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Da Idomeni, un ricordo da raccontare

di Luca Fiscon, collaboratore dell'Associazione Hopeful Giving e del progetto One Bridge To Idomeni

Padova, 2 maggio 2016

Da dove cominciare per descrivere una tale esperienza? Meglio dal principio.
Sono in Castagna e sto parlando con Stippi. Mi comunica che si sta organizzando per andare a Idomeni, nel campo profughi stanziato lì, e mi propone di andare con lui. È uno semi sconosciuto eppure in lui intuisco qualcosa, penso fin da subito che è una persona di cui mi potrei fidare e con cui viaggiare potrebbe rivelarsi una bella esperienza. Alla ricerca di un finanziamento e un consiglio ne parlo con i miei genitori. Si rivelano entusiasti dell’idea. Non c’è più alcun ostacolo alla partenza.

Mi ritrovo così a raccogliere fondi e materiale da portare a gente sconosciuta in una parte del mondo non nota. Pazzia? Semplicemente era ciò che era giusto fare per essere coerente con la scelta di partire. Ho ricevuto una risposta immediata e positiva da parte di amici e parenti il che mi ha riempito il cuore di gioia e restituito un po’ di fiducia nel prossimo. Sapevo di conoscere delle belle persone ma riceverne la prova concreta mi ha reso fiero. Mi sono sentito investito da una responsabilità. Vedere, vivere, osservare, capire per poter una volta tornati raccontare. Non so per quale ragione le singole persone abbiano deciso di portare un aiuto a quella gente ma sono contento che l’abbiano fatto.

Arriva il giorno della partenza. Un furgone si presenta a casa mia stipato di materiale e carico di persone sconosciute: Stefano, Manuel, Sara e Thomas. Manuel ha deciso di partire nonostante avesse una febbre a 38.5, mi è stato subito simpatico. Thomas esprime a pelle serenità e calore. Sara è schietta e carina. Stefano ha un cappello di paglia che viene dal Messico. Caricato il furgone saluto i miei e mi metto alla guida.

Ecco una nuova prima volta, non avevo mai preso in mano un furgone prima di quel momento e certo non ne avevo mai guidato uno per oltre 4 ore in autostrada.
Il viaggio è lungo: Padova, Trieste, Lubljana, Zagabria, Belgrado, Skopje e infine la Grecia. Siamo arrivati a Idomeni dopo circa 15 ore di viaggio. È stata lunga. In alcuni punti l’E75 è davvero fatiscente e generalmente mal segnalata.

Arriviamo al Park Hotel di Policastro, dove ci era stato segnalato si trovavano i volontari per organizzarsi sul da farsi. Ci mandano in Wearshouse, un capannone stra colmo di aiuti. Cataloghiamo il carico e scarichiamo il furgone. Torniamo al park hotel per scaricare Sara, lei passerà la notte lì; non se la sente di dormire all’interno del campo.
Ci salutiamo dopo una birretta gelida, l’avremo rivista il giorno dopo. Noi 4 ragazzi andiamo verso il campo di Idomeni. Ci rendiamo conto fin da subito di trovarci in una zona in cui la tensione è alle stelle: posti di blocco in ogni punto d’accesso al campo. Superati senza difficoltà finalmente parcheggiamo: siamo arrivati. È il primo pomeriggio del 26 Aprile.
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Il campo è un brulicare di donne, uomini, bambini, giovani e anziani. 12000 persone che vivono dentro a tende diventate case di fortuna. Notiamo subito le strutture di MsF e Unhcr, sono dei tendoni imponenti che ospitano almeno un centinaio di persone ciascuno. Ci incamminiamo verso l’Info Tent di #OverTheFortress, abbiamo appuntamento col nostro contatto sul posto. Tommaso è un ragazzo non alto con i rasta raccolti che è nel campo da due mesi. Una potenza di uomo. Ci mettiamo a sua disposizione. Montiamo vicino alla sua tenda il nostro campo base.
La notte passa piano piano: il freddo, l’umidità, e il vento mi impediscono un sonno davvero riposante nonostante la stanchezza accumulata nel lungo viaggio.

Sveglia e si inizia la vita di campo. Tommaso ci dice che ci sarebbe bisogno di costruire delle docce da distribuire in diversi punti del campo per permettere alle persone di lavarsi in uno spazio dignitoso e non all’aperto con una canna. L’idea ci entusiasma, compriamo il materiale e iniziamo a costruire. Ci rendiamo subito conto che non lavoreremo soli: gli uomini del campo hanno bisogno di essere coinvolti e di sentirsi utili; di fare qualcosa insomma per contrastare la noia e l’apatia in cui le condizioni di vita li costringono. Si rivelano generalmente molto più periti di noi, per fortuna.
Sono persone che nei loro paesi d’origine lavoravano e conducevano una vita normale. Avevano una casa in cui rientrare dopo una stancante giornata passata a creare un futuro per sé e la propria famiglia. Non mancava loro nulla di essenziale. Stavano bene e ora sono qui. Il minimo che si possa fare è lavorare con loro.

Il campo è molto esteso e le persone si sono accomodate alla bene meglio in zone diverse, per nazionalità di appartenenza. Si scontano anche in questo contesto le differenze che rendono così ricco e variegato il mondo mediorientale. Sono curdi, arabi, siriani, iraqueni, iraniani, afgani. Bisogna tenerne conto quando si pensano degli interventi. Le stesse docce vanno posizionate in punti precisi del campo per evitare contrasti tra le popolazioni accomunate dalla situazione contingente ma diverse. Il senso di appartenenza è molto forte e non può essere eluso. Va rispettata la loro sensibilità perché a loro gli interventi si rivolgono. Tommaso ci aiuta fin da subito a renderci conto di ciò.

Passo il tempo lavorando come un mulo. Incontro difficoltà ad approcciarmi ai rifugiati. Ho paura di non reggere alle loro storie. Ho paura di perdere lucidità e di risultare così meno utile alla causa. Penso che ascoltare sofferenze immani senza la lucidità per farsele scivolare addosso sia per me dannoso. Riconosco tuttavia l’importanza di fare questo sforzo e ammiro chi lo fa: le persone hanno bisogno di sfogarsi con qualcuno quando capita loro qualcosa di brutto e chiedono di essere ascoltati. Mi impongo di non provare colpa. Non ho bombardato io le loro case, non li ho imbarcati io in mezzi fatiscenti, non ho distrutto io la vita di intere famiglie. Ciò che posso fare di concreto per loro è dar loro un po’ di dignità.

È impossibile evitare il contatto umano. Le persone lo cercano, sono ospitali oltre ogni ragionevolezza, sperano che chiunque possa andare e venire dal campo quando e come vuole possa fare qualcosa per aiutarli ad uscire da questa situazione.
quando è che l’Europa apre i confini?” “perché ci sparano addosso?” “perché non vogliono farci entrare? Sappiamo lavorare, abbiamo studiato
nessuno di loro vuol venire nel nostro territorio per vivere da parassiti della società. Chiedono la possibilità di condurre un’esistenza dignitosa. Sono spaesati di fronte alla risposta di un’Europa a cui guardavano con una sicura speranza. Mai avrebbero potuto immaginare che l’EU premio nobel per la pace potesse dare loro una risposta così aggressiva. Sono spiazzati dalla paura che gli europei dimostrano di avere di loro. Non capiscono per quale ragione la stessa Europa che insieme a Russia e USA sta bombardando le loro case si rifiuti di accoglierli una volta che fortunosamente e a prezzo di enormi sacrifici sono riusciti a scappare. A lasciare la loro terra natia. Ad abbandonare la speranza in un futuro per cercarne uno diverso da un’altra parte.
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Conoscono e non riescono a spiegarsi l’accordo con la Turchia “perché quei soldi non possono essere usati per accoglierci?
Di fronte a tutto ciò cosa posso rispondere se non “mi dispiace ragazzi ma voi rimanete a Idomeni. L’Europa i confini non li aprirà, almeno non a breve. Non vi vogliamo perché abbiamo paura che possiate essere tutti terroristi e che ci fate saltare il culo per aria” eppure la risposta è questa. Che vergogna che ho provato.

Vergogna di vedere di fronte a me la realizzazione concreta di tutto ciò in cui l’Europa dice di non credere, in cui io non credo. Vedere i confini sbarrati da filo spinato e i carriarmati. Vedere le vedette che con sguardo teso osservano il brulichio di uomini che si estende di fronte a loro. I fumogeni sulle tende, 200 bimbi intossicati, pallottole di gomma sparate ad altezza cuore a distanza ravvicinata contro tutti indiscriminatamente.

Non è questo ciò in cui io credo. Non è questo ciò che avrei voluto vedere. Piango nel ricordare. E costruire docce era un modo efficace per dimostrare che io non sono così, che io me li rivorrei caricare tutti sul furgone e portarli con me, che vorrei che fossero rimasti nelle loro case a condurre le loro vite ma non posso eludere che questa umanità sofferente abbia incrociato la mia vita e abbia bisogno di aiuto. Permettere a delle persone di lavarsi al riparo da occhi indiscreti restituisce loro un po’ di dignità. Sul posto non si può fare altro che questo. Lavorare per non permettere che perdano fiducia nei valori su cui l’Europa è stata costruita e che alla prova dei fatti si stanno rivelando così fragili e difficili da realizzare. Per dare loro la speranza che un’alternativa esiste.
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In questo contesto mantenersi lucidi è difficile ma fondamentale. Prestare attenzione alle piccole cose diventa una necessità come lo è sfogarsi tra volontari.
Ho conosciuto persone splendide accomunate dal fatto di perseguire con coerenza ciò che li fa stare bene. Da questo nascono storie di vita che valgono la pena di essere ascoltate. Il fatto di trovarsi tutti in quella situazione di estrema difficoltà aiuta ad abbattere le barriere. C’era fiducia. Potevo e mi sentivo di essere vero, di non mentire, di non nascondere i miei difetti. Ciò mi ha permesso di conoscere davvero le persone e di avere la fortuna di ascoltare le loro storie. Di incontrare anche negli altri difficoltà e gioie, di rendermi conto che perseguire ciò in cui si crede è difficile ma necessario perché inevitabile per essere felici, per stare bene con se stessi. Ho conosciuto persone con cui avrei voluto fare l’amore, uomini e donne, per entrare ancora più compiutamente in contatto con loro.

Sintonia, sentimenti veri, storie reali. Questo ho portato a casa da Idomeni e questo ho cercato di restituire di me alle persone. Porto nel cuore Alessandra, Sherif, Tommaso, Sara, Thomas, Stefano, Manuel, Riccardo, Antonio e le altre persone che ho incontrato e di cui mi rammarico di non ricordare il nome.
Ho sofferto e amato sul serio perché non poteva essere altrimenti. Ringrazio voi tutti di cuore per esserci stati, per avere scelto di tornare a raccontare o per essere rimasti per continuare ad aiutare.
Sono stati giorni di lavoro duro, di conversazioni vere e di bevute fraterne. Vi voglio bene, a tutti e a ciascuno di voi.

Ora è il momento della testimonianza, di raccontare per non dimenticare e per portare il rispetto dovuto alle migliaia di persone che scappano da terre natie incapaci di garantire loro sicurezza pace e prosperità.

Amo la vita e so ciò che è giusto fare. Auguro a me stesso non di non provare più fatica ma di tenere presente me stesso; scegliere ciò che mi fa stare bene e perseguirlo con forza.

Questa esperienza mi ha insegnato ad avere rispetto per me e per gli altri. Mi ha fatto capire che mi piacciono le persone vere, quelle che raccontano la propria storia perché non se ne vergognano ma semplicemente perché è ciò che sono. Nascondere se stessi è una fatica improba che mi ha tolto un sacco di forza. Voglio non farlo più.

Ci sarebbe da raccontare di giri a cavallo, di discussioni sulla natura più o meno malvagia degli zingari avuta con un gestore di un bar, di notti stellate e di confini spinati ma quello rimane nel mio cuore e in quello delle persone con cui ho condiviso quei momenti. Li ho amati, tutti.
Ci sarebbe da descrivere la bontà di certi falafel, il disagio di cagare per una settimana in piedi dentro cessi chimici fatiscenti, di pulirsi con le salviette igienizzanti.
Bisognerebbe raccontare la quotidianità del campo ma lo farò a voce con le persone che saranno interessate ad ascoltarmi.

In quel disagio ho scoperto di essere anche io una persona che ha una storia da raccontare e che non farlo è incoerente con ciò che vorrei che le altre persone facessero con me.

È stata tosta ma grazie. Grazie mamma e papà per aver creduto che potessi farcela e per avermi lasciato partire e finanziato. Grazie alle persone che hanno condiviso se stesse con me. Grazie agli scout del Merano1 che ci hanno prestato il furgone. Grazie a chi ha contribuito.
Senza di voi tutto questo non sarebbe stato possibile.
Thank you my friend

Luca Fiscon