1. I casi di respingimento e di espulsione. I diritti dei migranti ed i mezzi di ricorso.
La risposta delle autorità italiane durante tutto lo scorso anno, dopo lo scoppio delle cd. primavere arabe, è stato caratterizzato da una pratica diffusa dei cd. respingimenti differiti, con qualche episodio di respingimento in acque internazionali, e quindi una gestione da stato di emergenza delle persone che comunque riuscivano a sbarcare, o erano soccorse in mare, con sistemi paralleli di accoglienza dai CARA, centri di accoglienza per rifugiati ai centri di accoglienza ex legge Puglia, dai centri di prima accoglienza e soccorso, CPSA, come quello di Contrada Imbriacola a Lampedusa, fino alle nuove“strutture ponte“ nelle quali centinaia di minori non accompagnati sono stati tenuti in stato di abbandono, senza che qualcuno rilasciasse loro i documenti necessari per evitare che al compimento die diciotto anni diventassero irregolari e fossero quindi costretti alla clandestinità. Una politica nefasta che continua a produrre effetti devastanti ancora oggi, a mesi dalla fine degli sbarchi di massa, cessati nel mese di settembre 2011, che vede negato dalle commissioni territoriali persino il diritto alla protezione umanitaria a quanti erano costretti a partire dalla Libia dalle violenze della guerra civile, ed all’ultimo dalle forze rimaste fedeli a Gheddafi. Una politica che ha avuto come strumento privilegiato l’istituto del respingimento differito che rispetto all’espulsione offre minori garanzie di ricorso e risulta di esecuzione più semplice, al limite di configurare piuttosto di frequente veri e propri casi di allontanamento forzato (removal) collettivo, vietato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art.19) e dall’art. 4 del Protocollo n. 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia die diritti dell’Uomo. La recente condanna subita dall’Italia sul caso Hirsi non riguarda dunque il passato, ma fornisce una chiave di lettura importante per valutare gli abusi che sono stati commessi dalle autorità italiane fino al mese di novembre del 2011, abusi sui quali in diverse procure italiane sono stati presentati esposti e denunce.
Secondo l’art.10 primo comma, del Testo unico sull’immigrazione 286 del 1998,. la polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti dal T.U. per l’ingresso nel territorio dello Stato. Questo è il respingimento immediato che si può configurare ,in assenza di un provvedimento amministrativo formale, anche come un atto materiale, tendente ad impedire ad una persona priva di regolari documenti, come visto o permesso di soggiorno, l’ingresso nel territorio dello stato. Di norma ricorre anche l’obbligo del vettore, che ha trasportato la persona respinta, a riprenderla a bordo del mezzo per riaccompagnarla nel porto o nell’aeroporto di provenienza. In questi casi, come si verifica nei porti e negli aeroporti internazionali come Fiumicino o Malpensa, i migranti irregolari vengono“affidati“ dalla polizia al comandante della nave o dell’aereo che provvede ad adottare le conseguenti misure di sicurezza, che spesso si traducono in forme della restrizione della libertà personale che non rispettano la dignità dell’individuo, come l’ammanettamento, l’uso di caschi, o la restrizione in cabine-prigione. Questi“affidamenti“ sono da anni la prassi ai valichi portuali di Bari, Ancona, e Venezia dove arrivano sui traghetti provenienti dalla Grecia potenziali richiedenti asilo come irakeni ed afghani, spesso minorenni, che in questo modo vengono sommariamente respinti, con le stesse navi sulle quali si sono imbarcati, verso i porti di partenza. Nel caso di diverse decine di respingimenti effettuati verso la Grecia nel 2009 le autorità italiane, nella replica ad un ricorso presentato alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, hanno asserito che l’accordo di riammissione stipulato con la Grecia nel 1999 consentirebbe proprio questi tipi di respingimenti “senza formalità“. A leggere bene però il testo degli accordi, soprattutto negli allegati, sono previsti vari adempimenti formali che nella prassi non vengono mai rispettati. Ma di questo dovrebbe finalmente occuparsi la Corte Europea dei diritti dell’Uomo davanti alla quale, da tre anni, è stato proposto un ricorso, senza che vi sia stata ancora la decisione finale (1).
Esiste poi, al secondo comma dello stesso articolo 10, la diversa previsione del cd. respingimento differito che si applica dopo che lo straniero, anche per ragioni di soccorso, ha fatto ingresso nel territorio dello stato senza i documenti richiesti ( passaporto e visto, non richiesto solo per alcuni paesi). Il respingimento con accompagnamento alla frontiera è disposto dal questore nei confronti degli stranieri che entrando nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all’ingresso o subito dopo, oppure che, senza validi documenti sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso. Si prevede anche l’assistenza necessaria presso i valichi di frontiera e che i respingimenti, immediati o differiti, siano registrati dall’autorità di pubblica sicurezza. Appare evidente come in molti casi il cd. respingimento differito, soprattutto quando poi si verifica ( ed a maggior ragione se si è già verificato in precedenza) il trattenimento amministrativo, magari per intere settimane, risulta un succedaneo dell’espulsione. La scelta tra i due strumenti, che portano entrambi all’allontanamento forzato dal territorio, è sostanzialmente rimessa, alla discrezionalità delle autorità di polizia, che può adottare procedure più rapide nei casi di respingimento, magari prospettando ai migranti la circostanza che, dopo l’esecuzione del respingimento, non scatterebbero i divieti di reingresso nell’area Schengen sanciti per tutti coloro che risultano destinatari di un provvedimento di espulsione (2). Tuttavia sono rarissimi i casi di immigrati destinatari di un provvedimento di respingimento differito che successivamente siano riusciti a rientrare in Italia con un visto di ingresso per ragioni di lavoro.
La disciplina del respingimento rimane molto lacunosa e le pratiche di allontanamento forzato sono stabilite sulla base di determinazioni discrezionali delle autorità di polizia, che sarebbero tenute, in ogni caso di limitazione della libertà personale, a rispettare l’art.13 della Costituzione, che impone una convalida giurisdizionale entro 96 ore dall’inizio della misura restrittiva, e poi tutte le norme, regolamento di attuazione incluso, che disciplinano la detenzione amministrativa. Risulta comunque assai alto il rischio che la persona destinataria di un provvedimento di respingimento differito possa essere accompagnata in frontiera senza avere avuto la possibilità di nominare un avvocato di fiducia, e di esercitare quindi in modo effettivo i diritti di difesa, e lo stesso diritto alla protezione internazionale. Assume quindi una particolare importanza la previsione del comma 4 dello stesso articolo 10 del T.U. sull’immigrazione che si collega ai divieti di espulsione e di respingimento sanciti dall’art. 19 dello stesso testo unico. Sia il respingimento immediato che il respingimento cd. differito non si possono praticare nei casi, previsti dalle disposizioni vigenti e già esaminati in precedenza, che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari. E‘ inoltre vietato espellere o respingere in forntiera i minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi, le donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio cui provvedono, degli stranieri conviventi con parenti entro il secondo (3) grado o con il coniuge, di nazionalità italiana. Con il nuovo comma 2 bis dell’art. 19, introdotto dalla legge n.129 del 2 agosto 2011, si prevede inoltre che il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione di persone affette da disabilita’, degli anziani, dei minori, dei componenti di famiglie monoparentali con figli minori nonchè dei minori, ovvero delle vittime di gravi violenze psicologiche, fisiche o sessuali siano effettuate con modalita’ compatibili con le singole situazioni personali, debitamente accertate. La previsione sembra però introdurre la possibilità di allontanare con accompagnamento forzato, seppure a condizioni particolari, rimesse peraltro a valutazioni di autorità amministrative, anche i minori non accompagnati, in contrasto con quanto fin qui previsto dalla vigente normativa italiana, in accordo con tutte le convenzioni internazionali, e con la prassi giurisprudenziale consolidata negli anni, dalle quale emerge con chiarezza il divieto assoluto di espulsione e espingimento di minori non accompagnati nei paesi di origine.
L’art. 13 della Costituzione, gli articoli 10, 13 e 14 del Testo Unico sull’immigrazione, e le corrispondenti previsioni del regolamento di attuazione stabiliscono precise garanzie in favore dei migranti irregolari nelle diverse fasi di allontanamento forzato dal territorio. Hanno tutti diritto alla notifica di un provvedimento scritto in una lingua che possano comprendere o almeno in una lingua veicolare, con la indicazione dell’autorità giudiziaria presso la quale presentare un ricorso, e dunque esiste un preciso diritto al controllo da parte del giudice sulla legittimità del provvedimento di allontanamento forzato, ed alle modalità ed ai tempi del trattenimento amministrativo in vista del respingimento differito o dell’espulsione. Se i provvedimenti di respingimento differito vengono disposti ed eseguiti nell’arco di 48-96 ore dal momento dell’inizio del trattenimento, ma secondo le Questure questo termine decorrerebbe solo dalla data del decreto di respingimento, lo straniero è privato del tutto dei diritti di difesa, anche se è stato trattenuto per settimane in un regime di totale limitazione della libertà personale, come è accaduto nel corso del 2011 nel CPSA dell’isola di Lampedusa ed in altri centri di accoglienza/detenzione ubicati in varie parti d’Italia. Tali provvedimenti, inoltre, hanno natura recettizia: essi acquistano, cioè efficacia solo dal momento della loro notifica al destinatario. Spesso si è verificato che i provvedimenti adottati dai questori non venissero notificati tempestivamente, ma solo all’ultimo momento prima della partenza del volo di rimpatrio. Diverse strutture che sarebbeo state destinate a svolgere attività di accoglienza, a Manduria in Puglia, come a Kinisia a Trapani, o a Santa Maria Capua Vetere in Campania, sono state utilizzate per trattenere migranti in stato di detenzione amministrativa in assenza di provvedimenti formali che potessero giustificare il trattenimento, in ogni caso ben oltre i termini della prima assistenza dopo il soccorso in mare. Non si possono neppure utilizzare le esigenze di accoglienza immediata per protrarre a tempo indeterminato una condizione di detenzione amministrativa in assenza di provvedimenti formali, come si è verificato spesso lo scorso anno nell’isola di Lampedusa ed in altri centri di identificazione ed espulsione temporanei (CIET). Il decreto di trattenimento dell’immigrato, comunque privato della libertà personale dopo il suo ingresso irregolare nel territorio dello stato, deve essere comunicato al Giudice di Pace entro 48 ore dalla applicazione della misura restrittiva, anche in assenza di un provvedimento . Il Giudice di Pace, verificati i requisiti formali, convalida il detto provvedimento entro le successive 48 ore (artt. 13, co. 5 bis e 14, co. 4, D.Lgs. 286/98). La mancata convalida rende inefficace l’ordine di trattenimento emesso dal Questore e l’immigrato deve essere rimesso immediatamente in libertà. L’articolo 13 della Costituzione non è derogabile in alcun caso e qualsiasi limitazione della libertà personale praticata dalle autorità di polizia va sottoposta ad una tempestiva convalida giurisdizionale.
La normativa comunitaria detta una disciplina dei respingimenti più dettagliata di quella nazionale. L’art. 13 del Codice delle frontiere Schengen indica chiaramente cosa si intende per respingimento alle frontiere esterne e quali sono le formalità che le autorità amministrative devono adottare. In base a questa normativa, direttamente vincolante nell’ordinamento giuridico italiano, trattandosi di un regolamento comunitario,“sono respinti dal territorio degli Stati membri i cittadini di paesi terzi che non soddisfino tutte le condizioni d’ingresso previste dall’articolo 5, paragrafo 1, e non rientrino nelle categorie di persone di cui all’articolo 5, paragrafo 4. Ciò non pregiudica l’applicazione di disposizioni particolari relative al diritto d’asilo e alla protezione internazionale o al rilascio di visti per soggiorno di lunga durata. Il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. Il provvedimento è adottato da un’autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è d’applicazione immediata. Il provvedimento motivato indicante le ragioni precise del respingimento è notificato a mezzo di un modello uniforme, compilato dall’autorità che, secondo la legislazione nazionale, è competente a disporre il respingimento. Il modello uniforme compilato è consegnato al cittadino di paese terzo interessato, il quale rilascia ricevuta del provvedimento a mezzo del medesimo modello uniforme.
In base allo stesso regolamento Schengen n. 562 del 2006 ( articolo 13 comma 3), le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. Non si garantisce tuttavia alcun effetto sospensivo, come poi si verifica anche nella Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, che anche per questo motivo era stata definita la “direttiva della vergogna”. I ricorsi sono dunque disciplinati conformemente alla legislazione nazionale e in Italia l’allontanamento forzato può essere eseguito dalla polizia prima che un giudice possa pronunciarsi. In base all’art.13 dello stesso Regolamento, al cittadino di paese terzo che è sottoposto alla procedura del respingimento sono altresì consegnate indicazioni scritte riguardanti punti di contatto in grado di fornire informazioni su rappresentanti competenti ad agire per conto del cittadino di paese terzo a norma della legislazione nazionale. In ogni caso, fatto salvo qualsiasi indennizzo concesso a norma della legislazione nazionale, il cittadino di paese terzo interessato ha diritto a che lo Stato membro che ha proceduto al respingimento rettifichi il timbro di ingresso annullato e tutti gli altri annullamenti o aggiunte effettuati, se in esito al ricorso il provvedimento di respingimento risulta infondato. Gli agenti di polizia in frontiera vigilano affinché un cittadino di paese terzo oggetto di un provvedimento di respingimento non entri nel territorio dello Stato membro interessato e gli Stati membri raccolgono statistiche sul numero di persone respinte, sui motivi del respingimento,sulla cittadinanza delle persone respinte e sul tipo di frontiera (terrestre, aerea, marittima) alla quale sono state respinte. Gli Stati membri trasmettono annualmente tali statistiche alla Commissione. La Commissione pubblica ogni due anni una compilazione delle statistiche fornite dagli Stati membri.
Tutto può dirsi dei respingimenti, dunque, salvo che siano provvedimenti che possano essere adottati senza formalità, come risulta altresì evidente che i respingimenti dei quali tratta il regolamento comunitario sulle frontiere sono i respingimenti immediati in frontiera e non certo i respingimenti differiti adottati con provvedimento del questore dopo che la persona ha fatto ingresso nel territorio nazionale.
Il Codice delle frontiere Schengen non disciplina specificamente il respingimento delle persone che si presentano alle frontiere interne, quale che sia la loro nazionalità è affermato infatti il principio della libertà di circolazione anche per i cittadini di paesi terzi, salvo che accordi bilaterali di riammissione, come quello stipulato tra Italia e Grecia nel 2009, o disposizioni di diritto interno, non prevedano espressamente il respingimento in frontiera, che in questo caso viene definito come “procedura di riammissione” nel paese di provenienza.
A seconda dei casi, l’autorità amministrativa, piuttosto che adottare un provvedimento di respingimento differito, può ricorrere all‘espulsione. A Trapani, lo scorso anno, è successo persino che, dopo la mancata convalida di due provvedimenti di respingimento differito il Prefetto abbia disposto una espulsione a carico della stessa persona che, a quel punto, avrebbe dovuto essere rimessa in libertà.
Secondo l’art. 13 del T.U. sull’immigrazione n. 286 del 1998, il provvedimento di espulsione amministrativa può essere disposto dal Prefetto quando lo straniero: a) è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera e non è stato respinto ai sensi dell’articolo 10; b) si e’ trattenuto nel territorio dello Stato in assenza della comunicazione di cui all’articolo 27, comma 1-bis, o senza aver richiesto il permesso di soggiorno nel termine prescritto, salvo che il ritardo sia dipeso da forza maggiore, ovvero quando il permesso di soggiorno e’ stato revocato o annullato, ovvero e’ scaduto da più di sessanta giorni e non ne e’ stato chiesto il rinnovo. La stessa norma (art. 13), nella formulazione modificata dalla legge 129 del 2 agosto 2011, prevede poi che l’espulsione è (…) eseguita dal questore con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica: b) quando sussiste il rischio di fuga, di cui al comma 4-bis; c) quando la domanda di permesso di soggiorno è stata respinta in quanto manifestamente infondata o fraudolenta; d) qualora, senza un giustificato motivo, lo straniero non abbia osservato il termine concesso per la partenza volontaria, di cui al comma 5; e) quando lo straniero abbia violato anche una delle misure di cui al comma 5.2 e di cui all’articolo 14, comma 1-bis; f) nelle ipotesi di cui agli articoli 15 e 16 e nelle altre ipotesi in cui sia stata disposta l’espulsione dello straniero come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale; g) nell’ipotesi di cui al comma 5.1.
Sia nei casi di respingimento differito adottato dal questore, che nel caso di espulsione disposta dal Prefetto, lo stesso Questore può disporre il trattenimento in un Centro di identificazione ed espulsione (CIE), ai sensi dell’art. 14 del t.U. sull’immigrazione. Si riscontra in questi casi un ulteriore ampliamento della sfera di discrezionalità amministrativa che incide pesantemente sulle misure di accompagnamento forzato in frontiera. Infatti. in base al nuovo articolo 4 bis aggiunto con la legge 129 del 2011, si può configurare il rischio di fuga di cui al comma 4, lettera b) che rende necessario la procedura dell’accompagnamento forzato e dunque può richiedere un più frequente ricorso alla detenzione amministrativa, qualora ricorra almeno una delle seguenti circostanze da cui il prefetto accerti, caso per caso, il pericolo che lo straniero possa sottrarsi alla volontaria esecuzione del provvedimento di espulsione: a) mancato possesso del passaporto o di altro documento equipollente, in corso di validità; b) mancanza di idonea documentazione atta a dimostrare la disponibilita’ di un alloggio ove possa essere agevolmente rintracciato; c) avere in precedenza dichiarato o attestato falsamente le proprie generalita’; d) non avere ottemperato ad uno dei provvedimenti emessi dalla competente autorita’, in applicazione dei commi 5 e 13, nonché dell’articolo 14; e) avere violato anche una delle misure di cui al comma 5.2. Si tratta evidentemente di casi che ricorrono molto frequentemente rendendo del tutto residuale le ipotesi di rimpatrio volontario, in contrasto con quanto previsto dalla Direttiva comunitaria sui rimpatri 2008/115/CE (4). Il questore dispone l’accompagnamento immediato alla frontiera dell’immigrato irregolare, qualora il prefetto rilevi il concreto pericolo che quest’ultimo si sottragga all’esecuzione del provvedimento.
Dopo le modifiche apportare dalla legge n.129 del 2011 una elevata discrezionalità ricorre anche in tutti gli altri casi di allontanamento. Lo straniero, destinatario di un provvedimento d’espulsione, qualora non ricorrano le condizioni per l’accompagnamento immediato alla frontiera, potrà chiedere al prefetto, ai fini dell’esecuzione dell’espulsione, la concessione di un periodo per la partenza volontaria, anche attraverso programmi di rimpatrio volontario ed assistito. Il prefetto, valutato il singolo caso, con lo stesso provvedimento di espulsione, intima lo straniero a lasciare volontariamente il territorio nazionale, entro un termine compreso tra 7 e 30 giorni. In questo caso possono essere imposte misure limitative della libertà di circolazione, come il soggiorno obbligato, l’obbligo di firma o la consegna del passaporto che devono essere convalidate dal giudice di pace. Ma le convalide si fanno in Questura, con avvocati di ufficio scelti dalla polizia e senza alcuna possibilità di difesa effettiva, con gravi lesioni del principio del contraddittorio e dei diritti di difesa che le sentenze della Corte Costituzionale ribadiscono quando la persona è trattenuta in un centro di identificazione ed espulsione. Il termine per la partenza volontaria potrà essere prorogato, ove necessario, per un periodo congruo, commisurato alle circostanze specifiche del caso individuale, quali la durata del soggiorno nel territorio nazionale, l’esistenza di minori che frequentano la scuola ovvero di altri legami familiari e sociali, nonchè l’ammissione a programmi di rimpatrio volontario ed assistito. La questura, acquisita la prova dell’avvenuto rimpatrio dello straniero, avvisa l’autorita’ giudiziaria competente per l’accertamento del reato previsto dall’articolo 10-bis, ai fini di cui al comma 5 del medesimo articolo.
La sommarietà e la rapidità delle procedure di allontanamento forzato, soprattutto dopo i cd. sbarchi, possono determinare casi di respingimento o espulsione collettivi. La previsione dell’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui “ in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione” le espulsioni collettive sono vietate, ha carattere vincolante come il quarto Protocollo addizionale allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell‘uomo . Come ha carattere vincolante, per i paesi membri dell’Unione Europea, la successiva previsione dell’art. 19 comma secondo, in base al quale”nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti. Anche in questo casa la Carta dei diritti fondamentali recepisce un principio fondamentale dettato dall’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo (5). La Corte Europea dei Diritti dell’Uomodi Strasburgo ha ritenuto come espulsioni collettive una serie di provvedimenti individuali contro persone della stessa nazionalità che si trovavano nella stessa situazione di soggiorno irregolare, a partire dal nel caso Conka/Belgio con una sentenza emessa il 5 maggio 2002 (6). Secondo i giudici della CEDU, non solo occorre che l’espulsione sia convalidata dall’ autorità giudiziaria sulla base di elementi prettamente individuali, ma si tiene in considerazione anche il contesto in cui tale espulsione viene attuata (7).
Il provvedimento di espulsione, al pari del decreto di respingimento differito, e le relative convalide dei giufidici di pace, devono avere carattere individuale e recare motivazioni specifiche per ciascun caso. Non sarebbero comunque consentite motivazioni formali o stereotipe, anche se nella prassi di fa largo uso di formulari uniformi, magari con qualche casella da barrare. Di fronte alle nuove formalità imposte dalla Direttiva sui rimpatri (2008/115/CE) e dopo la sentenza della Corte di Giustizia sul caso El Dridi del 26 aprile 2011, si è assistito ad una proliferazione di espulsioni collettive, senza provedimento formale o con la forma dei “respingmenti differiti” adottati dai questori con provvedimenti assolutamente identici. Quando gli accordi bilaterali o le intese di polizia lo hanno consentito, le autorità hanno cercato di allontanare nel più breve tempo possibile i migranti arrivati sul territorio nazionale, anche prima di una completa idenitificazione da parte delle rappresentanze consolari che, sulla base delle nuove intese operative elaborate dai ministeri dell’interno a margine degli accordi di riammissione, si limitano ad attribuire una nazionalità alla persona da rinviare in frontiera. La vera identificazione avviene solo al momento dell’arrivo nel paese di (presunta) origine, magari con le maniere forti, e non sono mancati casi di cittadini stranieri che sono stati “restituiti” al nostro paese perché di cittadinanza diversa da quella accertata dalle autorità consolari. E anche quando sono adottate procedure di trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione, dunque con modalità di identificazione che comprendono rilievi fotografici e dattiloscopici, le modalità e la mancata motivazione individuale della convalida hanno denotato tutti quei caratteri uniformi che nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ricorrono quando si tratta di espulsioni collettive (8), vietate a livello internazionale e comunitario.
L’art. 4 del Protocollo Addizionale n. 4 alla Convenzione Europea dei diritti umani vieta le espulsioni collettive di stranieri, che, in base alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani, come verificabile da ultimo con la sentenza sul caso Hirsi e altri contro Italia del 23 febbraio scorso, si verificano tutte le volte in cui non viene presa in considerazione la situazione individuale della persona sottoposta alla misura di allontanamento forzato, a maggior ragione in tutti i casi nei quali non si provveda ad una identificazione certa, come è avvenuto sistematicamente nei confronti die rimpatri disposti nel 2011 verso la Tunisia e l’Egitto. La violazione del divieto delle espulsioni collettive perpetrate attraverso procedimenti sommari di identificazione, e talora di attribuzione della nazionalità, mette a rischio altresì il rispetto del principio di non refoulement, affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951. Sotto il termine di refoulement, alla luce della Convenzione si ritiene che vadano comprese tutte le ipotesi di allontanamento forzato, sia che assumano la forma e la denominazione di respingimenti, sia che si tratti di espulsioni vere e proprie. In particolare la circostanza che nel caso dei cd. respingimenti differiti la misura di rimpatrio si adotti nei confronti di una persona che è entrata comunque da tempo nel territorio nazionale ed è mantenuta in stato di totale limitazione della libertà personale, rende evidente che gli strumenti di tutela non possono essere meno efficaci di quelli accordati in caso di espulsione, restando altrimenti rimesso alla autorità amministrativa un potere incontrollabile nella scelta del provvedimento di allontanamento da adottare, con gravi conseguenze sulla possibilità di fare valere effettivamente i diritti di difesa e lo stesso diritto di chiedere una qualsiasi forma di protezione (9).
A livello internazionale, alle espulsioni collettive sono quindi equiparati i respingimenti collettivi, peraltro ricompresi nel termine “allontanamento”, oppure removal, comprensivo anche del termine”espulsione”. In assenza di un riconoscimento individuale della persona anche il respingimento può comportare una lesione del principio di non refoulement affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra e del divieto di tortura e trattamenti inumani, sancito dall’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Dunque, non solo occorre che l’espulsione sia convalidata dall’autorità giudiziaria sulla base di elementi prettamente individuali, ma si tiene in considerazione anche il contesto in cui tale espulsione viene attuata. Il divieto di espulsione collettiva di cui all`art. 4 del IV protocollo addizionale alla CEDU comprende “ quelle espulsioni adottate nei riguardi di un gruppo di stranieri senza che per ciascuno di essi venga svolto esame ragionevole ed obiettivo delle ragioni e delle difese di ciascuno innanzi all`Autorità competente”. La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha inoltre considerato come espulsioni collettive una serie di provvedimenti individuali contro persone della stessa nazionalità che si trovavano nella medesima situazione di soggiorno irregolare.
Si rammenta in proposito la Risoluzione adottata dal Parlamento Europeo il 14 aprile 2005 ha criticato i respingimenti collettivi da Lampedusa verso la Libia nei mesi precedenti, malgrado interventi cautelari della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Nel 2004 e nel 2005, l’Italia altresì non ha mai risposto alla richiesta della Corte Europea dei diritti umani, che voleva acquisire copia dei provvedimenti di allontanamento forzato da Lampedusa succedutisi a partire dall’ottobre del 2004 dopo la grande evidenza mediatica del caso Cap Anamur nell’estate dello stesso 2004. Ed anche nei casi di respingimenti collettivi portati davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel 2009, per i respingimenti verso la Libia ( caso Hirsi) e verso la Grecia (caso Sharifi), le autorità italiane non hanno mai fornito la documentazione richiesta, limitandosi ad attaccare gli avvocati che avevano raccolto le procure necessarie per i ricorsi, fino al punto da metterne in dubbio l’attendibilità. Un metodo di difesa questo, diventato ormai abituale, per i governi chiamati a rendere conto dei respingimenti collettivi davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Un espediente che appare tanto più deprecabile in quanto si basa sull’aspettativa che i ricorrenti, costretti alla clandestinità in paesi di transito che non garantiscono i diritti fondamentali della persona, vengano deportati in luoghi dai quali non possano più raggiungere i loro avvocati, o scompaiano, o siano fatti scomparire, prima che la Corte Europea possa pronunciarsi sui ricorsi.
2. Emergenza Nord Africa: tra prassi illegittime e accoglienza differenziata
Nella Gazzetta Ufficiale n.199 del 2 maggio 2011 veniva pubblicata l’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri (OPCM) n. 3935 del 21 aprile 2011 nella quale si individuano tre nuovi “centri di identificazione ed espulsione temporanei”. L’ordinanza conteneva “ulteriori disposizioni urgenti dirette a fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria nel territorio nazionale in relazione all’eccezionale afflusso di cittadini appartenenti ai paesi del Nord Africa”. I nuovi CIET (Centri di identificazione ed espulsione temporanei) sono stati ubicati nei comuni di Santa Maria Capua Vetere, di Palazzo San Gervasio e di Trapani localita’ Kinisia, dove peraltro già esistono due centri di detenzione,il vecchio Vulpitta, e la nuova struttura in località Milo, aperta solo nel 2011 e ancora al centro di contese sulla sua gestione (10). Si è verificata dunque,la trasformazione dei centri di accoglienza in centri di detenzione, una operazione che mirava ed evacuare Lampedusa ed a ratificare gli abusi commessi inprecedenza. Un operazione di contenimento e di smaltimento che il governo Monti ha prorogato per tutto il 2012, per prepararsi ai prevedibili arrivi, quando il tempo migliorerà. Ma molto dipenderà dagli accordi bilaterali che il governo italiano dovrebbe rinegoziare con i paesi della sponda sud del Mediterraneo, piuttosto che mantenere ancora quelli conclusi con dittatori del calibro di Gheddafi e Moubarak. Purtroppo in questo campo sembra prevalere ancora, però, il segno della continuità. Dopo la decisione del governo Berlusconi, a seguito delle rivolte di Lampedusa del 20 settembre 2011, di non fare sbarcare migranti sull’isola, ritenuta porto non sicuro, le pche decine di immigrati sbarcati nel 2012 sono stati condotti in strutture diverse ubicate in Sicilia. Mentre il nuovo governo ha confermato la chiusura defintiva dei centri di Lampedusa, a Caltanissetta sono terminati i lavori di ristrutturazione dl vecchio CIE di Pian del lago, dove potrebbero essere rinchiusi gli irregolari provenienti da Lampedusa.
Potrebbe ancora verificarsi dunque la riapertura della tendopoli/Cie di Kinisia a Trapani, dopo che nel 2011 persino il CARA di Salina Grande è stato impropriamente utilizzato anche a fini detentivi, come nel caso delle decine di tunisini richiusi per settimane nella sala palestra in attesa dell’esecuzione delle misure di allontanamento forzato. Su richiesta del ministero dell’interno e “di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze” si è così disposta l’attivazione dei tre nuovi centri di detenzione amministrativa. Secondo l’ordinanza PCM n. 5835, “Al fine di trattenere gli stranieri che non si trovano nelle condizioni di accoglienza di cui all’art. 2 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 aprile 2001, le strutture temporanee gia’ esistenti, attivate per l’accoglienza dal Commissario delegato per l’emergenza umanitaria di cui alle ordinanze del Presidente del Consiglio n. 3924 del 18 febbraio 2011 e n. 3925 del 23 febbraio 2011 articolo 17, nel comune di Santa Maria Capua Vetere (CE) – Caserma Fornaci e Parisi (ex Andolfato), nel comune di Palazzo San Gervasio (PZ) e nel comune di Trapani localita’ Kinisia, operano, a far data dalla presente ordinanza e fino a cessate esigenze, e comunque non oltre il 31dicembre 2011, come centri di identificazione e di espulsione nel numero massimo di 500 posti da ripartire nelle predette strutture. Il termine è stato adesso prorogato dal nuovo governo fino al 31 dicembre 2012, anche se a fronte della interruzione degli sbarchi le strutture sono ancora vuote. Ma è pronto per la riapertura il CIE di Pian del Lago, a Caltanissetta.
L’ordinanza PCM n.5835 veniva adottata quando si trattava di modificare contemporaneamente la condizione giuridica di un luogo, e quella delle persone che vi erano state rinchiuse, dopo esere state trattenute per settimane a Lampedusa, e dopo un lungo trasferimento su una nave prigione (11) . Il traghetto partito da Lampedusa, il 12 aprile 2011 con 323 persone a bordo provenienti dall’Africa del Nord, attraccava il 18 aprile 2011 nel porto di Napoli. Di questi, circa 250 (dopo essere stati assistiti da forze dell’ordine e personale della Croce Rossa) venivano accompagnati, in pullman, nella grande tendopoli allestita nel Casertano nell’ex caserma dell’Esercito “Ezio Andolfato” di Santa Maria Capua Vetere . Invero, solo il 23 aprile 2011 ai migranti trasferiti da Lampedusa veniva notificato il provvedimento di respingimento alla frontiera con accompagnamento forzato e l’ordine del Questore di trattenimento presso il suddetto centro, dopo ben 5 giorni di illegittima detenzione, e solo a partire dal 23 aprile si avviavano le procedure di convalida degli ordini di trattenimento da parte del Giudice di Pace di Santa Maria Capua Vetere. Sino alla data del 21 aprile, giorno in cui il centro è stato formalmente istituito come Cie, dopo i giorni trascorsi a Lampedusa e sulla nave traghetto, i migranti venivano trasferiti e trattenuti in luoghi privi di uno stato giuridico definito; e il loro trattenimento per effetto di una prassi riconducibile ad un esercizio arbitrario di discrezionalità amministrativa, si era dunque protratto senza alcun titolo (12).
Soltanto in data 21 aprile 2011 veniva emessa l’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri (OPCM n. 3935 del 21.04.2011) che ha istituito in via temporanea il C.I.E. Di Santa Maria Capua Vetere presso la già citata Caserma. Solo da tale momento, è stato reso possibile ad associazioni ed enti accreditati, con l’ausilio di avvocati specializzati, di poter fare ingresso nella “struttura”. Come ricorda l’avv. Valle, da tale momento, “i volontari, i mediatori ed i legali degli enti – pastorale dei Migranti della Diocesi di Caserta, Caritas,Comitato per il Centro Sociale, hanno potuto intervistare le 220 persone ivi rinchiuse e potuto constatare che tra loro ci sono numerose persone con requisiti tali da poter chiedere forme di “protezione Internazionale” o in alternativa, di avvalersi della possibilità di chiedere un permesso temporaneo ex D.P.C.M. 05/04/2011 in quanto bisognose di una protezione umanitaria. Dunque, a seguito dei colloqui personali svolti dai rappresentanti delle associazioni accreditate con i cittadini stranieri, viene manifestata la volontà di avanzare richiesta di protezione internazionale ovvero un permesso di soggiorno temporaneo. Da considerare che tale volontà ha avuto manifestazione verbale soltanto in data 21/04/2011 perché fino ad allora gli stranieri, rinchiusi nell’area , non erano stati edotti circa i loro diritti e non erano stati messi in condizione di manifestare formalmente tale volontà. In data 21 aprile, con l’ausilio delle associazioni di cui sopra che tutelano i diritti dei migranti e degli avvocati che collaborano con esse, vengono formalizzate le richieste di protezione internazionale e di permesso di soggiorno temporaneo e viene richiesto alla Questura di Caserta di voler provvedere alla ricezione delle stesse. Contestualmente vengono offerte ai cittadini stranieri informazioni legali di base e la disponibilità di avvocati specializzati in diritto delle migrazioni e dei diritti umani. Ma soltanto in data 22/04/2011, alle ore 20 circa, la Questura accorda la possibilità di proporre le richieste di cui sopra. Vista l’ora tarda, i lavori di ricezione delle stesse vengono sospesi e ripresi il giorno successivo (23/04/2011) ma con l’indicazione di ricevere le domande solo contestualmente alla notifica agli interessati del provvedimento di respingimento alla frontiera notificato in uno all’ordine di trattenimento presso il C.I.E. di Santa Maria Capua Vetere, come da O.P.C.M., e contestualmente alla udienza di convalida dello stesso di fronte al giudice di pace. La manifestazione di volontà di richieder la protezione internazionale, ovvero il permesso di soggiorno temporaneo aveva avuto luogo dunque ben prima della notifica dei provvedimenti di respingimento e trattenimento pertanto i trattenuti avevano già mutato il loro status in soggetti bisognosi di una protezione, pertanto, dopo il soccorso in mare, dal momento della richiesta di protezione internazionale sono sottoposti al divieto di respingimento ovvero di espulsione“ (13) .
Con lo stesso espediente adottato a Lampedusa e negli altri centri siciliani, il ritardo nella formalizzazione della domanda di asilo consentiva l’adozione del provvedimento di respingimento differito, ed a quel punto il gioco era fatto, anche l’immigrato richiedente asilo poteva essere trattenuto in un centro di detenzione amministrativa, piuttosto che essere trasferito in un CARA ( centro di accoglienza per richiedenti asilo).
In questo caso, l’improvvisazione e la sicurezza dell’impunità determinavano gravi abusi. Secondo gli avvocati che presentavano un esposto in Procura, “le udienze di convalide degli ordini di trattenimento, svolte all’interno del CIE, hanno avuto inizio il mattino di sabato 23/04/2011 e sono state celebrate una dopo l’altra ininterrottamente ed inspiegabilmente sino alle ore 3.00 circa del mattino successivo, giorno di Pasqua, per poi riprendere nella mattinata del 25 Aprile. Gli avvocati difensori di fiducia degli stranieri sono stati costretti a proseguire le udienze sino a notte fonda in quanto, qualora si fossero legittimamente assentati, dopo più di dieci ore di lavoro ininterrotto, sarebbero stati illegittimamente sostituiti da un avvocato d’ufficio presente all’interno del CIE. In numerosi procedimenti l’avvocato d’ufficio ha illegittimamente sostituito il difensore di fiducia comunque presente nei pressi dell’aula di udienza. Tale incredibile modo di svolgere le udienze di convalide, come agevolmente si evince dagli orari dei verbali di udienza delle convalide e dalle nomine dei difensori d’ufficio, è certamente e totalmente lesivo del diritto di difesa. Gli avvocati di fiducia sono stati costretti ad operare in condizioni disumane. Nonostante i difensori nominati avessero fatto presente l’illegittimità delle operazioni, sono stati costretti a continuare ad libitum le udienze pur di non essere sostituiti, come in alcuni casi è avvenuto, dalla difesa d’ufficio .
Il Giudice di Pace di Santa Maria Capua Vetere, ha poi convalidato tutti i provvedimenti di trattenimento, non tenendo conto delle posizioni individuali, ivi compreso il trattenimento di minori illegittimamente presenti nell’area di detenzione. Benchè gli avvocati di fiducia avessero fatto presente in udienza il divieto assoluto di permanenza nel Cie di stranieri minorenni, anche per loro si disponeva la convalida del trattenimento. Come hanno rilevato gli avvocati“ all’interno dei verbali di notifica dei provvedimenti di trattenimento la data del 21 aprile è interlineata a penna e sostituita, sempre a penna, con la data del 23 aprile; La correzione è priva di timbro che ne determini l’autenticità e l’originalità“. Inoltre, secondo precise testimonianze, i cittadini stranieri trattenuti nel centro hanno fatto veder le ferite dovute alle percosse subite dalle forze dell’ordine all’interno del campo,ed hanno mostrato numerosi bossoli di lacrimogeni ed in particolare si segnala il caso di un cittadino trattenuto con la gamba ingessata che ha riferito di essere stato investito da un blindato delle forze dell’ordine. Secondo le informazioni assunte dalla delegazione entrata nel CIET di Santa Maria Capua Vetere, gli avvocati hanno partecipato alle udienze per la convalida dei provvedimenti di trattenimento, solo a partire dalla data del 21 aprile, giorno il quale il centro di accoglienza è stato trasformato in un Centro di identificazione ed espulsione temporaneo, in base all’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n.5833. Nelle procedure di convalida gli avvocati hanno avuto scarsissime possibilità di incidere essendo risultato subito chiaro dalle parole del giudice che la convalida sarebbe avvenuta per tutti gli immigrati trattenuti nella struttura dal 18 aprile, dopo esservi stati trasferiti da Lampedusa con la nave traghetto Excelsior, un viaggio durato una settimana in condizioni chiaramente detentive, con una forzatura evidente sul termine di 48 ore richiesto dalla legge e dall’art. 13 della Costituzione per la convalida dei provvedimenti amministrativi limitativi della libertà personale.
Altri migranti trasferiti lo scorso anno, con successivi viaggi da Lampedusa a Napoli, a bordo della nave Excelsior venivani rinchiusi nel centro di identificazione ed espulsione temporaneo (CIET) di Palazzo San Gervasio. Qui, in una struttura fatiscente di proprietà demaniale nell’estate del 2010 era stato ubicato un centro di accoglienza per lavoratori stranieri, che si erano spostati in massa dalla Calabria verso la Basilicata e la Puglia, dopo la pulizia etnica a Rosarno. La stessa struttura, all’inizio dell’emergenza sbarchi nel 2011, veniva destinata a centro di accoglienza ospitando centinaia di ragazzi tunisini, ai quali finalmente veniva concessa la possibilità di ottenere un permesso temporaneo per motivi umanitari, ai sensi dell’art. 20 del T.U. 286 del 1998. La decisione del governo assunta con un decreto del 5 aprile 2011, stabiliva però che solo coloro che fossero arrivati prima di quella data avrebbero potuto conseguire il permesso di soggiorno. Il centro di Palazzo San Gervasio, come quello di Santa Maria Capua Vetere era destinato a mutare stato giuridico, come mutava lo stato giuridico dei migranti che da quel momento in poi vi venivano trattenuti. Attorno al 20 aprile 2011 quella che era una struttura di accoglienza dalla quale i migranti uscivano con un permesso di soggiorno in mano, diventa un CIET, un centro di identificazione ed espulsione temporaneo. Come era stato fatto in precedenza con il centro di Santa Maria Capua Vetere. Un ulteriore esplicazione di scelte discrezionali prima dell’amministrazione degli interni e poi delle strutture periferiche del ministero. Il Centro di identificazione ed espulsione di Palazzo San Gervasio è poi rimasto aperto in un clima incandescente caratterizzato da frequenti rivolte e successive azioni repressive da parte delle forze di polizia fino al termine di giugno, quando dopo l’ennesima rivolta i lacrimogeni utilizzati dalla polizia colpvano alcune tende che prendevano fuoco e l’incendio rendeva presto inagibile l’intera struttura.
Con un esposto alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo del 2 giugno del 2011, l’avvocato Nicola Griesi denunciava la natura collettiva dei provvedimenti di allontanamento forzato riguardanti “57 tunisini”, la mancata traduzione degli atti, la convalida del trattenimento disposto il 14 maggio dal questore di Agrigento presso la struttura di Palazzo San Gervaso, dove il giudice di pace convalidava la proroga della misura restrittiva, malgrado fosse stata adottata senza contraddittorio e senza l’assistenza di un avvocato. In questo caso il ricorso alla Corte Europea rimaneva senza esito immediato, anche se le modalità della convalida confermavano la natura di espulsione o respingimento collettivo dei provvedimenti adottati dal questore (14). In molti altri casi mancavano i tempi per la proposizione di un ricorso, seppure con la procedura d’urgenza, prevista dall’art. 39 del regolamento di procedura della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Dopo lo scoppio delle rivolte, o nei casi di proteste più forti gli immigrati venivano trasferiti da una struttura all’altra, e saltava qualsiasi possibilità di contatto con le associazioni o di difesa legale.
Altri casi di abuso della discrezionalità amministrativa consentita dalle ordinanze di protezione civile, con le quali il governo Berlusconi pensava di fare fronte all’emergenza determinata dall’afflusso di cittadini dei paesi nordafricani dopo le cd. primavere arabe, si verificavano tanto nelle strutture di prima accoglienza come il CPSA di Contrada Imbriacola a Lampedusa, quanto in tutta la Sicilia, nelle nuove strutture detentive provvisorie, come quelle di Porto Empedocle o di Pozzallo (Ragusa) aperte frettolosamente nel mese di aprile del 2011,ed anche nel Centro di identificazione ed espulsione temporaneo (CIET) realizzato nella tendopoli di Kinisia, una vecchia pista aeroportuale del demanio militare vicino Trapani. In tutti questi casi le condizioni di trattenimento erano deplorevoli, dal punto di vista legale e dal punto di vista igienico, ma le modalità della detenzione amministrativa impediva l’esercizio di un effettivo diritto di difesa, e neppure risultava possibile rivolgersi alla Corte Europea per i diritti dell’Uomo che avrebbe potuto condannare l’Italia per i trattamenti inumani e degradanti che riservava ai migranti che erano arrivati a Lampedusa a partire dal mese di febbraio di quell’anno. Se si fosse potuto predisporre un ricorso, considerando le condizioni documentate anche dai video girati da coraggiosi giornalisti indipendenti che erano riusciti a penetrare nei CIET di Santa Maria Capua Vetere, di Palazzo San Gervasio e di Kinisia, l a condanna dell’Italia sarebbe stata certa. Si ricorda al riguardo il caso deciso dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, proprio con riferimento alle condizioni della detenzione amministrativa dei migranti irregolari con le sentenze A.A. c. Grecia del 22 luglio 2010 con la quale la Corte ha condannato la Grecia per violazione degli artt. 3 e 5 par. 1 e par. 4(15) e M.S.S c. Belgio c. Grecia (16) con la quale la Corte ha condannato entrambi i paesi per la violazione degli artt. 3 (17) e 13 (18) della CEDU (19). In quest’ultima sentenza, rispetto all’art. 3 ( Divieto di tortura e di altri trattamenti inumani o degradanti), la Corte, ha deciso che «(…) à la lumière des informations dont elle dispose sur les conditions prévalant au centre de détention attenant à l’aéroport d’Athènes, […] les conditions de détention subies par le requérant ont été inacceptables. […] le sentiment d’arbitraire, celui d’infériorité et d’angoisse qui y sont souvent associés ainsi que celui d’une profonde atteinte à la dignité que provoquent indubitablement ces conditions de détention s’analysent en un traitement dégradant contraire à l’article 3 de la Convention» (20).
Quanto accaduto lo scorso anno nei centri di detenzione italiani appare destinato a costtuire una pietra miliare nel processo di degrado dei diritti umani degli immigrati che sono costretti all’ingresso irregolare, anche quando avrebbero titolo ad ottenere un regolare visto d’ingresso,e che in qualche caso, pur avendo ottenuto tale visto, continuano ad essere trattati come ”clandestini”. Nel mese di maggio del 2011 un immigrato tunisino coniugato con una cittadina europea, giunto nell’isola di Lampedusa veniva trattenuto indebitamente nel centro di prima accoglienza e soccorso di Contrada Imbriacola, un CPSA, protestava la sua condizione di coniuge di cittadino comunitario e veniva picchiato duramente dagli agenti della Guardia di Finanza per poi essere arrestato (21). Nonostante presso il centro di prima accoglienza e soccorso di Lampedusa, dove rimaneva recluso da ben 25 giorni, Nizar avesse già conferito procura generale ad un difensore di fiducia, nel processo per direttissima a suo carico era assistito soltanto da un avvocato d’ufficio. Un avvocato assegnato d’ufficio, malgrado Nizar avesse reclamato la presenza di un avvocato di fiducia, avvocato che è stato tenuto rigorosamente all’oscuro del suo trasferimento ad Agrigento e dello svolgimento del giudizio per direttissima, sabato 28 maggio 2011. A Nizar è stato tolto persino il telefonino, che invece dovrebbe essere consentito in tutti i CIE e non gli è stato possibile comunicare né con l’avvocato di fiducia, né con la moglie che si trovava in Olanda, in avanzato stato di gravidanza. Si è poi appreso che Il Tribunale di Agrigento scarcerava Nizar, dopo una condanna con patteggiamento per lesioni nei confronti di un dirigente della polizia e di danneggiamento ad un’autovettura della finanza. Con il patteggiamento il giudice ha comminato 8 mesi di reclusione, pena sospesa, come al solito in questi casi, e ha dichiarato cessati gli effetti della misura cautelare in carcere.
Nizar veniva quindi rinchiuso nel centro informale, una struttura di smistamento per richiedenti asilo di Porto Empedocle, ubicata in un capannone nell’area portuale, non si sa sulla base di quali autorizzazioni amministrative, una struttura che doveva servire soltanto all’avvio rapido dei richiedenti asilo verso i centri di accoglienza e che invece fino al mese di giungo del 2011 è stata utilizzata di fatto come centro di trattenimento amministrativo. A seconda di chi ci veniva rinchiuso, anche minori non accompagnati, non venivano fatti entrare neppure gli avvocati nominati dagli immigrati. Ed è quello che appunto è successo agli avvocati di Nizar domenica 29 maggio 2011 quando si recavano a Porto Empedocle per parlare con il loro assistito. L’avvocato di Nizar si è dovuto quindi rivolgere alla Prefettura di Agrigento per chiedere di essere autorizzato ad incontrare il proprio assistito. Il funzionario della Prefettura di Agrigento ha preteso una richiesta formale, ventilando addirittura la necessità che fosse il Ministero dell’Interno a dovere autorizzare l’avvocato all’incontro con Nizar ! Ancora una volta, in modo inconfutabile, è stato negato un corretto esercizio dei diritti di difesa. Un diritto costituzionale il cui effettivo esercizio era soggetto all’autorizzazione ministeriale.
Dopo essere stato trattenuto nella struttura di transito di Porto Empedocle, Nizar veniva successivamente trasferito nel CIET, centro di identificazione ed espulsione temporaneo, di fatto una tendopoli appena recintata, a Kinisia, vicino Trapani. Ancora una volta l’avvocato di fiducia presentava un ricorso contro l’espulsione e il trattenimento amministrativo, anche perché nel frattempo le autorità olandesi gli avevano concesso un visto Schengen per motivi familiari. Ma il tempo passava, giorno dopo giorno, e la risposta del giudice tardava ad arrivare. Come riferisce fortresseurope.blogspot.com , il resto è accaduto proprio durante una delle quotidiane visite di Winny a Nizar, nel mese di luglio dello scorso anno. Alla sua uscita, dopo che la donna era stata colta da un malore, seguivano le proteste di Nizar e quelle dei suoi compagni. Una volta che la moglie era stata caricata su un ambulanza diretta all’ospedale di Trapani, Nizar dietro le sbarre continuava a chiedere di essere rimesso in libertà in quanto in possesso di un regolare visto di ingresso Schengen rilasciato dall‘Olanda, e soprattutto per potere seguire da vicino la situazione della moglie ricoverata in ospedale. La polizia non ascoltava nessuna ragione, e la rabbia di Nizar si estendeva presto agli altri reclusi, al punto che scoppiava la rivolta. Come racconta Gabriele Del Grande nel suo blog fortresseurope.blogspot.com,“i reclusi iniziano a smontare le strutture portanti delle tende dove sono alloggiati, per armarsi di ferri e bastoni. E quando, verso le nove di sera, gli agenti aprono il cancello per far entrare un nuovo trattenuto, è già troppo tardi. I reclusi si lanciano contro il cancello e spingono fino a forzarne l’apertura. Nel corpo a corpo con gli agenti di guardia, i tunisini riescono ad avere la meglio per poi disperdersi in ogni direzione tra i vigneti e gli oliveti circostanti, coperti dal calar della notte. Nizar è con loro. Nonostante le manganellate sul ginocchio, continua a correre trascinandosi dietro la gamba ferita. Nascosto dagli alberi, segue a distanza la luce dei fari della polizia sulla statale per Trapani. Winny è ancora in ospedale, ma sta meglio, era un falso allarme, niente doglie. Il giorno dopo viene dimessa e lo può finalmente incontrare. Ma non c’è tempo per gli abbracci. La polizia è sulle loro tracce. Devono lasciare l’Italia. Winny prende un volo della Ryanair. Nizar viaggia via terra, senza documenti. Prima un autobus, poi un treno, una nave e un altro treno ancora. Tre giorni di viaggio. Fino a ritrovarsi alla stazione di Eindhoven, in Olanda. Esausto ma finalmente libero di riabbracciare la donna che ama. Giusto in tempo per imbiancare la cameretta del bambino e assistere alla nascita di Rafael, venuto alla luce all’alba del 15 agosto, tra un’intervista e l’altra alla tv olandese, che di questa storia ha fatto un caso nazionale“.
Il 27 giugno 2011, con provvedimento depositato in cancelleria il 30 giugno, il giudice di pace di Agrigento accoglieva il ricorso presentato da Nizar contro il Prefetto di Agrigento per l’annullamento del decreto di espulsione emesso dallo stesso Prefetto il 30 maggio e del decreto emesso nella stessa data dal Questore di Agrigento con il quala si intimava l’accompagnamento forzato in frontiera. Un provvedimento che a Nizar non serviva più.
Quanto avvenuto nei centri di identificazione ed espulsione già aperti in Italia, oltre che nei tre CIET ( centri di identificazione ed espulsione temporanei ) creati con l’OPCM ( Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, uno strumento tipico dell’ultima stagione dell’”emergenza immigrazione”) n. 3935 del 21 aprile 2011 a Kinisia ( Trapani), Santa Maria Capua Vetere (Caserta) e Palazzo San Gervasio ( Potenza), ha dimostrato come le prassi amministrative poste in essere dalle autorità italiane abbiano violato sia la normativa vigente in tema di immigrazione, art. 14 del T.U. 286 del 1998 ( e delle garanzie derivanti dall’art. 13 della Costituzione), che le prescrizioni di natura vincolante contenute nella direttiva 2008/115/CE in materia di rimpatri.
3. La detenzione amministrativa sulle navi prigione
Secondo quanto riferisce l’Osservatorio FortressEurope il 1 novembre 2011,“la settimana scorsa è decollato da Palermo l’ultimo charter per Tunisi. A bordo c’erano i soliti 60 tunisini raccolti nei vari centri di identificazione e espulsione (Cie) di tutta Italia e la scorta di 120 poliziotti. Nelle stesse ore da Bari partivano i charter con i 99 egiziani sbarcati poche ore prima sulle coste calabresi e espulsi in tempo record. Dall’inizio dell’anno sono 3.592 i rimpatri coatti verso la Tunisia e 965 quelli verso l’Egitto. Fanno 4.557 persone espulse in deroga alle leggi nazionali sull’immigrazione. Ovvero dopo un periodo di detenzione spesso non convalidato dal giudice di pace, senza aver potuto incontrare un avvocato, e senza aver potuto parlare con i funzionari di Unhcr, Oim e Save the Children, che lavorano in frontiera proprio per garantire i diritti di chi arriva in Italia senza passaporto. Lo stato d’eccezione è diventato la norma“.
A partire da venerdì 23 settembre alcune centinaia di migranti provenienti da Lampedusa, dopo l’incendio del CPSA di Imbriacola nella quale erano trattenuti già da diversi giorni, erano stati trasferiti con autobus nel porto di Palermo, fatti scendere con i polsi legati da fascette di plastica e rinchiusi su tre navi ormeggiate alla banchina, la MOBY FANTASY, la MOBY VINCENT, e l’AUDACIA. Su questi fatti numerose fotografie e articoli giornalistici documentano le condizioni di totale privazione della libertà personale imposta ai migranti che, a detta delle competenti autorità, sarebbero stati trasferiti sulle navi utilizzate come “centri di raccolta” in attesa dell’espulsione verso la Tunisia. Ed in effetti risulta che una parte di loro, secondo fonti giornalistiche almeno quattrocento persone, sarebbero stati rimpatriati in Tunisia, con aerei decollati dall’aeroporto di Palermo dopo riconoscimenti sommari effettuati prima dell’imbarco dal console tunisino che lavorava per questo all’interno della struttura aeroportuale in stretta collaborazione con la polizia italiana. . Durante i trasferimenti in autobus, da una nave all’aeroporto, in vista del rimpatrio, ancora all’interno del porto, si sono da ultimo verificati gravi atti di autolesionismo, secondo quanto riferito dagli organi di informazione.
I cittadini stranieri trattenuti a bordo delle navi Moby Fantasy, che alla data del 25 settembre, era già partita per la Sardegna, Moby Vincent e Audacia, rimaste alla fonda nel porto di Palermo si sono trovati in condizione di estrema limitazione della libertà personale, come hanno visto alcuni deputati che hanno visitato le navi. Gli veniva inibita qualsiasi possibilità di movimento, anche all’interno delle navi, risultando privati della possibilità di comunicare con l’esterno, ed essendo, a tal fine, sottoposti a continua sorveglianza, senza che nei loro confronti, per quanto risulta, fossero stati emessi e notificati provvedimenti individuali limitativi della libertà personale e senza che i provvedimenti stessi fossero sottoposti al vaglio giurisdizionale, garanzie previste in primo luogo dalla Costituzione, dalla normativa europea e internazionale e dal diritto interno, il D.Lgs. 286/98 agli articoli 10, 13 e 14.. Invero, si è verificato per mesi che il provvedimento di respingimento alla frontiera con accompagnamento forzato e l’ordine del Questore di trattenimento presso i diversi centri di detenzione amministrativa ubicati nel territorio nazionale, quando sono stati notificati, venivano consegnati ai destinatari dopo molti giorni di illegittima detenzione, senza alcuna garanzia di una difesa effettiva, in totale contrasto con gli articoli 10, 13 e 14 del Testo Unico n.286 del 1998, e con l’art. 13 della Costituzione italiana, oltre che con quanto previsto dalla Direttiva Comunitaria sui rimpatri 2008/115/CE e dal Codice delle frontiere Schengen (Regolamento CE 562 del 2006). Si deve denunciare anche come nella situazione descritta si fosse verificata la violazione reiterata del divieto di espulsioni ( e di respingimenti) collettivi, sancito dall’art. 4 del Protocollo 4 allegato alla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, ed ulteriormente ribadito dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, norma direttamente vincolante anche nel nostro ordinamento.
I migranti, quasi tutti tunisini, trasferiti a bordo delle tre navi ormeggiate nel porto di Palermo, sono stati trattenuti in un luogo privo di determinazione giuridica, senza alcun provvedimento individuale formalmente adottato e convalidato dal giudice, tale illecito trattenimento forzato è stato, dunque, protratto senza alcun titolo. Per gli stranieri trattenuti a bordo delle navi, alcuni dei quali poi trasferiti di nuovo verso centri di identificazione , o peggio, ancora una volta in un CPSA come quello di Pozzallo, era dunque ampiamente decorso il termine di ventiquattrore dal fermo per identificazione di cui all’art. 11 DL 59/78 convertito in legge n. 191/78, in quanto era del tutto limitata la loro libertà personale, senza peraltro che di ciò sia stato dato tempestivo avviso ai medesimi trattenuti o all’autorità giudiziaria (22). La privazione della libertà personale di molti dei migranti trattenuti a bordo delle “navi prigione” aveva avuto addirittura inizio da più di tre settimane: allorquando gli stessi venivano trasferiti dal CSPA (Centro di Soccorso e Prima Accoglienza) di Lampedusa, a bordo delle diverse navi, e poi di nuovo, se non riaccompagnati in Tunisia, verso altri CIE o verso il CPSA di Pozzallo (Ragusa).
L’art. 21, co. 4, del Regolamento di attuazione del D.Lgs. 286/98 (D.P.R. 394/99, come modificato dal D.P.R. 334/04), prevede che “il trattenimento dello straniero può avvenire unicamente presso i centri di permanenza temporanea (oggi C.I.E. – Centri di Identificazione ed Espulsione – ) individuati ai sensi dell’art. 14, comma 1, del Testo Unico sull’Immigrazione, o presso i luoghi di cura in cui lo stesso è ricoverato per urgenti necessità di soccorso sanitario. Tali disposizioni di fonte regolamentare, dunque, in ossequio alla legge – stante la riserva assoluta di giurisdizione prevista dall’art. 13 della Costituzione – prevedono che la privazione della libertà personale dello straniero possa avvenire unicamente presso i CIE, mentre al di fuori di tali centri (e dunque anche nei CPSA e nei CPA) possono svolgersi unicamente attività di accoglienza, assistenza e igienico-sanitarie. Dal momento della entrata sul territorio nazionale, per la maggior parte degli stranieri avvenuta da oltre due-tre settimane, con sbarco a Lampedusa, e di certo dal momento del trattenimento a bordo delle suddette navi, i migranti tunisini bloccati a bordo delle navi in attesa di espulsione non hanno avuto alcuna possibilità di comunicare con un avvocato, né hanno ricevuto alcun tipo di comunicazione orale o scritta sui motivi del loro trattenimento, sulla sua durata e sulla possibilità, più in generale, di esercizio dei propri diritti, come la normativa nazionale, europea ed internazionale specificamente prevede.
Da quanto fin qui esposto emergono alcuni elementi che la magistratura dovrà valutare con particolare attenzione. Innanzitutto, oltre al trattenimento amministrativo illegittimo degli stranieri sulla navi, la detenzione dal 18 al 23 nel mese di settembre 2011, come già rilevato in altri casi anche nei mesi precedenti, nel CPSA di Contrada Imbriacola a Lampedusa, al pari di quanto rilevato nel CPSA di Pozzallo, è avvenuta in un luogo di incerta determinazione giuridica e senza alcun tipo di provvedimento che potesse giustificare la limitazione della libertà personale senza alcuna convalida da parte di una autorità giudiziaria. La permanenza nei centri e comunque nelle strutture provvisorie di prima accoglienza e soccorso non dovrebbe superare di norma le 48-96 ore, almeno secondo le regole derivanti dall’art. 13 della Costituzione.Iin tali limiti erano contenuti i termini del primo trattenimento nel 2008, quando il sistema di accoglienza di Lampedusa veniva citato come un esempio a livello internazionale, il cd. modello Lampedusa. In ogni caso, quale che sia la denominazione della struttura, non si può ritenere che, per assolvere esigenze di primo soccorso ed assistenza, occorrano diverse settimane, anche perché, se così fosse, la natura giuridica delle stesse strutture sarebbe stravolta, e si potrebbe verificare una grave violazione sia dell’art. 13 della Costituzione, che degli articoli 10, 13 e 14 del testo unico sull’immigrazione. Non si sa neppure sulla base di quali decreti di respingimento e di accompagnamento alla frontiera i migranti siano stati riaccompagnati da Palermo in dopo un riconoscimento sommario da parte dell’autorità consolare, sembrerebbe senza il rilascio di un documento di viaggio individuale, e comunque sulla base di provvedimenti fotocopia, configurandosi quindi il carattere collettivo delle misure di accompagnamento forzato in frontiera.
La normativa di riferimento, prevede che la comunicazione del trattenimento presso il Cie vada eseguita dalle autorità amministrative all’autorità giudiziaria competente entro le 48 ore successive al momento dell’applicazione della misura restrittiva. La comunicazione del trattenimento all’autorità giudiziaria presso la cancelleria del Giudice di Pace va verificata tenendo conto dell’inizio effettivo di applicazione delle misure limitative della libertà personale. La determinazione di tale momento risulta rilevante anche al fine di computare le ulteriori 48 ore entro le quali il Giudice di Pace competente, vagliati i requisiti formali dell’Ordine di Trattenimento, provvede alla convalida. In caso di mancata convalida entro le 48 ore successive alla comunicazione, gli ordini del Questore perdono efficacia. Nel caso dei migranti trattenuti a bordo delle tre navi ormeggiate nel porto di Palermo, i termini risultavano abbondantemente scaduti se si tiene conto del momento della prima applicazione delle misure restrittive nell’isola di Lampedusa e dunque i migranti avrebbero dovuto essere rimessi imemdiatamente in libertà. Rimane ancora affidato alla Procura di Palermo, a questo punto, verificare se e quando siano stati adottati i provvedimenti formali che la legge impone in caso di trattenimento, respingimento ed espulsione di cittadini stranieri irregolarmente entrati nel territorio nazionale.
Come rimane affidato alla Procura di Agrigento indagare su casi denunciati nei diversi esposti trasmessi da associazioni sulla gestione dell’emergenza immigrazione nell’isola di Lampedusa e sul trattenimento indebito nei centri di quell’isola di centinaia di minori non accompagnati, in assenza di provvedimenti formali che si sarebbero dovuti adottare per obbligo di legge, a partire dalla segnalazione al Tribunale dei minori. E risulta anche che i giudici di pace di diverse sedi italiane, dopo la mancata convalida di provvedimenti di trattenimento amministrativo abbiano trasmesso gli atti alla stessa Procura di Agrigento.
L’attuale situazione politica e sociale non consente particolari attese su nuove misure legislative che pure sarebbero opportune ed urgenti, almeno nel senso del superamento del sistema espulsivo che in nome dell’emergenza è riuscito a peggiorare persino quanto previsto al riguardo dalla legge Bossi-Fini del 2002. Quel sistema è rimasto sostanzialmente immutato persino dopo la condanna subita dall’Italia il 26 aprile 2011 da parte della Corte di giustizia dell’Unione Europea con la sentenza El Dridi. Oggi si tratta quindi di rilevare gli abusi ancora commessi dalle autorità amministrative e di denunciare la portata effettiva degli accordi bilaterali di riammissione conclusi dell’Italia negli anni scorsi, elevando al massimo la capacità di proporre ricorsi davanti alle giurisdizioni internazionali. Alle frontiere portuali dell’Adriatico, come pure nei porti delle tante isole( dall’intera Sicilia sud-orientale alle isole di Linosa, Lampedusa e Pantelleria) occorre superare lo sbarramento frapposto dalla giurisprudenza di ratifica ( di quanto deciso dalla polizia) dei giudici di pace e di qualche tribunale amministrativo, riproponendo ricorsi alle istanze più elevate della giurisdizione soprattutto nella direzione di ottenere dalla Corte Costituzionale un argine, che potremmo definire di democrazia, contro il dilagare della discrezionalità amministrativa nell’adozione delle misure limitative della libertà personale dei migranti che risultino irregolarmente presenti nel territorio dello stato ai quali comunque l’art. 2 del Testo unico sull’immigrazione garantisce il pieno accesso ai diritti fondamentali della persona umana.
Per quanto riguarda infine le migliaia di immigrati africani provenienti lo scorso anno dalla Libia, dopo essere stati costretti a fuggire dalle milizie armate o dalle truppe di Gheddafi, del quale si è sospettato fossero anche fiancheggatori, o mercenari, occorre che venga emanata al più presto una direttiva del Ministro dell’Interno rivolta ai Questori per consentire il rilascio del pemesso di soggiorno per motivi umanitari ai sensi dell’art. 5.6 del T.U. sull’immigrazione, agli immigrati provenienti dai Paesi arabi nei quali la situazione appare ancora lontana dalla normalizzazione, e nei quali sembrano anzi aumentare, mese dopo mese, le preoccupazione per un brusco arresto del processo di transizione verso la democrazia. Sono infatti centinaia i provvedimenti di diniego rilasciati dalle commissioni territoriali ad immigrati, anche di provenienza dall’India, che lo scorso anno erano stati indotti a presentare domanda di asilo subito dopo lo sbarco, o il salvataggio in mare più spesso, anche al fine di decongestionare l’isola di Lampedusa. Queste persone adesso, dopo mesi di attesa, si vedono privati di un diritto che andava loro riconosciuto immediatamente non solo per la situazione nel paese di origine, ma soprattutto per la condizione di grave pericolo dalla quale erano fuggiti quando erano stati imbarcati a forza sulle coste libiche, trattati quasi come”proiettili umani” che Gheddafi scagliava contro l’Europa. Un Europa, ed un Italia che adesso vogliono liberarsene ad ogni costo.
La giurisprudenza:
– Sentenza della Corte di Giustizia Europea C-61/11/PPU del 28 aprile 2011
– Sentenza della Corte d’Appello di Palermo n. 103 del 14 dicembre 2011
– Sentenza della Corte di Cassazione n. 2294 del 16 febbraio 2012
– Decisione del Tribunale di S. Maria Capua Vetere 16 maggio 2011
– Ordinanza del GdP di Agrigento n. 812 del 30 ottobre 2011
– Decisione del Gdp Palazzo S. Gervaso del 9 giugno 2011
– Ordinanza della Corte d’Appello di Palermo n. 2932 del 21 settembre 2011
– Ordinanza del GDP di Agrigento n. 2909 del 30 giugno 2011
– Diritti sotto sequestro
Rubrica a cura del prof. Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo