Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Diniegati e messi alla porta: la Prefettura di Mantova e le revoche dell’accoglienza facili

In seguito all’articolo “Revoche dell’accoglienza e decreti di espulsione ai richiedenti diniegati. Le prassi illegali della Prefettura di Bergamo” abbiamo ricevuto diverse segnalazioni che denunciano prassi analoghe effettuate dalle prefetture di altre città.

Tra queste, la Prefettura di Mantova dal 2015 revoca l’accoglienza dai centri straordinari ai richiedenti protezione che propongono il ricorso di secondo grado, dopo aver ricevuto esito negativo dell’istanza di protezione dal Tribunale ordinario. Con la conversione in legge del decreto n. 13 Minniti-Orlando, tutto ciò, molto probabilmente, diventerà la normalità, ma fino a quando le nuove disposizioni non entreranno in vigore, e quindi per le nuove richieste d’asilo a partire dal 17 agosto, ci sembra utile continuare a sollevare quanto queste prassi siano illegittime e producono degli effetti ben precisi.

Al momento della notifica dell’ordinanza di rigetto del Tribunale”, ci spiega A., una operatrice che ha lavorato fino pochi mesi in alcune strutture nel mantovano, “con uno scarto di qualche settimana dovuto alla triangolazione Tribunale Commissione Prefettura, si presentano al centro i carabinieri per far notificare all’interessato la revoca delle misure dell’accoglienza”. L’operatrice aggiunge che “la prefettura notifica la cessazione anche all’ente gestore, ai carabinieri e al comune. Da quel momento i gestori non vengono più pagati per la presenza della persona”.

I richiedenti, all’arrivo delle forze dell’ordine, non hanno molte scelte e loro malgrado escono dal sistema d’accoglienza, con destinazione la strada o altri ripari temporanei e precari, in attesa dell’udienza di secondo grado. I più fortunati hanno qualche amico o conoscente che li può ospitare, altri, consapevoli di non avere un permesso di soggiorno e impossibilitati a fare ricorso, temono di venire espulsi e raggiungono le grandi città per ingrossare le fila degli invisibili senza alcun diritto.

Molti migranti sanno che l’unica possibilità di lavorare è in nero, anche nel mantovano il comparto agricolo è da tempo affetto dal fenomeno del lavoro sommerso come evidenziato nelle denunce dei sindacati.

La vita dei migranti, dopo la revoca, è di fronte all’ennesimo, difficile, bivio: alcuni di loro possono dirigersi verso nord e cercare fortuna magari in un altro paese europeo, ma la probabilità di venire respinti alla frontiera e sostare nelle città di confine è molto elevata; altri si muovono verso i ghetti del meridione dove attende loro la morsa del caporalato e del lavoro ipersfruttato.

Alcuni enti gestori – precisa però A. – tengono a proprie spese le persone anche per mesi provvedendo a metterli in contatto con un avvocato per il ricorso di appello e al momento dell’uscita fanno un check out dove cercano di venire incontro alle richieste minime di chi deve abbandonare il centro. Gli vengono dati 50 euro, un biglietto del treno, un giaccone se è freddo. Altre cooperative, come Olinda (un ente gestore del quale abbiamo denunciato in un articolo il pessimo operato), semplicemente mettono alla porta senza fornire nulla”.

Questa modalità, eticamente discutibile, è responsabilità diretta della prefettura che attraverso un documento inviato a tutti gli enti gestori del mantovano alla fine di febbraio 2016 impartisce le direttive con le quali intima “che nel caso di rigetto del ricorso di I grado da parte del Tribunale di per sé determina la cessazione del diritto di accoglienza”, aggiungendo che il richiedente “può fare ricorso alla Corte d’Appello” ma “questo ricorso non sospende gli effetti del rigetto.”

Il capoverso si conclude lasciando uno spiraglio che dovrebbe determinare la riammissione in automatico del richiedente in caso di presentazione del ricorso di secondo grado, “Pertanto l’eventuale riammissione in accoglienza potrà avvenire solo nel caso di accoglimento della richiesta di sospensiva del provvedimento impugnato”. Ma ciò non avviene, a conferma che le prassi sono arbitrarie e totalmente discordanti tra le varie prefetture.

L’accoglienza, infatti, dovrebbe essere garantita fino al giudizio di secondo grado perché il richiedente, nel momento in cui fa ricorso, ha il diritto di trattenersi nel territorio dello Stato e al conseguente rilascio di un titolo di soggiorno temporaneo, sino alla definizione del giudizio di appello (si veda, ad esempio, la sentenza della Corte d’appello di Venezia del 10 novembre 2016).

Se fossimo in un paese che rispetta i diritti dei richiedenti protezione internazionale, e che non discrimina in richiedenti di serie A e di serie B (e C, D…), le prefetture applicherebbero per i CAS, senza nessuna arbitrarietà, la circolare dei tempi d’accoglienza all’interno dello SPRAR del 7 luglio 2016: “Nei casi nei quali il richiedente ricorrente impugni il diniego della Commissione territoriale anche in grado di appello, secondo quanto disposto dall’art. 14, co 4 del decreto legislativo 142/2015, il percorso giuridico e amministrativo del beneficiario, anche nella fase del ricorso, non esula dal percorso di accoglienza integrata intrapreso all’interno del circuito dello SPRAR, sia relativamente ai servizi usufruiti che agli obiettivi raggiunti, rispetto ai quali andrà fatta caso per caso idonea valutazione circa l’opportunità e/o la necessità in termini del prosieguo dell’accoglienza”.

A. ci dice che la Prefettura di Mantova interpreta a proprio piacimento un altro nodo critico, quello relativo alla revoca dell’accoglienza per coloro che ottengono una protezione umanitaria. “Fino all’estate 2016 veniva fatto firmare un documento in cui chi riceveva una qualche forma di protezione poteva stare in una lista di attesa per entrare in uno SPRAR”. In effetti ciò dovrebbe avvenire ovunque in Italia, ma i tempi di attesa lunghissimi e i luoghi di destinazione dello SPRAR, alcuni dei quali distanti centinaia di chilometri, avevano trasformato questa opportunità in un incubo. “Chi lavora nel sistema d’accoglienza sa perfettamente che dopo quasi tre anni di soggiorno in un territorio un titolare di protezione ha costruito dei legami sociali e non accetta facilmente un trasferimento in Sicilia, anche se entra in un progetto SPRAR”.

Ma ormai l’ipotesi SPRAR – conclude sconsolata A. – non è nemmeno più presa in considerazione e il titolare di protezione umanitaria è costretto a lasciare il centro da un giorno all’altro”.

E’ un altro atto di arbitrarietà, un’altra prassi illegittima quella contenuta nello schema “Sui tempi di accoglienza e cessazione delle misure d’accoglienza”: questa prevede che al titolare di protezione umanitaria “cessa il diritto alle misure d’accoglienza salvo che l’interessato non presenti ricorso al tribunale, ovvero riproponga domanda in Commissione con nuovi motivi (art. 29 dlg 25/2008)”.

Il caso mantovano non è certo l’unico, quotidianamente le persone richiedenti asilo o con protezione sono messe alla porta da un giorno all’altro senza grosse opportunità e senza un percorso di inclusione alle spalle. Lasciano i centri con qualche ricordo della loro permanenza, la buona volontà di qualche operatore e poco altro.

C’è un esercito di riserva che si sta ingrossando, i cui numeri sono già visibili, una nuova classe di senza diritti e poveri immessi nel mercato del lavoro dalle falle del sistema “d’accoglienza” italiano: essenzialmente si tratta di nuovi invisibili privi di qualsiasi diritto, di nuovi homeless con il permesso di essere degli homeless in Italia, e di “diniegati” con il diritto all’accoglienza, ma messi fuori accoglienza.

Stefano Bleggi

Coordinatore di  Melting Pot Europa dal 2015.
Mi sono occupato per oltre 15 anni soprattutto di minori stranieri non accompagnati, vittime di tratta e richiedenti asilo; sono un attivista, tra i fondatori di Libera La Parola, scuola di italiano e sportello di orientamento legale a Trento presso il Centro sociale Bruno, e sono membro dell'Assemblea antirazzista di Trento.
Per contatti: [email protected]