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Da un campo di calcio libico ad un carcere italiano. Libertà per i quattro calciatori ingiustamente accusati di essere scafisti

Il loro destino si deciderà il 2 luglio presso la Corte di Cassazione a Roma

Con una campagna social iniziata questa mattina, Borderline Europe vuole portare l’attenzione sul caso di quattro giovani calciatori libici condannati a 30 anni e già in carcere da 5 a Caltagirone in Sicilia. Joma, Ali, Abdelrahman e Muhannad, proprio come centinaia di altre persone incarcerate in Italia e Grecia, sono accusati di essere “scafisti” e di “favorire l’immigrazione clandestina“. Mentre gli Europei di calcio sono in pieno svolgimento, il loro destino si deciderà invece presso la Corte di Cassazione a Roma il prossimo venerdì 2 luglio.

#FreeTheFootballers #LiberateICalciatori

Joma, Ali, Abdelrahman e Mohannad hanno giocato per l’Ahli Bengazi, l’Al-Madina Club e il Libyan Tahadi Club. Dopo lo scoppio della guerra civile in Libia, nel 2015 hanno attraversato il Mediterraneo su una barca di legno che trasportava più di 360 persone, Ali allora aveva solo 20 anni. Durante il viaggio, 49 persone che erano state costrette a prendere posto nello scafo della barca di legno sono morte asfissiate. Il naufragio ha preso il nome di “naufragio di Ferragosto”, poiché avvenuto esattamente in quel giorno di festa.

Sono stati arrestati come gli “scafisti“, accusati di “favorire l’immigrazione clandestina” con l’aggravante di aver causato la morte di 49 persone e condannati a 30 anni di carcere.

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Quando le famiglie in Libia hanno saputo del loro arresto hanno iniziato, insieme agli amici e alle squadre di calcio, a creare campagne per sostenere la loro innocenza e chiederne il rilascio. In questo modo, sono riusciti ad ottenere un po’ di attenzione e alla fine i quattro sono anche entrati a far parte di un gioco diplomatico tra l’Italia e il libico Haftar, che ha chiesto la loro liberazione come parte di uno scambio di prigionieri. Questa possibilità si è poi arenata e i quattro sono rimasti in carcere.

Sebbene le possibilità di un esito positivo non siano molto alte, Borderline Europe ha deciso di divulgare questa caso di malagiustizia, prima di tutto perché è un desiderio esplicito degli accusati ma anche per attirare più attenzione sulla questione. Nelle loro lettere dalla prigione, “Mostrate alle persone che ci amano che siamo innocenti!” e “Ho perso tutto“, chiedono di condividere la loro storia e di far luce sull’ingiustizia che stanno subendo.

Vi autorizzo a parlare e scrivere dei nostri casi, e se è possibile farci portavoce e diffondere la verità, cercando di difenderci dalle tante male lingue poiché non abbiamo la possibilità di proteggerci e di dimostrare al mondo intero e alle persone che conosciamo e che ci amano che siamo innocenti”, scrive Ali.
La giustizia italiana mi ha sfinito. Ho perso tutto, ho perso la mia ambizione e ho perso il mio futuro. Ho perso la mia ragazza. (…) Non voglio perdere me stesso in prigione. Ingiustizia, siamo vittime di un errore giudiziario“, scrive Muhannad.

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In questi anni alcune inchieste giornalistiche1 hanno posto molte perplessità sull’impianto giudiziario e sui metodi d’indagine. Come spiega in dettaglio il giornalista Lorenzo D’Agostino nell’articolo “Cosa non torna nelle condanne per la “strage di Ferragosto” pubblicato su IrpiMedia, nelle carte processuali si trovano allusioni e testimonianze contraddittori, tanto che «queste sentenze, e le indagini su cui si basano, appaiono viziate da una pregiudiziale: che i responsabili della strage fossero da trovare, a tutti i costi, tra gli stessi passeggeri dell’imbarcazione».

«Sulla base di questa premessa mai dimostrata – scrive D’Agostino, autore con Zach Campbell di un’altra importante inchiesta: La strategia segreta contro le ong che salvano i migranti – è stato svolto un processo imbastito a base di deduzioni arbitrarie, verbali di polizia contraffatti, interrogatori suggestivi a testimoni in stato di trauma. (…) Casi in cui la macchina giudiziaria sembra rispondere a un’esigenza politica: individuare un capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità per le stragi del mare. Con metodi ideati nelle procure dotate di Direzioni distrettuali antimafia – in Sicilia, la regione più esposta agli sbarchi, le Dda di Catania e Palermo – sotto il coordinamento della Direzione Nazionale Antimafia».

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Gli avvocati, precisa poi Borderline Europe, ritengono che il fatto che parlino arabo e provengano dalla Libia, e che Ali avrebbe passato l’acqua ad alcune persone poi morte durante la traversata, ha fatto supporre ad altri passeggeri e alla polizia italiana che i quattro calciatori facessero parte di coloro che organizzavano il viaggio.
L’avv. Cinzia Pecoraro illustra la situazione in cui si sono svolti i fatti: “Vi immaginate una barca di 12 metri, con quasi 400 persone a bordo, con un equipaggio? I passeggeri sono schiacciati l’uno contro l’altro e solo uno è alla guida della barca. Tutti cercano di sopravvivere, ma questo non significa che siano responsabili della morte crudele degli altri passeggeri. Non avevano armi e nessuna conoscenza della navigazione, erano solo passeggeri. Il mio cliente è stato identificato come una persona che distribuiva acqua sulla barca, quindi questo lo ha reso parte dell’equipaggio, e ora sta scontando 30 anni per aver distribuito dell’acqua“.

«Come Joma, Ali, Abdelrahman e Mohannad, le persone considerate come gli “scafisti criminali”, sono per lo più migranti che si sono pagati da soli il viaggio in mare, cercando di mettersi in salvo nell’Unione Europea. I veri trafficanti restano in Libia. Loro sono vittime delle spietate politiche dell’UE contro gli scafisti che non solo violano i diritti umani fondamentali, ma sono anche inefficaci nel distruggere le reti di trafficanti e nel fermare la migrazione verso l’Europa, considerato l’obiettivo principale. Come dimostrano i documenti ufficiali recentemente rivelati, le autorità italiane lo sanno fin troppo bene. Tuttavia, è la vittoria interna che conta. In questo modo, le autorità presentano le persone in fuga da povertà e violenza, con risorse limitate per difendersi in tribunale, come “colpevoli” e distolgono l’attenzione dalla propria responsabilità per le morti nel Mediterraneo», conclude Borderline Europe.

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Redazione

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