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da Il Corriere della Sera del 10 agosto 2004

Dai predoni ai soldati di Gheddafi, così finisce il sogno dei disperati

DAL NOSTRO INVIATO KANTCHARI (Frontiera Burkina Faso-Niger)

«Tu non hai i documenti quindi devi pagare 2500 Franchi africani (l’equivalente di 3 euro, ndr ) di multa. Altrimenti di qui non puoi passare». Jean Pelè Foutané, l’ufficiale burkinabè alla frontiera con il Niger, cerca di spiegare così, in francese, a John, un clandestino liberiano che capisce solo un po’ d’inglese, che sta per finire in cella. Sembra un discorso tra sordi che non si capiscono. John protesta e cerca di spiegare che lui il passaporto non ce l’ha. Gli è stato sequestrato dalla polizia libica. Lo implora di accettare un vecchio e sgualcito abbonamento per gli autobus. Gli spiega che è disperato e per questo, assieme a una decina di infelici, del Ghana e della Sierra Leone, dopo aver tentato la strada dell’Europa, sta cercando di tornare a casa. Peter, accanto a lui si trova nella stessa condizione e mostra all’ufficiale 1500 franchi. Gli manca il resto. Gli altri loro compagni di sventura hanno già pagato l’ammenda e sono risaliti sul minibus che li riporta indietro.

Jean Pelè è implacabile e solo l’aiuto provvidenziale di 3500 franchi del giornalista straniero di passaggio a quel posto di confine libera John, che abita a Monrovia (la capitale della Liberia), e Peter, ghaneano di Accra, dall’ennesimo incubo. «Sono partito due mesi fa da casa e sono arrivato a Ouagadougou, la capitale del Burkina, dove c’è un centro di raccolta di quelli che vogliono venire in Europa — racconta John —. Io avevo in tasca 500 dollari. Ho pagato pizzi e tangenti oltre che i servizi di chi mi ha aiutato a viaggiare e ad avere i visti. Avevamo appena passato il confine tra Niger e Libia e ci stavamo dirigendo verso il Mediterraneo.

I soldati di Gheddafi ci hanno fermato ad un posto di blocco, ci hanno preso ogni cosa, soldi e documenti, ci hanno riportato alla frontiera e rispedito indietro. Ora siamo qui, senza soldi, taglieggiati da tutti, ancora molto lontani da casa». Ci proverete ancora? «Non so — risponde Peter —. È stata un’esperienza drammatica, abbiamo rischiato più volte di morire. Nel deserto del Niger il mio gruppo è stato assalito persino dai predoni. Forse è meglio patire la fame a casa mia, piuttosto che morire in strada cercando di diventare ricchi». Molto dignitosi i due ringraziano, salutano con grandi sorrisi e montano sul pulmino che li aspetta. Non chiedono altri soldi. Per ora a loro basta aver superato l’ennesimo ostacolo. Di John e Peter ce ne sono molti nell’Africa sub-sahariana.

I viaggi della speranza non finiscono solamente con successo sulle coste italiane o tragicamente nello stretto di Sicilia. Molti dei potenziali clandestini sono costretti ad abbandonare i loro sogni assai prima di raggiungere il mare. La strada che da Ouagadougou porta a Niamey, capitale del Niger, e poi a Agadez e al confine libico è piena di gente che torna a metà del viaggio. Molti hanno fatto male i conti e, finiti i soldi, non riescono a trovare un lavoro saltuario che permetta di raggranellarne altri per continuare il viaggio. La gente fugge soprattutto dai Paesi in guerra o da quelli dove la guerra è finita ma la ricostruzione, lenta e difficile, non permette di lavorare.

Come la Liberia o la Sierra Leone. «Sa chi ha trovato un posto? Quelli che, secondo i piani dell’Onu, dovevano essere riciclati dalle milizie, quelli che hanno ammazzato i civili, gli hanno tagliato le braccia e/o le gambe — racconta sconsolato Aman, un liberiano che faceva l’autista per il Corriere l’anno scorso, mentre infuriava la guerra civile —. Noi che ci siamo comportati onestamente non abbiamo partecipato ai massacri, siamo qui ad aspettare». Tra i poveracci che vivono da queste parti non è difficile imbattersi in donne i cui mariti sono partiti per la Libia in attesa di venire in Italia. Nel campo profughi di Kalma, vicino a Nyala, nel Darfur meridionale (Sudan), dove guerra e catastrofe umanitaria si sommano in un micidiale cocktail, non ci sono uomini. Se è vero che molti si sono uniti alla guerriglia, è altrettanto vero che altri sono partiti per la Libia e l’Italia.

Lo sostengono in tante che ammettono affrante di aver perso le tracce dei loro mariti e dei loro figli. A Tchintabaraden, un piccolo centro nel bel mezzo del Sahara del Niger, al pozzo dove gli schiavi vengono a prendere l’acqua per i loro padroni tuareg, Altana Algamis racconta: «Mio marito Wassididan è schiavo anche lui. Fa il pastore per le bestie del nostro maître. I nostri figli sono scappati nella Jahamairiya, dopo l’acqua, in Italia». Altana non sa cosa sia la Jahamairiya, come da queste parti viene chiamata la Libia («È una cosa che sta lì, oltre l’orizzonte», spiega) e neppure cosa sia la libertà ma sa perfettamente che in quella direzione i figli possono tentare di avere una vita migliore della sua. Massimo A. Alberizzi