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Da Sebha a Tripoli, i migranti venduti come merci

Mathieu Galtier, Libèration - 30 novembre 2017

Questa volta Pascal è arrivato abbastanza presto per guadagnarsi un posto all’ombra sotto il pannello pubblicitario di 4 x 3 metri alla rotonda centrale di Sebha, una grande città nel sud della Libia.

È così che comincia l’“adescamento”: con un rullo da imbianchino ed una maglietta del Manchester United con delle macchie di pittura, il guineano di 25 anni tenta di essere convincente agli occhi dei guidatori di pick-up che sono alla ricerca di lavoratori giornalieri. Quando un veicolo si ferma e il finestrino del conducente si abbassa, una ventina di migranti si accalcano. Pur di essere scelti non esitano a ribassare il “proprio” prezzo. Pascal questa volta non viene scelto e può sentirsi sollevato: “I libici ci picchiano come fossimo schiavi per farci lavorare più velocemente. Alla fine della giornata, alcuni ci fanno pagare il viaggio di ritorno, altri nemmeno ci pagano la giornata di lavoro.”

Circa 820 km più a nord, nella città di Zouara, in prossimità del confine con la Tunisia, Mohamed, nigeriano, è infermo, costretto a letto. Colpito al bacino dai colpi del bombardamento ad un capannone in cui caricava e scaricava dei sacchi di zucchero da 50 chili, ha il coraggio- si potrebbe pensare a causa della presenza dei giornalisti – di porre una domanda: “Chi pagherà le cure?” Mentre gli abitanti sono ancora sotto shock per l’attacco aereo, la sua richiesta lascia il medico libico senza parole: come si permette un migrante di fare una domanda del genere?

Campo di detenzione per migranti di Zaouïa, a 50 km a ovest da Tripoli: in questo stabilimento bianco, lontano da qualsiasi abitazione, dove le porte sono delle pesanti lastre di metallo e le finestre hanno le grate, i detenuti lamentano della scarsità di cibo e dell’alimentazione priva di frutta e verdura. Denunciano le sevizie dei guardiani, i colpi sulle piante dei piedi, gli schiaffi, gli insulti razzisti: “Torna al tuo paese dell’Ebola”. Boubaker Dogo, che viene dal Gambia, non si capacita della perversità del funzionamento del campo: “Vi rendete conto che siamo stati noi stessi a costruirci i bagni?

Questi tre casi, in cui le vittime sono ridotte a forza di lavoro gestita da “padroni”, si avvicinano alla schiavitù (leggere pagina 24), come definita dalla Convenzione di Ginevra del 1926. I racconti risalgono, rispettivamente, ad Agosto 2013, Dicembre 2014 e Febbraio 2015.

Contrariamente a quanto farebbero pensare le reazioni indignate della comunità internazionale (leggere pagina 6), questa pratica era già conosciuta in Libia prima della messa in onda del reportage prodotto dalla CNN lo scorso 14 Novembre, che rivela ciò che il canale americano definisce un’“asta di schiavi”.

Traffico

La pratica più ricorrente riguarda il “riscatto” di persone tra traghettatori, anche conosciuti come passeurs. “Di recente ho incontrato un giovane che doveva trasportare dei migranti provenienti dalla regione di Sebha fino a Beni Ulid [720 km più al nord] ma loro non avevano abbastanza soldi per pagare il viaggio. L’autista allora mi ha detto che la sua unica possibilità era di ottenere che le loro famiglie inviassero del denaro o di rivenderli ad altri passeurs. Nel frattempo, li picchiava per impedire che fuggissero”, racconta Aboazom al-Lafi, un militante di Sebha che si batte per un maggior riconoscimento di Fezzan, la regione nel sud del paese.

Smorzando il commento della giornalista della CNN afferma “Non conosco nessuno che sia in “possesso” di un migrante. A volte succede che i libanesi assumano lavoratori per più settimane ma senza comprarli. Allo stesso modo, molto spesso, quei migranti sono trattati molto male”, precisa nel ricordare che è estremamente facile ottenere manodopera a buon mercato ad ogni rotonda della città.

E’ per questo motivo che Aboazom al-Lafi pensa che le immagini diffuse dalla CNN mostrino di fatto una transazione tra passeurs e le cifre stabilite sembrerebbero confermarlo. Secondo la giornalista della CNN, un uomo viene venduto per 1200 dinari (circa 125 euro sul mercato nero). La somma della transazione farebbe pensare più ad uno scambio tra passeurs professionisti piuttosto che ad una vendita “definitiva” tra privati.

In un rapporto pubblicato a Marzo, l’ONG The Global Initiative, impegnata nella lotta contro la criminalità organizzata, stima che le reti specializzate nel reclutamento di migranti domandino alle rispettive famiglie tra i 2.500 ed i 4.200 euro per la loro liberazione.

A Settembre, Bob, un nigeriano di 22 anni, spiegava a Libération come era stato rapito sulla strada tra Sebha e Tripoli: “Eravamo in tredici migranti dentro il veicolo. Dei pick-up sono arrivati. Hanno ucciso il conducente che era il nostro passeur e sei dei passeggeri. Hanno preso tutti i nostri soldi e ci hanno trascinato dentro una grande abitazione. Mi hanno chiesto 1500 dollari [circa 1200 euro] per liberarmi.” Una somma che ha potuto racimolare facendo appello al suo “intermediario”. Un uomo pivot nel traffico dei migranti. Generalmente della stessa nazionalità del migrante, l’intermediario fa da tramite con la famiglia per il trasferimento del denaro che spesso transita per i mercanti di spezie di origini sub-sahariane, che si sono stabiliti ormai da anni nella medina di Tripoli.

«Brigate»

I paesi europei si aggiudicano una parte di responsabilità in questo mercato della vergogna. L’Italia, in particolare, è accusata di aver concluso degli accordi con le reti di passeurs per stroncare le partenze dei migranti dalla Libia. L’Unione Europea, nel finanziare le formazioni delle guardie costiere – spesso in combutta con i passeurs – e i centri di detenzione per migranti, alimenta suo malgrado questo traffico.

L’indignazione non è sufficiente, bisogna agire. L’UE deve smettere di privilegiare le soluzioni che mantengono i migranti in Libia. Bisogna che l’Europa sottoponga il suo sostegno al governo dell’unione nazionale [GNA] al vaglio del rispetto dei diritti dell’uomo, processo che deve cominciare con la sospensione della detenzione dei migranti”, esige Mehdi ben Youssef, dell’ONG Amnesty International.

Ad ogni riunione, insistiamo sulla questione umanitaria dei migranti. Fayez al-Sarraj [Primo Ministro del GNA] è cosciente del problema. Ma, sul terreno, sono le brigate che decidono”, ammette il diplomatico europeo. Abbiamo un’idea chiara di come si presenta il nuovo centro di detenzione per migranti di Tajoura, ad est di Tripoli, che ha aperto questo autunno. Nonostante, come facevano nei vecchi campi, i migranti dormano su dei semplici materassi appoggiati sul pavimento di grandi stanze vuote, come nei vecchi campi, viene considerato un campo modello, con tanto di climatizzazione e palestra. Ma il centro, che può accogliere fino a 1000 ospiti, rimane gestito dalla potente brigata di Haythem Tajouri, che, sebbene sia ufficialmente fedele al governo di Fayez al-Sarraj, non è tuttavia sottomessa ad alcun controllo.

Le cancellerie dei paesi d’origine dei migranti, con la notevole eccezione della Nigeria, non hanno mai cercato di localizzare i propri cittadini arrivati in Libia. Ma in seguito al report diffuso dalla CNN, i governi africani, sotto la pressione delle loro popolazioni scandalizzate, si dimostrano finalmente proattivi nell’accelerare il rimpatrio dei migranti più vulnerabili.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sottolinea l’accelerazione dei ritorni volontari, da 2775 nel 2016 a più di 11000 nel 2017. Sebbene la Libia non sia firmataria della convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, ha tuttavia concluso degli accordi con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) per proteggere siriani, iracheni, palestinesi, eritrei, sud-sudanesi, etiopi e somali. Ma è solamente l’11 Novembre che, per la prima volta, l’UNHCR ha potuto prelevare 25 migranti originari di questi paesi e giudicarli “vulnerabili”, nel loro tragitto verso la Nigeria. Il governo francese ha dichiarato che poteva accoglierli. Il numero di migranti in Libia è stimato tra gli 800000 e il milione.

Mathieu Galtier