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Dentro la “giungla di Como”, dove i rifugiati incontrano l’ostacolo della Svizzera

Radio Télévision Suisse, 8 settembre 2016

La piccola entrata della sala parrocchiale in cui vengono serviti i pasti serali (Valentin Tombez - RTS)

Da due mesi, centinaia di immigrati di origine africana sono bloccati alla stazione di Como, ultima fermata prima di Chiasso, nel Canton Ticino. Fra di loro, decine di minori non accompagnati. Un reportage nel cuore della crisi, fra solidarietà cittadina e spostamenti forzati.

Sékou, 15 anni, respinto

Quando parla di calcio, il giovane viso di Sékou si illumina. “Il mio sogno è finire l’accademia”, rivela, con gli occhi pieni di speranza. Per lui, l’accademia è la scuola di calcio. Questo ragazzo guineano vive da una settimana presso don Giusto della Valle, nella piccola parrocchia di Rebbio, un quartiere popolare di Como.

Sékou, come centinaia di migranti, si è dovuto fermare alla dogana di Chiasso. Eppure, la Svizzera avrebbe dovuto costituire solo un passaggio di poche ore lungo il suo viaggio.
Volevo andare in Germania perché si dice che lì ti aiutano e puoi fare quello che vuoi”, racconta timidamente. Dopo essere stato respinto due volte, non vuole più ripetere l’esperienza. “Forse un’accademia mi può prendere qui”, prosegue.

Il ragazzo ha lasciato la capitale della Guinea, Conakry, lo scorso dicembre, dopo che la madre ha organizzato la sua partenza verso l’Europa. Dapprima è stato accompagnato da un uomo, che l’ha condotto in autobus a 5.000 chilometri da casa, nella città libica di Sabratah, sulla costa del Mediterraneo. Lì si è avviato lungo il percorso già intrapreso da migliaia di altri migranti, provenienti dai paesi di mezzo continente africano. Sékou racconta di aver sofferto molto in Libia, mentre aspettavano la bonaccia primaverile: è stato spesso picchiato dalle “guardie”, prima di potersi finalmente imbarcare su “una piroga costruita sul posto”.

A Como rimangono solo i poveri e i deboli. Gli altri se ne sono già andati da tempo

Sékou fa parte di quei 460 minori non accompagnati che da metà luglio Don Giusto ha accolto nella sua piccola parrocchia, almeno per il tempo di una doccia e di un pasto. La maggior parte di loro, senza bagagli né documenti e di un’età compresa fra i 15 e i 18 anni, proviene dall’Etiopia e dall’Eritrea. Riconsegnati dalla Svizzera alla polizia italiana, i ragazzi vengono affidati alla Caritas, che cerca di sistemarli nei centri d’accoglienza. Molti di loro ripartono immediatamente: “Non vogliono stare dentro delle strutture” spiega il parroco, il quale lascia loro “totale libertà”.
A Como rimangono solo i poveri e i deboli. Gli altri se ne sono già andati da tempo”, prosegue don Giusto, divenuto un simbolo, in città, della solidarietà nei confronti dei migranti.
I pochi che soggiornano per più tempo da lui godono di un corso di italiano tenuto da volontari: l’obbiettivo è quello di offrire almeno 12 ore di scuola alla settimana, prima che partano verso nord, Milano o altrove. Meno di una ventina ha fatto domanda di asilo in Italia. E gli altri? Il parroco non sa che ne è stato di loro: probabilmente alcuni sono stati accolti in Svizzera. E, a qualche chilometro dalla sua chiesa, una trentina di minori bivaccano ancora alla stazione di Como.

Le promesse degli scafisti

Nonostante abbia rinunciato a raggiungere il nord Europa, Sékou non vuole chiedere asilo in Italia, almeno per il momento. In realtà, non sembra capire davvero di cosa si tratti. Abbandonato a sé stesso, spera soprattutto di entrare nel campo di Como: “Magari laggiù qualcuno mi potrà aiutare ad andare all’accademia”, ripete.
Nonostante le attenzioni di don Giusto, Sékou crede ancora alle promesse degli scafisti, che grazie al calcio avrebbe potuto far arrivare sua madre dalla Guinea. Ogni sera, si allena nello spiazzo di fronte alla parrocchia con le sole cose che possiede: un paio di scarpe da basket e una palla grande quanto una pallina da tennis.

Sballottati per l’Italia

Il giorno dopo in tarda mattinata, un gruppetto di africani gioca a calcio, proprio come Sékou, nel parco sotto la stazione di Como. Il campo da gioco improvvisato è circondato da una cinquantina di tende multicolori, messe a disposizione dagli abitanti del luogo e piantate sotto grandi piante spinose. Non tutti ne hanno una: molti migranti dormono ancora per terra o sulle banchine della stazione.

All’interno del campo, le cose cambiano rapidamente: dall’oggi al domani, gli ospiti sono passati da 550 a 300. Dove sono andati gli altri? Probabilmente a Milano, ma nessuno può saperlo con certezza. Niente cambia per chi resta. Le giornate scorrono lentamente: mangiare, dormire, aspettare. E sperare che, finalmente, la Svizzera li faccia passare per raggiungere la Germania.

“Ci provo ogni giorno”, afferma un eritreo di 17 anni, mentre un ragazzo del suo gruppo si lava i capelli sotto il getto di una fontanella. Il ragazzo racconta di essere stato in prigione per diversi mesi in Libia, perché non aveva soldi per pagare i poliziotti. Le storie si accumulano e si incrociano sempre in Libia; tutte hanno in comune le parole “riscatto”, “violenza”, “prigione”. A volte, alcuni migranti mostrano grosse cicatrici per illustrare le loro storie.

Come i suoi compagni di sventura, il giovane eritreo rifiuta di farsi fotografare da vicino. Mohammed, un sudanese di 24 anni del Darfour, ha paura che la famiglia venga a sapere che dorme per terra, all’aperto. Nonostante la loro condizione, nessuno ha intenzione di presentare domanda di asilo in Italia, cosa che comporterebbe la possibilità di ricollocamento in un altro paese dopo almeno sei mesi di procedura. “Italy, no work” (“Non c’è lavoro in Italia”), ripetono in un inglese molto sommario.

Evitare un’altra Calais

Lo stesso discorso circola fra il gruppo degli Etiopi, qualche metro più in là. “Bisogna continuare a tentare, magari con un po’ di fortuna riusciremo a passare”, ipotizza Amdou, 20 anni, che fa da interprete per i suoi compatrioti. Badassa, 28 anni, esita a provarci ancora; ci racconta di essere stato “deportato” a Taranto, nel sud del paese, dopo uno dei suoi tentativi. Da allora, ha paura.

Una o due volte alla settimana, la polizia italiana carica i migranti respinti su dei pullman diretti a sud, a più di 1000 chilometri da Como. Lo scopo è quello di evitare una situazione simile a quella verificatasi a Calais. Questi trasferimenti permetterebbero di alleggerire l’affluenza nel campo di Como. Molte associazioni contestano tale pratica, ritenendola lesiva dei diritti umani fondamentali.

Il percorso per tornare a Como è lungo e pericoloso: “Se non hai soldi per pagare il biglietto del treno, devi risalire il paese stazione per stazione”, prosegue Badassa. La situazione si complica ulteriormente una volta raggiunta Milano, diventata un enorme hub per i migranti che vogliono raggiungere il nord Europa attraverso la Svizzera, la Francia o l’Austria. La stazione centrale trabocca di carabinieri ed è impossibile accedere ai binari senza biglietto.

Inoltre, i treni regionali in direzione di Chiasso vengono spesso perquisiti appena usciti dalla città: alla stazione di Sesto San Giovanni o di Monza, la polizia fa scendere i migranti dal treno e li rimanda a Milano, dove si trovano più di 3.000 persone in attesa dell’apertura delle frontiere.

Lo sbarramento di Chiasso

Se riescono a risalire tutta l’Italia, i migranti si scontrano con il principale ostacolo sul loro cammino: la dogana di Chiasso, apparentemente insuperabile. Circa il 90% dei rifugiati arriva in treno. Un piccolo numero arriva con mezzi stradali e, in rari casi, a piedi attraverso la “frontiera verde”. Quasi nessuno passa. Mabassa racconta di aver tentato una notte di superare il confine attraverso le montagne: “Era difficile, ci siamo persi e poi la polizia svizzera ci ha presi”. L’arsenale della polizia di frontiera non lascia alcuna speranza ai clandestini, disponendo di telecamere di sorveglianza e droni col visore termico. Loro lo sanno bene, quindi preferiscono tentare di forzare il blocco in treno.

Questo pomeriggio, alla stazione di Chiasso, due guardie frontaliere aspettavano in testa a un treno regionale, tre in coda. I passeggeri, una ventina e quasi tutti turisti, sono bianchi. Nessuno di loro viene controllato. Qualche minuto più tardi, l’EuroCity proveniente da Milano arriva sul binario di fronte. I doganieri fanno scendere sei giovani migranti, tra cui quattro donne. Il gruppo viene pacificamente scortato attraverso la stazione, lungo il percorso segnato dalla freccia arancione che indica la direzione dell’Italia. L’operazione è ormai una consuetudine e non dura più di qualche minuto.

Numerose ONG, in primis Amnesty International, condannano i respingimenti sistematici. Chiedono che ogni persona – in particolare i minori – abbia accesso a una procedura di asilo preliminare. In risposta all’accusa di aver inasprito i controlli quest’estate, sotto la pressione della Germania, l’Amministrazione Federale delle Dogane (AFD) sostiene di applicare soltanto la legge e che nulla sia cambiato. Ha respinto più volte la nostra richiesta di documentare il lavoro delle guardie frontaliere.

Perquisizione corporale

I migranti, per parte loro, contestano aspramente le perquisizioni corporali, da loro giudicate degradanti. Confidano di essere stati costretti dalle guardie a spogliarsi completamente: “Non avete la tecnologia in Europa per vedere se c’è qualcosa nascosto sotto i vestiti?”, ironizza Mohammed.
Il portavoce dell’AFD David Marquis conferma il ricorso alle perquisizioni corporali, “aventi come scopo il ritrovamento di oggetti pericolosi, al fine di garantire la sicurezza dei migranti e delle guardie frontaliere”. Ci assicura che tali pratiche vengono effettuate nel rispetto della dignità della persona. Divieto di filmare, fotografare e persino di parlare con le guardie, il messaggio dell’AFD è chiaro: circolate.

La risposta dei cittadini

Tornati a Como a fine giornata, vediamo i migranti che si dirigono a piccoli gruppi verso l’ingresso del centro storico, davanti a una chiesetta, a meno di 500 metri dal campo. Là, tutte le sere, una quarantina di volontari si impegnano per preparare loro un pasto caldo. I locali sono messi a disposizione dalla Caritas, che distribuisce anche dei sacchetti con il pranzo. L’impegno coinvolge però tutta la cittadinanza.
Tutto è partito da una mail che ho ricevuto il 26 luglio. Due sere dopo, abbiamo iniziato a servire i primi pasti”, racconta Patrizia Maesami, avvocato urbanista, meravigliata dalla solidarietà dei suoi concittadini. Oltre alle donazioni, quasi 400 persone si sono iscritte alle turnazioni per servire i pasti. “È la spontaneità italiana, la pazzia italiana”, prosegue la Maesami, mentre la fila di migranti si allunga di fronte alla chiesa.

L’azione è coordinata da un gruppetto di cui fa parte Laura, 23 anni, studentessa di medicina. Da un mese a questa parte, viene tutte le sere a informare i volontari del giorno, di ogni età e genere. Energica e socialmente impegnata, la studentessa ne ricava una grande soddisfazione personale: “È faticoso ma davvero incredibile, quest’esperienza mi ha permesso di ritrovare motivazione nel mio lavoro”. Il suo impegno non si limita a un sorriso e a un piatto di pasta: Laura parla con i migranti che parlano in inglese – assai rari. È persino rimasta in contatto con un giovane Eritreo, che adesso si trova a Francoforte.

Informazioni nei bagni

Una delle azioni che più stanno a cuore a Patrizia Maesami è informare i migranti sui loro diritti e sulle procedure di asilo. “I migranti raccolgono la maggior parte delle informazioni dagli scafisti e non ricevono che indicazioni sommarie nei centri di prima accoglienza, poiché ne fuggono in tempi brevissimi”, si rincresce.
L’avvocato dedica un’attenzione particolare alle donne, che sono spesso le peggio informate. Arriva a incontrarle nei bagni, al riparo da sguardi indiscreti. “In alcune etnie, i capi del gruppo non spiegano niente alle donne”, spiega Patrizia. Questa madre di famiglia si preoccupa anche di avvertirle dei pericoli che possono correre in Italia, soprattutto per quanto riguarda il problema “da noi molto comune” della prostituzione. Le ragazze sole costituiscono un bersaglio facile per le organizzazioni criminali.

La polemica dei containers

Gli ultimi pasti saranno serviti il 15 settembre. A partire dal 16, la prefettura si prenderà carico delle operazioni. A due chilometri dalla stazione sono stati installati una cinquantina di container che possono contenere fino a 300 persone. Tuttavia, non è stata predisposta alcuna misura a lungo termine.
Il campo, che sarà gestito dalla Croce Rossa, dovrà rimanere chiuso durante la notte; per questa ragione, numerosi osservatori temono che i migranti si rifiuteranno di andarci. Da una parte, ci tengono alla propria libertà di movimento; dall’altra, non riconoscono il ruolo delle autorità, soprattutto in seguito al rimpatrio via aereo a fine agosto di 48 sudanesi che sono stati bloccati alla frontiera franco-italiana.
Il prefetto ha disposto che, una volta aperto il centro di accoglienza, la stazione e il parco siano sgomberati: la presenza dei migranti non sarà più tollerata. Ma, circa due chilometri più in là, la loro situazione non sarà migliore, se non verrà data una risposta globale alla crisi legata ai flussi migratori.