzazione dei progetti migratori.
L’hotspot può essere pensato come l’ennesimo muro innalzato a difesa della Fortezza Europa? La tentazione è forte: in effetti l’approccio hotspot è caratterizzato da un evidente innalzamento dei livelli di esclusione, lungo le due direttrici respingimento differito/clandestinizzazione o CIE/rimpatrio che, come prodotto dell’approccio hotspot, hanno rispettivamente condotto in condizione di illegalità, o nei paesi di origine con i quali l’Italia ha accordi di riammissione operativi, i migranti definiti not in need of international protection.
È necessario, tuttavia, provare a non appiattire le narrazioni collettive intorno all’immagine del muro. Nonostante l’evidente messa in crisi del diritto d’asilo e dell’accoglienza, l’obiettivo principale del divenire hotspot delle politiche migratorie è legato alla necessità di produrre, con ancora più incisività, forza lavoro sfruttabile e disciplinabile. Può essere utile, ad esempio, provare ad immaginare le traiettorie che collegano i centri e le prassi di produzione della differenza, messa in scena dall’approccio hotspot, alle campagne del sud Europa ed a ogni luogo di lavoro e di esistenza nel quale la precarietà giuridica è veicolo delle forme più disparate di presa sulla vita, ricatto, alienazione, messa a valore.
Gli strumenti operativi con i quali l’approccio hotspot viene realizzato sono articolati e anch’essi mutevoli. Anche da questo punto di vista siamo davanti ad una fase laboratoriale: il management è gestito da un intreccio informale di apparati amministrativi e di polizia italiani, agenzie europee (Easo, Frontex, ecc), organizzazioni umanitarie, nazionali ed internazionali. Resta da comprendere cosa rende possibile questa produzione della differenza che, nei fatti, ha più a che fare con la superstizione che con elementi di realtà. Chiunque abbia ascoltato il racconto di un migrante sa bene, infatti, che motivazioni soggettive e oggettive, desiderio di alterità, volontà e bisogno di fuga dal contesto economico e sociale siano elementi costitutivi, intrecciati e sovrapponibili. Nel consolidarsi del discorso dominante secondo il quale i cosiddetti migranti economici sarebbero distinguibili dai rifugiati un ruolo non secondario è giocato dagli attori umanitari. Non si tratta, infatti, di una retorica unicamente calata dall’alto, in maniera strumentale, dalle élite europee e dagli attori del management delle migrazioni, ma di un sapere che si diffonde con una certa facilità, per esempio, anche in un parte consistente del mondo dell’associazionismo interculturale non politicizzato e che viene riprodotto, senza soluzione di continuità, dagli attori internazionali del campo umanitario.
Che fare, in un contesto così complesso e allarmante? Il 2016 sarà un anno cruciale nella relazione tra spazio europeo e migranti. Negli hotspot siciliani già operativi si segnalano varie forme di rifiuto e disobbedienza praticate dai migranti respinti o intrappolati dalle operazioni di fotosegnalamento. Per evitare di restare spettatori dei cambiamenti in atto è necessario affinare gli sguardi, alla ricerca delle forme di mobilitazione più giuste ed efficaci alla luce del contesto e dei cambiamenti in corso, pensando al divenire hotspot come dispositivo ancorato a territori specifici, costituito da elementi concreti (barriere, cancelli, sbarramenti, mura, container, transenne, ecc) ma che eccede ciascun luogo fisico nel quale è materialmente localizzato e che si diffonde, senza soluzione di continuità, come ipotesi generale di governo dei flussi migratori al tempo della loro crisi.

Francesco Ferri

Sono nato a Taranto e vivo a Roma. Mi occupo di diritto d'asilo, politiche migratorie e strategie di resistenza sia come attivista sia professionalmente. Ho partecipato a movimenti solidali e a ricerche collettive in Italia e in altri paesi europei. Sono migration advisor per l’ONG ActionAid Italia.