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Recensione a cura del Prof Sandro Mezzadra, Università di Bologna

Die windige Internationale – Un libro di Manuela Bojadzijev

Rassismus und Kämpfe der Migration

“Benvenuto nella Repubblica federale tedesca, Senhor Rodrigues. … Saremmo felici di non essere costretti a non impiegare così tanti stranieri lontano dalla loro patria. Ma ora lei è qui, abbiamo bisogno del suo aiuto, e le cose devono andare bene per lei come appunto vanno, tanto bene quanto un ospite deve aspettarsi. Ricordi solo che i tedeschi pensano in modo un po’ diverso dai portoghesi, e i portoghesi hanno in qualche caso sentimenti diversi dai tedeschi. Non si può fare diversamente. Applauso! In questo senso: ‘Alla lotta, Senhor Rodrigues!’”.

Con queste parole la confederazione degli imprenditori tedesco-federali salutò alla stazione di Colonia nel settembre del 1964 il portoghese Armando Rodrigues de Sá, che del tutto casualmente si era trovato a essere il milionesimo “lavoratore ospite” in arrivo in Germania ovest dopo l’avvio ufficiale, nel 1955, del programma di reclutamento di forza lavoro straniera. Il libro di Manuela Bojadzijev colma una lacuna importante all’interno degli studi che in Germania si sono moltiplicati negli ultimi anni su questo decisivo tornante sulla storia tedesca del secondo dopoguerra: suo obiettivo prioritario consiste infatti nell’avviare una ricostruzione delle lotte e dei movimenti attraverso cui i “lavoratori ospiti” (migranti provenienti da molti Paesi, tra cui l’Italia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia, la Turchia e la Jugoslavia) hanno conquistato spazi e diritti all’interno della Germania federale, contribuendo a trasformarne in profondità la società e la cultura.


Il monito degli imprenditori nel 1964 – “alla lotta, Senhor Rodrigues!” – veniva già allora, e sempre più lo sarebbe stato negli anni successivi, interpretato dai “lavoratori ospiti” in un senso profondamente diverso dall’ingiunzione a piegarsi alla dura disciplina lavorativa e a contribuire silenziosamente al “miracolo economico” nella RFT. Attraverso un meticoloso lavoro d’archivio e molte interviste ai protagonisti, l’autrice porta alla luce un capitolo importante e rimosso della storia tedesca recente, soffermandosi sui processi che condussero le lotte dei e delle migranti a sfociare prima in veri e propri “scioperi selvaggi” autonomi all’interno delle fabbriche (che culminarono in quello del 1973 alla Ford di Colonia, dopo che 300 operai turchi erano stati licenziati per essere ritornati in ritardo dalle vacanze) e poi in movimenti sociali più ampi su temi come la casa, l’istruzione e i permessi di soggiorno.

Nel racconto di Manuela Bojazijev, lo sviluppo di queste lotte si intreccia con la storia della nuova sinistra tedesca degli anni Settanta, che intervenne al loro interno con generosità ed entusiasmo, ma anche sulla base di una concezione della classe operaia che ne dava per scontata l’unità e tendeva a presentare i e le migranti come mere “vittime” e “oggetti” del sistema capitalistico (p. 191). Criticando efficacemente questa concezione, l’autrice pone in evidenza il protagonismo e le pratiche soggettive dei migranti e apporta un importante contributo storiografico allo sviluppo di una teoria dell’“autonomia delle migrazioni”. Al tempo stesso, con un occhio rivolto ai dibattiti contemporanei, sottolinea la complessità e la contraddittorietà del rapporto, che all’interno delle lotte si esprime, tra condizioni strutturali e processi di soggettivazione, insorgenze parziali e costruzione di un orizzonte politico comune di liberazione.

Di grande rilievo sotto il profilo storiografico, Die windige Internationale si propone d’altra parte di intervenire nel dibattito teorico sul razzismo, elaborando di quest’ultimo una “teoria relazionale”, che lo interpreti cioè – per riprendere il titolo del primo capitolo del libro – come “rapporto sociale”. Del razzismo viene messa in evidenza, anche attraverso riferimenti a esperienze storiche diverse da quella tedesca, quali quella statunitense e quella francese, da un lato il nesso strutturale con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, dall’altro la natura “congiunturale”, mutevole e flessibile: le costellazioni del razzismo vanno comprese e criticate, a giudizio dell’autrice, assumendo come punto di riferimento politico e metodologico la materialità delle lotte che ne sfidano la stabilità e gli effetti di dominazione. Anche sotto questo profilo, del resto, il filo rosso seguito da Bojadzijev non è quello di un generico antirazzismo, bensì quello delle “lotte della migrazione”, di “quei conflitti che vanno oltre la mera resistenza contro il razzismo, in cui gli scontri e le critiche non necessariamente si articolano nei termini dell’antirazzismo” (p. 47).


Attraverso un’ampia e preziosa rassegna del dibattito tedesco sul razzismo a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento, l’autrice si sofferma in modo particolare sui contributi che sono stati apportati in una prospettiva di critica dell’ideologia e di teoria dello Stato. E pone d’altra parte in evidenza come progressivamente, sotto l’influenza dei cultural studies anglosassoni, al centro della discussione siano venuti emergendo temi quali la produzione discorsiva delle “razze” e delle “etnie”, la dimensione cognitiva e culturale del razzismo e la rappresentazione delle “identità”. Lungi dal trascurare questi aspetti, Manuela Bojadzijev li valorizza sotto lo stesso profilo della ricerca storiografica da lei condotta. Al tempo stesso, tuttavia, evidenzia con efficacia come la svolta “culturalista” nel dibattito sul razzismo – e in particolare la “politica dell’identità” a essa collegata – finisca paradossalmente per assecondare i dispositivi di produzione di soggettività del razzismo stesso: è quest’ultimo, infatti, a “costringere i soggetti che si battono contro di esso all’interno di ben definite identità” (p. 256).


La “teoria relazionale” proposta in questo importante volume, riprendendo molti spunti dai lavori di Étienne Balibar e di Paul Gilroy, non si limita a sottolineare la capacità di adattamento e la “fluidità” del razzismo. Richiama contemporaneamente l’attenzione sulle dinamiche e sulle forze proprie sviluppate dalle lotte contro di esso, sulla loro “eccedenza” rispetto ai modelli identitari prestabiliti, sul loro costituire un eterogeneo campo di tensioni al cui interno la distruzione del razzismo si pone sempre come possibilità legata a una più generale e radicale trasformazione dell’esistente, alla produzione di nuove condizioni comuni di eguaglianza e libertà.