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Cronache dai Balcani: la quotidianità a Šid in Serbia

Di Eloisa Pantano, No Name Kitchen

Šid (Serbia) – La polizia e i contadini della zona, quasi giornalmente, intervengono per sgomberare i piccoli gruppi di persone insediati nella campagna circostante, bruciano le loro tende e i loro effetti personali con lo scopo di scoraggiarle e allontanarle dalla zona. Queste azioni hanno il fine di impedire la creazione di insediamenti informali, secondo una logica di dispersione della molteplicità migrante con lo scopo di incrementare la marginalità stessa delle persone all’interno di campi governativi situati lontano dal tessuto cittadino e dagli sguardi dei passanti, a 10/12 km distanza dal centro, nella dimenticata periferia di Sid.

Il fatto di spingere le persone verso i campi governativi è ormai una prassi quotidiana in queste aree di frontiera: in primis vengono messe in atto pratiche intimidatorie nei confronti dei solidali, vessati con continue richieste di identificazione e in seguito vengono direttamente negate e impedite le stesse attività delle associazioni vicino al centro abitato, costringendo così, le persone a spostarsi verso i margini della città. Il fatto di relegare le distribuzioni al di fuori del centro cittadino, lontano dagli sguardi degli abitanti di Sid, contribuisce, con l’avvallo delle politiche promosse dalle autorità locali e nazionali, ad implementare il sentimento di ostilità nei confronti dei migranti ed a rinfocolare espressioni di odio etnico e razziale, retaggio delle guerre che hanno sconvolto questi territori dopo la dissoluzione della Repubblica Jugoslava.

In questa situazione deleteria, in cui ogni riparo viene preso di mira dalla polizia e dai locali, si possono distinguere tre luoghi in cui i migranti vengono spinti forzatamente a recarsi: il campo di Adasevci, il campo di Principovac e un terzo campo che “ospita” esclusivamente famiglie. Il primo si trova lungo l’autostrada, nei pressi di una stazione di servizio e conta più di 1.000 persone; il secondo, Principovac, si trova sul confine con la Croazia e conta più di 500 persone mentre, nel family camp situato vicino alla stazione dei treni, si trovano circa 250 persone tra cui moltissimi bambini.

Questi campi sono stati concepiti per governare una situazione di “emergenzialità strutturale”. Sono luoghi alienanti, paradigmi di un permanente stato di eccezione e d’attesa in cui si tende a categorizzare, selezionare e incanalare le persone in transito. Sono spazi di natura puramente emergenziale, luoghi che scandiscono l’attesa, gli spazi e il tempo, incidendo sulle biografie e sulla libertà di chi vi ci abita. Questi campi rispecchiano degli spazi impersonali, anonimi, pongono le persone in una situazione di inattività totale; il “non far nulla” che porta solo all’esaurimento. Come molte strutture di detenzione per migranti in tutto il mondo, questi campi spersonalizzano gli individui agendo come spazi confinanti e segreganti che riproducono al proprio interno condizioni di vita ridotte alla pura sussistenza.

All’interno di tutti e tre i campi, infatti, le condizioni di vita sono precarie, la situazione igienico-sanitaria sono pessime, le strutture sono sovraffollate, coloro che vi ci abitano non dispongono di un’adeguata assistenza medica (in ogni campo lavora un solo medico per più di 200 persone) e sono forzati a coabitare in centinaia all’interno dello stesso tendone. Di fatti, i due campi principali, non dispongono di container, camere o spazi separati per piccoli gruppi di persone, bensì di grandi capannoni sovraffollati, in cui è impossibile ritagliarsi un proprio spazio personale ed avere una propria intimità. “I don’t like the camp,there is a bad situation. We are forced to live with other 200 people in one tend and we can not go out every time we want. I prefer living here, in the Jungle“, afferma Mukaram, mentre si sistema le scarpe, sporche di fango e forate da qualche buco sulla punta del piede.

Sebbene la Jungle non si possa considerare un luogo sicuro data la precarietà e l’insalubrità del posto, viene preferita rispetto ai campi istituiti dallo Stato. La scelta di rimanere in questa realtà instabile, simbolo di una precarietà assoluta, rappresenta una reazione di protesta di fronte all’imposizione di limitazioni alla libertà personale e alla gestione individuale del tempo e dello spazio. Per molti, il fatto di insediarsi nelle jungles è diventata una “scelta volontaria” (pur dettata dalla mancanza di alternative valide) che rispecchia, da un lato, un rifiuto verso le politiche di marginalizzazione messe in atto dalle istituzioni e, dall’altro, un modo per rivendicare la propria presenza legittima sul territorio.

Tuttavia, la situazione è stata resa ancora più difficile a partire dal 29 febbraio, quando, il presidente serbo Vucic, ha fatto arrivare nella città di confine, un ingente numero di forze speciali di polizia con la scusa di “garantire la sicurezza dei residenti locali” e “ripristinare l’ordine pubblico”. Da quel giorno è cominciata una vera e propria caccia all’uomo. Per le strade di Sid, vengono messe in atto continue retate alla ricerca di migranti da scovare, catturate e portare,a forza, all’interno dei campi.

Il fatto di continuare a deportare i migranti il più lontano possibile dal centro città, non scoraggia tuttavia le persone in transito che tentano in qualsiasi modo di oltrepassare il confine, attraverso quello che loro chiamano “The Game”. Il “gioco” consiste nell’attraversare i confini dei Paesi della rotta balcanica per cercare, in qualunque modo, di raggiungere gli stati dell’Ue.
Nonostante tutto ciò, i tentativi di superare la frontiera avvengono giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. C’è chi prova a varcarla attraverso sentieri di campagna, chi si affida ai trafficanti e chi spera di raggiungere l’Europa provando a viaggiare nascosto dentro i vagoni dei treni merce. Il tragitto è lungo e pericoloso, costituito da sentieri impervi che le persone percorrono di notte cercando di evitare fili spinati, muri, telecamere termiche, droni, manganelli e militari. La difficoltà maggiore è riuscire a superare i controlli della polizia croata e serba e sopravvivere a loro, nel caso si venisse scoperti. “They took our jackets, jumpers, shoes, backpacks and made a fire with it in front of us”; “They make a circle around us. They take us by the collar. we go on the middle. They bit us with the iron rods, the hands and the kicks. Do you know who they hit for the baseball? They hit us until we fall on the knees”.

Le persone che vengono trovate nel tentativo di varcare la frontiera, vengono respinte secondo prassi del tutto illegali, violando il diritto internazionale vigente, secondo cui ogni persona ha il diritto di fare domanda per il riconoscimento dello status di protezione internazionale. Le persone respinte, indifferentemente che siano donne, anziani o bambini sono spesso soggette a violenze inaudite. Vengono bastonate, prese a pugni, picchiate selvaggiamente, denigrate, detenute senza ricevere cibo, acqua e cure adeguate, attaccate dai cani, esposte a qualsiasi sopruso, minacciate con pistole e manganelli. Vengono private dei loro abiti e dei loro effetti personali, i telefoni vengono distrutti e i vestiti bruciati. La frontiera stessa di per sé è violenza e tutto questo avviene nel disinteresse e nell’indifferenza generale: “We were controlled on sight by a soldier and around 10 policemen. They searched us and searched our entire luggage like we were criminals”.

Several times I tried to ask to the police officers if I could go to the toilet and eat some food but their answer was always the same: NO, shut up”, racconta Fehmi, davanti ad una tazza di caffè, mentre ci parla del suo ultimo respingimento subito alla frontiera assieme alla sua bimba di soli 5 anni e alla moglie. Come lui, molte altre persone che abbiamo incontrato raccontano la stessa storia di violenza e disumanità, di crudeltà e cattiveria. Inoltre, in momenti difficili come l’attuale, gli effetti delle disuguaglianze, le contraddizioni dei paesi, diventano ancora più manifesti.

Con la diffusione del virus COVID-19, la già precaria situazione in cui si trovano molte persone in transito sta diventando ancora più grave . Le strade di Sid si stanno piano piano svuotando, i bar e i negozi stanno chiudendo e i cittadini, per paura di contrarre il virus, rimangono nelle proprie abitazioni a differenza delle persone in transito che proprio dalla loro casa sono fuggite. Questa situazione, come in altri paesi, sta diventando sempre più un pretesto per promuovere politiche repressive, di esclusione e detenzione che provocano ancora più malessere e disagio. Per molti migranti non resta che “l’alternativa” dei campi.

A seguito dell’emanazione dello stato di emergenza da parte del presidente Vucic il 15 marzo, i rastrellamenti in città si sono intensificati, la città è stata “ripulita” e le persone sono state tutte internate all’interno dei campi, presidiati dall’esercito e dalla polizia per impedirne l’uscita. E’ chiara la volontà delle istituzioni serbe di rendere queste persone ancora più invisibili e marginali come se il rischio di una epidemia fosse connaturato alla presenza dei migranti stessi. Il presentimento è che questi spazi si trasformeranno presto in luoghi di detenzione in cui l’eventuale diffusione del virus rischierebbe di provocare una strage. Le persone sono oggettivamente impossibilitate a rispettare le norme previste, vivendo in luoghi promiscui che, di per sé, costituiscono assembramenti. In questa realtà, le condizioni igieniche pessime e l’impossibilità di accedere a cure e assistenza medica adeguate mettono a repentaglio la salute dei singoli individui che vi ci abitano e poi anche quella della collettività stessa.

Come fai a lavarti le mani frequentemente se c’è un rubinetto per 600 persone? Come fai a mantenere le distanze di sicurezza se sei costretto a dormire all’interno di uno spazio con altre 1000 persone? Come fai a chiamare un medico, se non c’è un dottore per te?…
Domande retoriche che mettono in luce il fallimento delle politiche migratorie e del sistema della così detta “accoglienza” non solo in Serbia ma anche, come si può ben vedere, in Italia e in altri paesi dove i grandi i centri (ad esempio i CAS e i centri di detenzione e rimpatrio, i CPR) dovrebbero essere chiusi definitivamente per favorire un altro tipo di “accoglienza”, inclusiva e diffusa.

Ecco che, invece, i campi e la linea della frontiera rappresentano altri confini meno tangibili risultando essere, nella loro totalità, uno strumento di discriminazione fra lo straniero e il cittadino nazionale. Spazi che inducono ad immobilizzare i transitanti; luoghi che rispecchiano una vera e propria politica di esclusione e marginalizzazione che viene interiorizzata e normalizzata se non addirittura sostenuta dal cittadino stesso.

Sebbene il vecchio squat sia stato sgomberato e le persone siano state cacciate dalla zona, i flussi e gli arrivi non terminano ma piuttosto variano, cambiano i numeri, le nazionalità, i luoghi di provenienza; i respingimenti, le politiche repressive ed escludenti continuano, come conseguenza della chiusura di quella frontiera che separa, divide e nega a delle persone il diritto di muoversi liberamente, ciò che noi europei, con disinvoltura, facevamo ogni giorno.
Sid, come del resto altre città (Subotica, Velika Kladusa, Bihac’, Trieste, Ventimiglia, Como, Calais…), risulta essere paradigma di quella frontiera che seleziona, separa e discrimina; un luogo di stallo in cui migliaia di migranti in transito sono costretti a vivere nella più totale precarietà ed indifferenza generale .
Tuttavia le persone non si arrendono, non perdono la speranza, ci provano e ci riprovano a valicare quelle frontiere, 4, 5, 10 volte, con la determinazione di riuscire, un giorno, a perseguire e realizzare i propri desideri e le proprie volontà.

#Lesvoscalling

Una campagna solidale per la libertà di movimento
Dopo il viaggio conoscitivo a ottobre 2019 a Lesvos e sulla Balkan route, per documentare e raccontare la drammatica situazione sull'isola hotspot greca e conoscere attivisti/e e volontari/e che si adoperano a sostegno delle persone migranti, è iniziata una campagna solidale lungo la rotta balcanica e le "isole confino" del mar Egeo.
Questa pagina raccoglie tutti gli articoli e il testo di promozione della campagna.
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