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Da Lampedusa a Ventimiglia – Metamorfosi del confinamento europeo

di Nicola Grigion, Progetto Melting Pot Europa

Che fossero in corso grandi mutamenti intorno a noi non è certo cosa nuova.
C’è molto di più del collasso delle stock options statunitensi in questa crisi. Il conflitto libico, le rivolte del Maghreb e del Maschreq, il terremoto nucleare giapponese, hanno il sapore di una nuova epoca.

Noi ne siamo inevitabilmente nel mezzo. Nell’epicentro della scossa che fa tremare equilibri globali e quartieri periferici. Lo spazio Euromediterraneo è oggi, non sappiamo se anche domani ma sicuramente ora, il nervo infiammato della trasformazione in corso.

Anche i bombardamenti, quelli degli aerei francesi e britannici sull’altra sponda del Mediterraneo sono molto più vicini. Non solo geograficamente. Da noi la guerra, con le rivolte e la trasformazione, diventa immediatamente confine. Si chiama con il nome di un’isola, Lampedusa, diventata per 60 giorni un’ enclave in mezzo al mare, e con quello dei suoi tanti clusters.

Quell’isola congestionata, utilizzata materialmente come spazio di confinamento e simbolicamente come spettacolarizzazione dell’invasione, è diventata anche il palcoscenico della macchiana del consenso berlusconiano.
Non poteva essere altrimenti.
L’operazione non è riuscita alla perfezione, ma se ne facessimo una questione tecnico organizzativa sulla gestione dell’emergenza, sulle modalità di svuotamento dell’isola, sulle capacità del Governo di far fronte all’accoglienza, non c’è dubbio, la sfida l’avremmo già persa. C’è chi è molto più bravo di noi a raccontare una realtà che non esiste. A regalare sogni, zone franche, premi Nobel e detassazione, per recuperare consenso e rimettersi in equilibrio dopo averlo perso per un istante.

Chissà come andrà a finire. Le operazioni di svuotamento di Lampedusa vanno a rilento a causa del mare mosso, ma non saranno certo le onde a fermare l’operazione di immagine del Governo. Se occorre, lo abbiamo sempre saputo, l’isola può essere svuotata in pochi attimi. Il vero nodo è un altro.

Intorno a noi è in corso una metamorfosi di cui è impossibile decifrare i contorni. Non me ne vogliano gli amici ed i compagni che hanno speso anni a disegnare la geografia variabile dell’Europa, non è certo stato poco importante il loro lavoro, ma lo stravolgimento a cui stiamo assistento può essere decodificato solo se contemporaneamente è agito.
E’ saltato ogni riferimento. Nel bene e nel male è saltata ogni garanzia del diritto d’asilo, degli obblighi umanitari, della solidarietà europea, ma insieme è saltato anche il sistema di controllo e detenzione che ha caratterizzato questo decennio di politiche di governo dell’immigrazione.

I profughi che fino a qualche mese fa l’Italia respingeva, proprio grazie agli accordi con Gheddafi, sono diventati buoni per fare ogni cosa sulla pelle dei giovani tunisini arrivati a Lampedusa. Buoni per annunciare rimpatri collettivi, buoni per annullare la miriade di storie soggettive che avrebbero ancora diritto di essere ascoltate, a meno che anche l’Italia, come la Libia di sempre, non abbia rinnegato la Convenzione di Ginevra nelle ultime ore. Di contro, chi vuole cucire addosso a quei ragazzi l’abito del profugo che fugge dalla guerra, rimarrà stupito ascoltando la semplicità delle paure e dei desideri che li hanno spinti a partire, rischiando di non capirci proprio nulla.
La sfida che propongono al confine europeo ed a quello interno alla stessa Europa, parla efficacemente di cosa significa precarietà nello spazio euromediterraneo. E’ un’altra faccia, probabilmente la più fuggevole, di quella spinta per la democrazia e la libertà che ha cacciato Ben Alì e che oggi, rimanendo in Tunisia, tenta di riorganizzarsi perché la rivolta non sia un’occasione per riaffermare nuovi poteri autoritari.
Non faremo insomma la rivoluzione in Europa (chissà!) con i tunisini sbarcati sulle nostre coste, con buona pace di chi consegna loro una fantomatica “centralità di classe” per sottrarsi al protagonismo che ognuno di noi può avere in questo momento.
Nulla è scontato. La sfida che passa per il confine Sud potrebbe anche tradursi in una occasione per riaffermare il Bossi pensiero, con ancor più terreno su cui far presa. Oppure, ma dipende da noi, può essere l’occasione per affermare nello stesso spazio investito da queste trasformazioni, quello euromediterraneo, la possibilità di scelta, una nuova dimensione della cittadinanza. Dobbiamo avere il coraggio di starci.

Come in un giro di domino imprevedibile, con le tessere che continuamente saltano fuori dal circuito disegnato, di giorno in giorno, navigando a vista, il Governo dispensa piani e annuncia soluzioni. Prima Lampedusa, poi lo svuotamento dei CARA, poi Mineo, poi il piano di accolgienza per i profughi, poi invece Manduria, Trapani, Caltanissetta, Caserta, Pisa, oggi forse Torino, Padova, Brescia, Vipiteno. Il risultato, è un impensabile (fino a pochi mesi fa) stravolgimento quotidiano della dimensione “ordinaria” del confinamento. La detenzione, la carcerazione, sono un modo di far politica, una vocazione, ma non sempre la realtà ne è conseguente. Anzi. Da Manduria si fugge eccome. Il Ministero ha pure organizzato un ufficio all’interno della tendopoli dove (cosa che non avviene neppure quando sarebbe doveroso) vengono invitati i migranti a proporre domanda d’asilo. In questo modo possono essere lasciati “liberi” di uscire dal centro e di prendere quel treno che li accompagnerà verso Ventimiglia e ovviamente, di incappare in un nuovo controllo, di essere accusati del reato di clandestinità, di sbattere conto il muro della Francia.
I CIE, il trattenimento, hanno sempre nascosto la variabile della “semi-libertà”. Neppure negli anni indietro i CIE sono stati spazi di detenzione statica, la detenzione è sempre stato un momento non definitivo dei percorsi migratori, così come i confini dell’Europa Fortezza hanno sempre nascosto la loro natura mobile e permeabile. I muscoli mostrati si sono spesso rivelati un simbolo più che una realtà. Le espulsioni annunciate sono rimaste parole scritte nelle veline del Viminale (e non ci dispiace) impegnato invece a dare olio alla catena di montaggio della fabbrica di clandestinità che è il sistema di governo delle migrazioni di casa nostra e dell’Europa intera. Non senza violenza, non senza morte, disperazione e sofferenza. Ma proprio la sua natura, la macchina della cittadinanza gerarchica costruita intorno al tema della detenzione e del controllo, è entrata in profonda crisi, perché portata a pieni giri, spinta fino al dover negare gli stessi istituti principali della legge che regola i tempi e gli spazi dei suoi ingranaggi.
Ventimila persone sbarcate sono state prima trattenute nell’isola prigione per riaffermare che la detenzione e l’espulsione sono l’unico modo di gestire la vulnerabilità del confine, poi “liberate” ad un destino di irregolarità e ricatti. Spinte verso la confinante Francia che a sua volta risponde all’Italia con lo stesso linguaggio con cui dai porti dell’Adriatico la Polizia di casa nostra respinge i migranti verso la Grecia. Nel mezzo, paure ed allarmi per l’invasione, per il pericolo criminale nelle nostre città che nessuno in realtà ricerca come meta.

Diciamocelo. Sarebbe molto più facile (non più reale), raccontare una grande carcerazione di massa nelle “galere etniche”. Ma la realtà è ben diversa.
Davanti agli occhi abbiamo una mappa di tendopoli/CIE da cui centinaia di migranti fuggono senza particolari problemi. A Manduria, oltre all’ufficio per le domande d’asilo, la Polizia ha costruito un cordone intorno al centro per allontanare l’occhio indiscreto delle telecamere che per giorni hanno documentato le continue fughe, più che per fermare le evasioni. A Ventimiglia, dall’altra parte di questo spazio di transito che sembra essere diventato l’Italia, dal centro di emergenza che raccoglie i migranti in attesa, vengono organizzati i bus navetta fino all’ora dell’ultimo treno che parte per la Francia.

Tutto lo stivale assomiglia ad un grande spazio di confinamento, la porta di accesso all’Europa, il luogo in cui l’Europa imprime il suo indelebile marchio sulle biografie dei migranti che attraversdano il suo mare, ed insieme la gabbia in cui sono costretti, nell’attesa di poter andare, nel dubbio di dover restare.
Dobbiamo starci. Percorrere questa mappa del confinamento insieme a loro, perché anche questa è la precarietà in cui viviamo, noi come loro. Il rischio, che Maroni trasforma in allarme, è che questo lembo di terra di 1.300 Km che si allarga nel Mar Mediterraneo si trasformi a sua volta in una grande enclave. In cui è difficile arrivare ma da cui è altrettanto difficile uscire.

E’ il nostro modo di rispondere ai bombardamenti in Libia e di raccolgiere la sfida lanciata dalle migliaia di giovani in rivolta sull’altra sponda del mediterraneo.
ma anche il modo di evitare, per noi e per loro, che in questo pezzo di mondo in cui viviamo, la crisi del Maghreb serva per restringere invece che allargare i diritti di tutti noi, per spaventare ancora le nostre città ed imbruttire le periferie.
Da Lampedusa a Ventimiglia, passando per Manduria, Trapani, Santa Maria Capua Vetere, Coltano, e se sarà necessario Padova, Brescia, Torino, Vipiteno, la mappa disegnata dal Viminale si sta costellando anche di altri punti, in movimento, contro il confinamento e per il diritto di scelta. Uniamoli. Per continuare la campagna iniziata con la staffetta di Welcome a Lampedusa, per ridisegnare dal basso le geometrie della libertà, per tutti.
Fin da sabato 2 aprile. Giornata di mobilitazione nazionale contro i bombardamenti e per la libertà dei migranti. A Lampedusa, a Manduria, a Pisa, a Roma, a Bologna, a Gradisca d’Isonzo, a Vicenza, ad Ancona, a Rimini, a Trento, a Ventimiglia: Stop ai bombardamenti. Libertà per i migranti in Europa