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da Il Corriere della Sera on line del 30 aprile 2010

Dalla Somalia alla Svezia, il viaggio della paura passato dall’Italia

Fuggiti dalla violenza sperano di ricostruire una nuova vita: «Questa sarà la nostra casa»

Mohammed ha ancora la paura negli occhi. «Gli Shebab sono venuti una notte. Sono entrati in casa sfondando la porta. Gridavano. Picchiavano. Hanno subito preso mio padre e gli hanno detto: «Tuo figlio ora viene con noi». Non hanno nemmeno atteso una reazione, una risposta. Lo hanno ucciso senza pietà. Quando ho visto mio padre crollare a terra ho capito che per me era finita. Potevo solo fuggire lontano, così lontano da non doverli mai più incontrare. Altrimenti sarei diventato come loro». Mohammed ha 16 anni ma ne dimostra di più. Le esperienze vissute negli ultimi dodici mesi ne hanno fatto un uomo prima del tempo. Nonostante la tragedia vissuta sulla propria pelle, la sofferenza, gli stenti, il giovane somalo — nato a Mogadiscio e cresciuto in uno Stato fallito, in mano alle milizie (gli Shebab sono guerriglieri islamici legati ad Al Qaeda) — ha ancora l’istinto di sognare: «Voglio studiare — dice con un filo di voce, mentre gli occhi spesso si abbassano a guardare il terreno, forse un riflesso delle abitudini assimilate nella sua terra —. Voglio una vita normale. Magari potessi diventare un pilota di rallie». Pilota di rallie.

IL MINISTRO: «DOBBIAMO AIUTARLI» – A Malmö, soglia di un Paradiso in terra per migliaia di derelitti senza più nulla se non la speranza, tutto appare possibile, anche il più ingenuo dei sogni. «Dobbiamo aiutare questi ragazzi», ci dice convinto Tobias Billström, il ministro (conservatore) dell’Immigrazione, arrivato da Stoccolma per una rapida visita al Centro per l’accoglienza dei minori della città che si affaccia sull’Oresund. Il ministro ascolta la storia di Mohammed e riflette: «È incredibile come giovani così sfortunati, traumatizzati, riescano in poco tempo a superare lo shock patito e a trasformarsi in bravi studenti. Per molti di loro c’è un futuro in Svezia».

GLI ANTIIMMIGRATI:«DOBBIAMO FERMARLI» – Non è d’accordo Mattias Karlsson, giovane esponente della Sverige Demokraterna, il partito anti-immigrati: «La nostra identità, il nostro modo di vivere sono in pericolo: dobbiamo fermare l’immigrazione». A spaventare Mattias i disordini quotidiani di Rosengard, il quartiere degli stranieri. Ma nel centro per i minori di Malmö non si respira tensione, anzi. La storia di Mohammed è esemplare e simile a molte altre. Soltanto nel 2009, sono arrivati oltre 701 ragazzi dai 15 ai 18 anni da Paesi come l’Afghanistan, la Somalia, l’Iraq. «Sono sempre da soli — spiega Stefan Berséus, il direttore del centro —. Noi diamo loro un rifugio, un tetto quando bussano alla nostra porta direttamente o perché inviati dall’Agenzia per l’immigrazione. Appena sistemati, li mandiamo subito a scuola: perché un ragazzo, per quanto disperato, deve potere vivere la vita normale della sua età».

BUONA ACCOGLIENZA IN SVEZIA – Mohammed non sperava di trovare una simile accoglienza: un’ex casa di riposo con stanze spaziose, arredate con eleganza svedese. «Sono buoni qui, mi trovo bene. Spero di poter rimanere», sospira. Della sua sorte, come quella di Issah, somalo anche lui, lo sguardo sornione, deciderà il Tribunale di Malmö, sezione per i richiedenti asilo. La concessione del permesso di residenza, accompagnata dalla nomina di un tutore legale, è quasi automatica per questi ragazzi.

TRATTATI MALE IN ITALIA – L’unico «inciampo» può arrivare dalla Convenzione di Dublino che attribuisce al primo Paese di immigrazione l’onere della concessione dell’assistenza. Nel caso di Mohammed, e anche di Issah, che non toglie un attimo lo sguardo dall’amico, potrebbe essere l’Italia, il Paese da cui sono transitati. «Ma noi non vogliamo tornarci: siamo stati trattati male laggiù», dicono quasi in coro. Mohammed è più ciarliero e racconta tutto il suo travaglio: «Dopo l’assassinio di mio padre ho atteso il momento giusto per scappare. Ma loro, gli Shebab, se ne sono accorti. Mi hanno inseguito per giorni. Mi sparavano addosso. In qualche modo sono riuscito ad arrivare al confine con il Kenya. Lì mi sono trovato sotto il fuoco incrociato: da una parte i guerriglieri somali, dall’altra le guardie di confine kenyane. Non so come sono riuscito sopravvivere».

LA FUGA – Mohammed aveva le ali ai piedi e tanta voglia di farcela. Dal Kenya è passato in Sudan, poi in Libia, infine l’ultimo sforzo e l’Italia dopo un viaggio su un barcone. In tutto, cinque mesi a vivere di nulla, a dormire sotto le stelle. Il ragazzo non lo dice ma è chiaro che di lui si sono «presi cura» i trafficanti di uomini. Quegli stessi che hanno capito l’affare e stanno facendo schizzare verso l’alto le statistiche. In Svezia, nel 2007, sono arrivati 1.264 minori. Nel 2010 ne attendono almeno 3.000. Molti dovrebbero chiedere asilo nel nostro Paese, visto che è il primo porto di arrivo (altre rotte passano dalla Turchia e dalla Russia). Mohammed non ne vuole sapere: «A Roma ho sofferto la fame, nessuno voleva occuparsi di me — dice —. Ho dormito per settimane alla Stazione Termini, un incubo: avevo sempre paura e poco da mangiare». Di nuovo, il giovane somalo non svela il «segreto» del suo arrivo a Malmö. Non può, troppi particolari, soprattutto se svelati di fronte ai funzionari dell’immigrazione e ai dirigenti del centro di accoglienza, possono costargli un ritorno coatto verso l’Italia. «Qui vado a scuola, qui voglio costruirmi un futuro». Mohammed non lo dice, ha paura a sorridere. Ma davvero sembra che la felicità sia di nuovo a portata di mano: «La Svezia sarà la mia casa».

Paolo Salom