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Decreto flussi 2010/2011 – Ostatività di espulsioni e condanne per reati connessi

a cura del''Avv. Guido Savio

Speciale Decreto Flussi 2010/2011

Premessa
In merito all’emanazione del decreto flussi per l’assunzione di cittadini stranieri, si pongono i consueti interrogativi circa la sua applicabilità a persone destinatarie di un decreto di espulsione (non importa se effettivamente eseguito o comminato sulla carta), e ai condannati per reati connessi (artt. 14, co. 5 ter e quater; 13 co. 13 e 13 bis T.U. imm.). Un chiarimento, a tal proposito, si rende necessario dopo l’esperienza della emersione colf e badanti del settembre 2009, che, a seguito di una discutibilissima circolare del capo della polizia del marzo scorso, ha determinato l’esclusione dalla regolarizzazione delle persone condannate per non aver ottemperato all’ordine di allontanamento emesso dal questore, con un lungo contenzioso giudiziario di cui non si vede ancora un esito positivo.

Vero è che sul piano giuridico decreto flussi e regolarizzazione sono istituti distinti, posto che il primo presuppone che il lavoratore straniero non sia in Italia e che domanda e offerta di lavoro si incontrino virtualmente, mentre la regolarizzazione avviene sur place, ma è ancor più vero che – ormai possiamo dire storicamente – le richieste di assunzione di lavoratori stranieri tramite il c.d. “decreto flussi” si fondano sulla finzione che il lavoratore non sia in Italia, per la ovvia ragione che l’incontro virtuale tra domanda e offerta di lavoro non funziona. La conseguenza è che assai spesso lavoratori stranieri e datori di lavoro confondono i due distinti istituti e considerano il decreto flussi una regolarizzazione, al punto che tale confusione di piani è ormai entrata nel discorso mediatico.

La realtà è che il decreto flussi è diventato una sorta di sanatoria mascherata: ottenuto il nulla osta, il lavoratore – che finge di essere fuori Italia – abbandona alla chetichella il nostro paese, nella speranza di non essere intercettato, e ritirato il visto d’ingresso presso le nostre rappresentanze consolari, si appresta a fare ingresso ora finalmente legale, nel territorio italiano.
E qui possono verificarsi sgradevoli sorprese. Vediamole brevemente.

Gli effetti delle espulsioni: cenni generali
Tutte le espulsioni comportano un divieto di reingresso, ordinariamente decennale, nel territorio dello Stato e degli altri Paesi dell’area Schengen. Tale divieto di reingresso decorre dal momento in cui lo straniero ha effettivamente abbandonato l’Italia: non importa se volontariamente, ottemperando ad un ordine della P.A., o coattivamente. Consegue che se un’espulsione è stata comminata anni addietro, ma lo straniero non ha lasciato il territorio italiano, non sia mai iniziato il decorso del divieto di reingresso. La P.A. può tuttavia prescrivere un divieto di reingresso per un termine inferiore ai dieci anni – in ogni caso mai inferiore a cinque anni – tenendo conto della complessiva condotta tenuta dall’interessato nel periodo di permanenza (legale o illegale) in Italia.

Questo dato è fondamentale per comprendere le conseguenze che gravano sul lavoratore straniero – che sia stato precedentemente espulso – in caso di presentazione di richiesta nominativa di assunzione tramite il decreto flussi: ovviamente, infatti, se il termine che vieta il reingresso dell’espulso in Italia non è ancora spirato, non potrà essere consentito il rilascio del nulla osta o del visto, ad eccezione delle ipotesi – peraltro frequenti – di espulsioni comminate con false generalità, differenti, quindi, da quelle con cui è stata formulata la domanda di assunzione con il decreto flussi, sia pure con le spiacevoli conseguenze che vedremo tra poco.

Gli effetti delle espulsioni: espulsioni comminate con le esatte generalità ma non eseguite
Nelle ipotesi frequentissime di espulsioni comminate con le esatte generalità ma non eseguite (c.d. espulsioni sulla carta), il lavoratore straniero non potrà beneficiare del decreto flussi per due motivi tra loro connessi:
– 1) non essendosi mai allontanato dall’Italia, non è mai iniziato a decorrere il divieto di reingresso insito nell’espulsione, consegue che – risultando a questura e prefettura un’espulsione perfettamente valida ed eseguibile – queste non possano rilasciare il nulla osta all’assunzione perché lo straniero non potrebbe ottenere il necessario visto d’ingresso proprio a causa del divieto di reingresso;
– 2) se l’espulsione, pur comminata, non è stata eseguita, vuol dire che il lavoratore straniero era destinatario di un ordine di allontanamento cui non ha ottemperato. Egli pertanto deve essere obbligatoriamente arrestato, ai sensi dell’art. 14, co. 5 quinquies, D. Lgs. 286/98, e rischia, in caso di condanna, la reclusione da uno a quattro anni.

La pena è da sei mesi ad un anno di reclusione se l’espulsione è stata disposta perché il permesso di soggiorno è scaduto da più di sessanta giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo, ovvero se la richiesta di permesso di soggiorno è stata rifiutata ( per queste ultime ipotesi non è consentito l’arresto in flagranza). In questi casi, risultando le esatte generalità dello straniero espulso, che coincidono con quelle con cui viene effettuata la richiesta di assunzione col decreto flussi, è ovvio che la P.A. sarà a conoscenza della causa ostativa e non rilascerà né nulla osta né visto.

Gli effetti delle espulsioni: espulsioni comminate con false generalità e non eseguite
La situazione ora in esame è analoga a quella descritta al punto che precede, salvo la rilevante differenza che la P.A. ignora che il nominativo del lavoratore nei cui confronti viene effettuata la richiesta di assunzione nominativa sia quello di persona già attinta da decreto espulsivo e ordine di allontanamento, per la ovvia ragione che al momento dell’adozione degli atti espulsivi lo straniero aveva declinato false generalità e, proprio con quelle, era stato espulso.
In tali frequenti casi, sussistendo gli altri presupposti, può tranquillamente essere rilasciato il nulla osta da parte del SUI. A questo punto, il lavoratore straniero – pur espulso e inottemperante all’ordine del questore – tornerà in Patria per prendere il visto d’ingresso e, con quello, farà un ingresso apparentemente regolare in Italia. Sennonché, all’atto della sottoposizione ai rilievi dattiloscopici inesorabilmente risulterà che il lavoratore straniero era stato espulso, sia pure con altre generalità, con le seguenti conseguenze:
– 1) arresto obbligatorio per violazione dell’art. 13, co. 13 ( o 13 bis) D. Lgs. 286/98. Infatti, il lavoratore che era stato espulso, si è allontanato dall’Italia, sia pure al solo scopo di ottenere il visto d’ingresso necessario per la procedura di assunzione, e vi ha fatto reingresso ben prima che fosse trascorso il termine che lo impediva.< - 2) Sottoposizione a giudizio direttissimo per la violazione penale di cui al punto che precede e rischio di condanna alla reclusione da uno a quattro anni (o da uno a cinque anni in caso di reiterazione della violazione del divieto di reingresso).
– 3) Denuncia a piede libero per avere declinato false generalità all’atto dell’emanazione del decreto di espulsione ( in tal caso, essendo ormai trascorsa la flagranza, perché il reato di false generalità era stato commesso tempo prima, non è possibile procedere all’arresto, che pure sarebbe consentito).
– 4) Nuova espulsione con accompagnamento immediato alla frontiera, previa permanenza in un C.I.E. se non fosse possibile eseguire l’espulsione con immediatezza, ovvero previo ordine di allontanamento del questore se non vi fosse disponibilità di posti nei C.I.E.

Ovvio che anche in questo caso la via del decreto flussi non sarebbe percorribile, e lo straniero correrebbe il concreto rischio di arresto e gravi sanzioni penali con in più la certezza di una nuova espulsione, cui seguirà inesorabilmente nuovo divieto di reingresso.

Gli effetti delle espulsioni: espulsioni comminate con le esatte generalità e effettivamente eseguite
Indipendentemente da come sia stata data esecuzione alle espulsioni (volontariamente, ottemperando all’ordine del questore oppure coattivamente), dalla data di esecuzione dell’allontanamento dall’Italia scatta, come abbiamo visto, il divieto di reingresso. Consegue che, se il relativo termine non è ancora spirato, la P.A. – che conosce le esatte generalità dell’espulso coincidenti con quelle con cui viene avanzata la richiesta di assunzione – non rilascerà il nulla osta.

Gli effetti delle espulsioni: espulsioni comminate con false generalità e effettivamente eseguite
La situazione ora in esame è del tutto analoga a quella descritta poc’anzi a proposito delle espulsioni comminate con false generalità e non eseguite. La differenza tra le due ipotesi è meramente fattuale: mentre nel primo caso lo straniero ha dato esecuzione alla sua espulsione (magari inconsapevolmente) nel momento in cui è uscito dall’Italia per andarsi a recuperare il visto d’ingresso, in questa ipotesi lo straniero è stato espulso coattivamente (o volontariamente, oppure ottemperando all’ordine del questore), ma pur sempre con false generalità. La conseguenza sarà che solo al momento della sottoposizione ai rilievi fotodattiloscopici – quindi successivamente all’ingresso apparentemente regolare in Italia – l’amministrazione scoprirà che quella persona era stata effettivamente espulsa sia pure con false generalità. Ma gli esiti saranno identici alla situazione precedentemente esaminata.

Le condanne per violazione dell’art. 14, co. 5 ter o quater e/o per violazione dell’art. 13, co. 13 o 13 bis D. Lgs. 286/98
Senza entrare nei dettagli tecnici dei reati d’inottemperanza all’ordine del questore e della sua reiterazione (art. 14, co. 5 ter e quater), oppure dei reati di reingresso illegale (art. 13, co. 13 e 13 bis) , occorre considerare che queste categorie di illeciti penali costituiscono i c.d “reati connessi alle espulsioni”, cioè hanno come loro presupposto almeno un’espulsione – comminata o eseguita.
Pertanto, è evidente che una persona condannata per taluno di tali illeciti penali rientrerà necessariamente in almeno una delle categorie sopra sinteticamente descritte.
A ciò si aggiunga che la normativa prevede che il condannato per uno di tali reati venga nuovamente espulso.
Consegue che – se l’espulsione che ha determinato la condanna per i reati in questione non è stata rimossa – costoro non possano usufruire del decreto flussi perché il loro ingresso in Italia non è consentito.

Possibili rimedi
Come si è cercato di spiegare, occorre avere ben chiaro che una persona espulsa non può soggiornare legalmente in Italia né farvi ingresso almeno fino a che l’espulsione o i suoi effetti sono stati rimossi, il che può avvenire quando:
– 1. È decorso il termine ordinariamente decennale (oppure quinquennale) che impone il divieto di reingresso, termine – ricordiamolo ancora una volta – che inizia a decorrere dalla data di effettivo allontanamento dal territorio nazionale, allontanamento dimostrabile o dalla P.A. che ha effettuato l’accompagnamento in frontiera, ovvero dallo straniero che, ottemperando all’espulsione, ha l’obbligo di presentarsi alla polizia di frontiera rammostrando il decreto espulsivo cui presta esecuzione e facendosi apporre il timbro d’uscita sul passaporto. Inoltre, decorso tale termine, incombe sullo straniero che voglia rientrare in Italia l’obbligo di produrre “idonea documentazione” comprovante l’assenza dallo Stato (cioè la presenza in altro Stato) alla rappresentanza diplomatica italiana.
– 2. Lo straniero ottiene una speciale autorizzazione al reingresso, prima del termine, dal Ministro dell’interno (ipotesi di rarissima applicazione);
– 3. Lo straniero ottiene il nulla osta e conseguentemente il visto per ricongiungimento familiare (ma in tal caso non ricorrerà al decreto flussi, avendo altra strada per il regolare ingresso e soggiorno);
– 4. Lo straniero ottiene l’autorizzazione all’ingresso dal tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 31, co. 3 d. Lgs. 286/98, per gravi problemi psicofisici del familiare minore che si trova sul territorio italiano;
– 5. L’espulsione è stata annullata a seguito di ricorso giurisdizionale;
– 6. L’espulsione è stata revocata in sede di autotutela dalla P.A. che l’aveva emessa, o d’ufficio o su istanza di parte.

La strada del ricorso avverso l’espulsione, nel termine di sessanta giorni dalla sua notificazione allo straniero, è sicuramente quella più frequentemente utilizzata. Ottenere l’annullamento dell’espulsione equivale a rimuovere il principale ostacolo alla positiva partecipazione alla lotteria del decreto flussi.

Un caso pratico esemplare
A seguito del decreto flussi del 2007, un datore di lavoro italiano effettua la chiamata nominativa di una donna moldava, che era stata espulsa con false generalità albanesi.
Ottenuto il nulla osta e il visto, la donna entra regolarmente in Italia e formula istanza di accesso agli atti, al fine di verificare l’esistenza dell’espulsione a suo carico. La prefettura, sbagliando, risponde negativamente.
Mesi dopo aver iniziato il rapporto di lavoro, in sede di rilievi dattiloscopici, emerge la precedente espulsione, comminata con false generalità, e la donna viene arrestata per reingresso illegale (art. 13, co. 13 T.U. imm.).
Tratta a giudizio con il rito direttissimo, la lavoratrice viene assolta perché il fatto non costituisce reato, difettando il dolo, posto che la stessa amministrazione aveva escluso, sia pure erroneamente, che vi fosse una pregressa espulsione ostativa all’ingresso e pertanto l’imputata non era consapevole di violare la legge.
Utilizzando la motivazione di detta sentenza, la donna formula istanza di revoca dell’espulsione al prefetto che l’aveva emessa, sostenendo la carenza dell’interesse pubblico attuale al mantenimento del decreto espulsivo, posto che era entrata in Italia con le carte in regola, era stata assolta in sede penale dal reato di illecito reingresso, e, infine, che ormai era iniziata regolare attività lavorativa e dunque non sussistevano più le ragioni che avevano indotto la P.A ad espellerla.
Come nelle previsioni il prefetto respinge l’istanza di revoca dell’espulsione, ma tale atto viene tempestivamente impugnato davanti al giudice di pace che annulla il diniego di revoca perché privo di qualsiasi motivazione in punto attualità dell’interesse pubblico all’allontanamento della donna ormai perfettamente inserita in Italia. A questo punto, la lavoratrice formula nuova istanza di revoca al prefetto, forte del provvedimento del giudice di pace, e la prefettura, ottenuto il parere favorevole della questura, finalmente revoca l’espulsione. Segue il rilascio del permesso di soggiorno tre anni dopo l’ingresso.

Questa vicenda, oltre ad essere sintomatica delle vicissitudini (talvolta anche fortunose) cui sono sottoposti i migranti, insegna che occorre cercare di sfruttare tutte le opportunità che vengono offerte. Certo, se la donna avesse rinunciato a iniziare la sua battaglia, non avrebbe potuto sfruttare gli errori che la P.A. nel caso di specie ha commesso, ma speculando sugli errori altrui talvolta se ne guadagna, con un po’ di arguzia e fortuna, beninteso. Obbligare la P.A. a pronunciarsi sull’attualità dell’interesse pubblico al mantenimento dei suoi provvedimenti espulsivi emessi anni addietro, rammentare che il sopraggiungere di nuovi elementi positivi consente il rilascio del permesso di soggiorno a lavoratori che non hanno altra colpa se non quella di vivere e lavorare in un sistema governato dalla Bossi – Fini, talvolta non è mero esercizio di stile.

Il nuovo decreto flussi: un’occasione per utilizzare la direttiva 2008/115/CE
Come molti sapranno, lo scorso 24 dicembre è scaduto il termine per il recepimento della c.d. “direttiva rimpatri” da parte degli Stati membri dell’U.E.
E, come previsto, l’Italia non ha mosso un dito.
Non è questa la sede per sviscerare le complesse questioni tecniche che la direttiva pone, tuttavia è bene rammentare che il sistema espulsivo disegnato dalla direttiva è totalmente diverso da quello italiano.

Ai fini che qui interessano, propongo di focalizzare l’attenzione su un solo punto: l’art. 5 della direttiva 115 disciplina il “divieto di reingresso” e prescrive che tale divieto deve essere “determinato tenendo debitamente conto di tutte le circostanze pertinenti ciascun caso e non supera di norma i cinque anni salvo se lo straniero costituisce una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale. Bastano queste poche righe per apprezzare la profonda differenza tra il divieto di reingresso per dieci anni comminato a tutti gli espulsi, indistintamente, e quello delineato dalla direttiva rimpatri.

Allora, il lavoratore straniero espulso che sia fuori dall’Italia da cinque anni, potrebbe – tramite una procura conferita a un avvocato – formulare istanza di revoca dell’espulsione corredata da un divieto decennale di reingresso, facendo forza proprio sulla direttiva in questione, al fine di poter partecipare alla lotteria del decreto flussi.

Ma i numerosi argomenti di contrasto tra direttiva e diritto interno potrebbero indurre i legali di molti stranieri ad avanzare istanze di revoca di espulsioni palesemente illegittime al lume del diritto U.E.; si inizierebbe così un percorso virtuoso, tutt’altro che facile, che potrebbe condurre a esiti sorprendenti, speculando sull’insipienza del governo che, fino ad ora, non ha provveduto a recepire la direttiva rimpatri.

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