Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Corriere della Sera del 29 dicembre 2003

Dalle università alle torture. Lo sfregio ai nuovi clandestini

di Fabrizio Gatti

Le precedenti puntate sono state pubblicate il 24 dicembre e il 27 dicembre

(Deserto del Ténéré) – L’acqua rimbalza nei bidoni di plastica appesi alle fiancate. Ogni volta che il camion molleggia sulle onde nella sabbia, le duecento taniche ricoperte di cartone e canapa suonano il ritmo di una lenta marcia nel deserto. Due ragazzi nigeriani ci fischiano sopra e intonano il tormentone 2003 delle discoteche di tutta Europa. Altri fanno il coro, al ritornello di Never leave you: «Uh-oooh, uh-oooh…». È il buonumore del mattino. L’aria gelida dell’alba. Il primo sole caldo sulla faccia.
Dura pochi metri. Dietro al cordone di dune appare un pozzo e l’autista tira dritto. Denis Phils e il fratello gemello Collin, 19 anni, da più di tre giorni e tre notti stanno aggrappati a una sponda del cassone. Il tonfo nei bidoni avverte che le scorte per bere sono quasi finite. Ma Nasser, il libico al volante del grande Mercedes 6×6, padrone del viaggio, della vita e della sete di questi clandestini, ha deciso che non ci si ferma. E nessuno canta più.

Sono 15.460 gli immigrati partiti negli ultimi trenta giorni da Agadez, in Niger. Pochi resteranno a lavorare in Libia. Quasi tutti vogliono arrivare in Italia. Prima tappa europea di un’avventura che a volte porta più su, in Francia, Olanda, Inghilterra. E, se va bene, in America. Viaggiano con uno o due bidoni d’acqua ciascuno, dai 20 ai 40 litri. Taniche riciclate dai trasporti di olio d’arachidi. Oppure da qualche deposito di carburante. I 182 passeggeri di Nasser hanno meno di 30 anni. Si sentono cittadini del villaggio globale. Parlano inglese. Sono diplomati, qualcuno laureato. Conoscono tutto del calcio italiano e dei loro connazionali andati a giocare lassù. Hanno imparato a usare Internet a scuola, o nei computer-caffè aperti in baracche di legno, lamiera e polvere. E hanno quasi tutti un’email. Non appena il camion si ferma per la sosta di mezz’ora, si passano la biro e consegnano il loro indirizzo su chiocciola-Yahoo-punto-com: «Ecco qua, in Libia troverò sicuramente un Internet caffè per guardare le foto. Così quando torni in Italia me le mandi», chiede Chuck Owu, 28 anni, nigeriano di Onyis. Si avvicinano Vincent, 23 anni, Peters, 25, Erasmus, 21.

Aggiungono i loro nomi online su un pezzetto di carta invecchiato dal sudore e dalla sabbia ocra, entrata in fondo a tutte le tasche. C’è anche Anthony, che già si immagina in Italia: «My name is Antonio», dice.

Sarà per questo che la polizia e i militari del Niger e del Sud della Libia li massacrano di botte. L’usanza di rapinare i viaggiatori lungo quest’antica rotta delle carovane dura da secoli. Soprattutto se chi passa è africano, nero e cristiano. Ma anche i musulmani si prendono la loro raffica di botte ai posti di controllo. Calci sulla schiena, frustate con i cavi elettrici e ore sotto il sole rovente. La ferocia e le torture sembrano nascondere sentimenti di invidia e vendetta: la rivincita contro chi ha avuto il coraggio di caricare il proprio futuro su un camion per portarselo in Europa.

È anche l’effetto dell’Islam bigotto di queste parti. Nella lunga attesa all’ultimo posto di controllo, la discussione con i soldati comincia dalle gesta di Ibn Battuta, il grande esploratore arabo del 1300. E finisce al mistero sull’origine di pomodori e patate: «Davvero vengono dall’America? Impossibile che Allah l’abbia benedetta con questi doni – sentenzia il sergente – dopo tutto il male che l’America sta facendo nel mondo».
Chissà cosa penserebbe Allah degli immigrati torturati e rapinati. Ce ne sono più di cinquecento in queste notti all’autostazione di Agadez, la splendida città di fango rosso, l’ultima prima del Ténéré. Militari e poliziotti li hanno ripuliti, non hanno più uno spicciolo. Non possono andare avanti. Non possono ritornare. Nemmeno telefonare alle loro famiglie per chiedere altri soldi. Possono solo dimenticare la fame e dormire all’autogare, il parcheggio dei camion del deserto. È una prigione senza sbarre, più grande di un campo di calcio. Lungo due lati, per tutta la lunghezza e la larghezza, c’è gente sdraiata. Si sono infagottati all’aperto, uno stretto all’altro per scaldarsi, davanti alle biglietterie che organizzano i viaggi verso l’Italia. Dandy Obasuny, 24 anni, nigeriano di Benin City, era partito con 150 dollari. Ha dovuto vendere le scarpe e il bagaglio: «I soldi li avevo nascosti nelle mutande – racconta -. Qui ad Agadez, un militare mi ha infilato la mano nei pantaloni e se li è presi».

Dandy non viene da una famiglia poverissima: «Mio padre insegna geografia alle medie, mia madre vende stoffe. Io studiavo informatica all’università». E la decisione di partire? «Da noi andare in Europa è una competizione. Dal Camerun al Senegal, milioni di persone vogliono partire. Aspettano solo di raccogliere i soldi. Io ho deciso quando tutti i miei amici sono andati a studiare a Londra. Ho una sorella in Olanda. Mio padre non poteva pagarmi il viaggio. Allora sono andato a lavorare a Cotonou, nel Benin. Era il 2001 e non ho più rivisto i miei».
Caterine Tindawo, 31 anni, non ha marito e ha lasciato la figlia di 13 anni ai suoi nonni in Camerun. Gli ultimi 6 mila franchi, 9 euro e 20, li ha spesi per farsi restituire il passaporto, che un militare di Agadez le aveva rubato. Ora fa la cameriera in un ristorante all’aperto per 10 mila franchi al mese, 15 euro e 40. Un nigeriano le ha proposto di vendere il sorriso e il corpo. Ma lei tiene duro. Anche se alla pensione i 10 mila franchi le bastano solo per pagarsi il rettangolo di pavimento su cui dormire: «Spero nelle mance – sorride -. Ho un diploma di informatica, lavoravo in una ditta farmaceutica per 60 mila franchi, 92 euro al mese. Ma per me e mia figlia voglio un futuro diverso. Ho deciso di partire in febbraio, dopo che una mia amica è arrivata in Italia seguendo la rotta del deserto. Anch’io vorrei andare in Italia. Ma dove arrivi non dipende da cosa vuoi: dipende dai soldi che riesci a raccogliere».
Denis e Collin Phils, fratelli gemelli, studenti al primo anno di università, chimica ed economia, all’autostazione di Agadez sono rimasti tre settimane. Hanno sofferto la fame e venduto le scarpe. Sul camion del deserto sono saliti grazie alle offerte della loro parrocchia, in Nigeria. Hanno telefonato al pastore con il cellulare di un turista. Gli hanno detto che erano stranded, bloccati. E il pastore ha raccontato a messa la storia dei due bravi ragazzi che prima di partire gli avevano chiesto di pregare davanti al crocefisso. Pochi giorni dopo, allo sportello della Western Union sono arrivati i soldi.

Se fossero nati in Europa, Denis e Collin avrebbero sicuramente un cappellino con lo sponsor. Come certi campioni di sport estremi. Perché ad Agadez sono arrivati a piedi, da Zinder, Birni-Nkonni e Tahoua. Novecentosettanta chilometri di villaggi, savana e quasi metà di deserto. Avevano speso gli ultimi soldi per il biglietto del pullman. E a Zinder un ufficiale li ha fatti scendere perché non avevano più niente da offrire ai militari. Il pullman è ripartito con i loro bagagli. Ma loro non si sono arresi. Hanno camminato, dormito sulla strada, mangiato datteri e qualche biscotto. A ogni posto di controllo sono stati frustati o bastonati, o tutte e due le cose. Denis ha ancora le cicatrici su una gamba, il braccio e il fondoschiena. Avevano pianificato il viaggio perfino nei libri. Ne avevano messi quattro nella borsa: «Cosa dire quando parli a te stesso», «Come superare i conflitti», «L’influenza del potere», «Come pensare positivo», più una maglietta a testa, un paio di jeans e l’agenda con i numeri di telefono. «Avevamo scelto titoli che ci aiutassero a trovare le motivazioni – dice Collin -. Li abbiamo persi con i bagagli. Là dentro c’era anche il regalo che la mia fidanzata mi aveva dato prima dell’ultimo bacio. Una tazza con la scritta: stai bene, ti amo». Chi ha preso la decisione di partire? «Io ho deciso per primo – risponde Collin -. Era gennaio. Avevamo appena finito il primo semestre all’Università di Ekiti State. Eravamo tra i più bravi del corso, ma non avevamo più soldi per continuare. I nostri genitori sono morti nel ’96 in un incidente d’auto. Ci siamo mantenuti con le ripetizioni. Ora però i costi sono troppo alti…».

E perché proprio l’Italia? «Conosciamo nigeriani che vivono in Italia, dicono che è un bel Paese. Denis voleva fare le cose in regola. È andato fino a Lagos, all’ambasciata italiana. Ma un impiegato nigeriano gli ha detto che bisogna versare una cauzione di 1.800 dollari. Non rimaneva che il deserto. Ci siamo messi a lavorare. Da gennaio a novembre. Muratore, garzone, operaio. Faremo lo stesso in Libia. Per continuare in barca fino in Italia. Sappiamo che molte barche affondano. Ma alla nostra non succederà. Dio non può abbandonarci, dopo tutto quello che abbiamo passato qui».
Il sogno da adolescente di Collin era una divisa da pilota d’aereo. «Io volevo fare l’astronauta», ride Denis. Adesso stanno seduti in un paesaggio lunare dove il blu del cielo scende a toccare la sabbia. Nasser e Housseini, i due autisti, richiudono il cofano, alzato per raffreddare il radiatore. Due colpi d’acceleratore, un ruggito rauco e una densa fumata nera. Denis, Collin e gli altri 180 scappano verso il camion. Ci si arrampica come marinai all’arrembaggio. La sosta è finita, i libici non aspettano. Nasser ha promesso che si fermerà al pozzo di Achegour per riempire i bidoni. «Arriveremo al tramonto – prevede -. Se Allah vuole». Sarà l’ultimo sorso d’acqua fresca. Prima di Dirkou: la grande oasi dei clandestini partiti per l’Italia e diventati schiavi.

3 – continua