Dopo mesi di forte riduzione degli arrivi dal nord africa sono ripresi gli sbarchi in Sicilia ed in altre regioni meridionali, con alcune operazioni di salvataggio in acque internazionali che hanno riacceso l’interesse dei media sui cd. uomini tonno, migranti aggrappati alle tonnare trainate dai pescherecci, e sulla situazione di sovraffollamento di Lampedusa, ancora una volta usata come palcoscenico dell’emergenza. Nessuno però si chiede da dove vengono quei migranti e che fine fanno, o quali provvedimenti li attendano, una volta entrati, spesso proprio per ragioni di soccorso, nel territorio dello stato. Il trattamento giuridico che subiscono, come la stessa mancanza di provvedimenti formali che li riguardano, o i ritardi nell’adozione dei provvedimenti dovuti, contribuiscono in modo determinante ad alimentare la cd. emergenza immigrazione.
In realtà la vera emergenza viene prodotta dalle scelte del governo e dei vertici del ministero dell’interno, che in continuità con gli accordi bilaterali e con le linee operative adottati dai precedenti governi, continuano a isolare i richiedenti asilo ed a ritardare le procedure per il riconoscimento di una delle diverse forme di protezione, dopo avere provveduto alla destrutturazione ( e al de finanziamento) del già fatiscente sistema di accoglienza finanziato dalla Protezione civile nel quadro della c. Emergenza Nordafrica (ENA). Mentre impiegano pochi giorni per eseguire operazioni di rimpatrio collettivo, soprattutto ai danni di egiziani e tunisini, senza rispettare le regole imposte dal Regolamento frontiere Schengen, dalla Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, e dalle vigenti norme in materia di immigrazione ed asilo, per non parlare della Costituzione italiana.
In questo quadro, si moltiplicano le notizie di reato per agevolazione dell’ingresso di irregolari e per il reato di immigrazione clandestina, un reato utile solo a marchiare, e si registra poi qualche condanna di scafisti denunciati dai migranti ai quali viene promesso in premio un permesso di soggiorno ex art. 18, che andrebbe più opportunamente utilizzato per le vittime di tratta e non per sollecitare una collaborazione che spesso non produce alcun passo in avanti nella lotta contro le organizzazioni criminali,consolidate ormai su base transnazionale, che sfruttano il diffuso proibizionismo delle migrazioni per accrescere i loro guadagni. E neppure sembra possibile una qualsiasi garanzia di difesa effettiva per le centinaia di persone che, dopo essere state incriminate per il reato di immigrazione clandestina ( art. 10 bis del Testo Unico 286 del 1998), non sono neppure portate davanti al giudice competente, ma vengono deportate a centinaia di chilometri di distanza dal luogo dello sbarco, in centri di detenzione (CIE), o rimpatriati dopo qualche giorno, sempre che le autorità consolari dei paesi di provenienza si prestino alle procedure “semplificate” concordate da Maroni a partire dal 2009 e confermate dal ministro Cancellieri, durante il governo Monti nei suoi contatti con i ministri dell’interno egiziano e tunisino.
Una pratica, quella della denuncia sistematica di tutti coloro che hanno varcato la frontiera, anche se per esigenze di soccorso, che si presta all’elusione delle garanzie previste dalla Direttiva comunitaria sui rimpatri 2008/115/CE, una interpretazione fuorviante della direttiva che ne riduce sostanzialmente la portata, come caldeggiato da Maroni fin dal 2010, ma in contrasto con quanto deciso dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea a partire dalla sentenza El Dridi nel 2011. Si ritiene dunque che, se il respingimento avviene in pochi giorni gli immigrati, ancor di più se incriminati per il reato di immigrazione clandestina, commutato nell’espulsione con accompagnamento immediato, non scatterebbero le garanzie di difesa e gli obblighi procedurali previsti a carico delle forze di polizia dalla Direttiva comunitaria sui rimpatri. Come se il respingimento potesse avvenire su una ipotetica linea di frontiera che in mare…non può esistere, come se quelle persone fossero sbarcate si in territorio italiano, ma non fossero soggette alla giurisdizione italiana ( e comunitaria). Come se il loro stato giuridico fosse determinato esclusivamente dalle decisioni del ministero dell’interno e delle autorità di polizia di frontiera. Anche se l’articolo 10 della Costituzione italiana stabilisce che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge, e non esclusivamente dai provvedimenti delle autorità amministrative.
In base a queste procedure “semplificate” il respingimento immediato ( in qualche giorno) degli immigrati avviene come se non avessero mai messo piede sul territorio italiano, come se la polizia che li detiene e li trasferisce fosse sottratta a qualsiasi giurisdizione, anche se l’art. 13 della Costituzione afferma chiaramente che in tutti i casi di arresto, senza eccezione alcuna, la polizia avrebbe l’obbligo di comunicare entro 48 ore al magistrato l’adozione della misura limitativa della libertà personale e il giudice dovrebbe entro le 48 ore successive convalidare qualsiasi misura di trattenimento, pena il venir meno della legittimità dello stesso trattenimento ( e dunque l’astratta configurabilità di un sequestro di persona). E l’arresto di polizia, senza provvedimento del magistrato, dovrebbe ricorrere solo “in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge”. Si tratta del principio di legalità e della riserva di giurisdizione, i cardini di uno stato democratico. Una norma, l’art. 13 della Costituzione che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 105 del 2001 ha dichiarato espressamente applicabile a tutte le operazioni di rimpatrio forzato, anche a quelle che sono effettuate senza fare transitare le persone in un centro di identificazione ed espulsione (CIE), quindi anche nei casi nei quali le persone siano ristrette in centri di detenzione informali, come stadi, palestre, scuole, ospedali dismessi, capannoni industriali o portuali, tutte quelle strutture che in questi mesi sono stati allestiti come centri (ben chiusi) di prima accoglienza ex legge Puglia, una legge dell’emergenza del 1995, quindi sulla base di convenzioni stipulate dalle Prefetture, solo per il tempo necessario allo “smaltimento” di quei migranti che i paesi che, come l’Egitto e la Tunisia avevano sottoscritto con l’Italia accordi di riammissione semplificata, accettavano di riprendersi dopo un sommario riconoscimento da parte delle autorità consolari. Inoltre, secondo il“ considerando“ 17 della Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri,“fatto salvo l’arresto iniziale da parte delle autorità incaricate dell’applicazione della legge, disciplinato dal diritto nazionale, il trattenimento dovrebbe di norma avvenire presso gli appositi centri di permanenza temporanea». La previsione è importante perchè consente di distinguere un arresto iniziale disciplinato dalle normative nazionale, che si sottrarrebbe all’ambito di applicazione della direttiva, ed un successivo trattenimento, conseguente all’adozione dei provvedimenti di respingimento e di espulsione che invece dovrebbe rispettare le garanzie ed i principi indicati nella direttiva sui rimpatri.
I riconoscimenti effettuati nei confronti di immigrati provenienti da paesi con i quali l’Italia ha concluso accordi di riammissione con procedure “semplificate” sono così sommari da tradursi nell’attribuzione della nazionalità ma non nella identificazione completa della persona, tanto una volta dopo il rimpatrio le autorità dei paesi di origine, le forze di polizia non hanno generalmente difficoltà a farsi dichiarare le esatte generalità, disponendo dei noti “strumenti di persuasione” che caratterizzano ancora chiunque vesta una divisa nei paesi nordafricani. Ed è chiaro che in questo contesto nessuno rischia di chiedere asilo, anche quando ne ricorrerebbero i presupposti, ed è forse anche per mantenere questa situazione, che dal ministero dell’interno si nega sistematicamente l’ingresso nei “centri informali” dell’OIM e dell’Acnur che nei luoghi di frontiera e nei centri di accoglienza dovrebbero individuare i soggetti vulnerabili e fornire informazioni sulle procedure di protezione internazionale. Un compito per il quale lo stesso ministero dell’interno ha convenzionato queste organizzazioni, insieme alla Croce Rossa ed a Save The Children, nell’ambito del progetto Praesidium, giunto al suo sesto anno, ma che nei fatti viene bloccato perchè si continua a negare l’accesso agli operatori nei centri di prima accoglienza e nel Centro di prima accoglienza e soccorso di Pozzallo ( in provincia di Ragusa), strutture chiuse, inaccessibili,che in contrasto con quanto previsto dalla legge e dal regolamento di attuazione, funzionano come centri pre-espulsivi e non come luoghi di smistamento verso i Centri per richiedenti asilo (CARA) o verso i Centri di identificazione ed espulsione (CIE).
Particolarmente critica in queste circostanze la situazione dei minori stranieri non accompagnati, che vengono sottoposti ( nel caso degli egiziani da Siracusa) a respingimento immediato e collettivo anche se, per il loro paese, sono ancora minorenni. Sembra ancora disapplicata dalla polizia di frontiera quella giurisprudenza ormai concorde che sulla base delle Convenzioni internazionali a protezione dei diritti d[1]ei minori afferma che ogni provvedimento amministrativo nei loro confronti deve essere preso “nel superiore interesse del minore”, considerando la sua minore età sulla base della legge del paese di provenienza ( nel caso degli egiziani ventuno anni).
Malgrado nei mesi di marzo ed aprile, da ultimo il 30 aprile di quest‘anno, le organizzazioni appartenenti al progetto Praesidium abbiano denunciato i respingimenti collettivi ed trattenimenti informali ai danni di centinaia di egiziani, nulla è cambiato nelle prassi della polizia di frontiera che in provincia di Siracusa, ed altrove, continuano a detenere illegittimamente in centri informali i migranti che dovrebbero essere trasferiti in un Cara o in un Cie .
Persone che non possono essere considerate come “eccedenze“ da smaltire a qualunque costo, magari per accreditare l’efficienza del sistema espulsivo italiano, persone che una volta entrate nel territorio italiano hanno comunque diritto al pieno ed effettivo riconoscimento dei diritti umani fondamentali, anche in base all’art. 2 del Testo unico sull’immigrazione 286 del 1998, e tra questi dei diritti di difesa e di ricorso sanciti anche dall’ articolo 6 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che vieta anche all’art. 19 le espulsioni (ed i respingimenti) collettivi. Tutte norme che vanno applicate dalla polizia di frontiera anche nel caso di migranti che hanno tentato di entrare irregolarmente nel territorio, anche se da parte delle autorità italiane si sta riproponendo in questi mesi l’interpretazione deviante della Direttiva rimpatri le cui garanzie di difesa non sarebbero applicabile alle persone destinatarie di un respingimento o di una sanzione penale. Una interpretazione deviante che la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha bocciato sonoramente con la condanna dell’Italia nel caso El Dridi nel 2011.
Il Regolamento Frontiere Schengen, all’art. 13 chiarisce peraltro che il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. L’UNHCR in un comunicato dell’11 luglio 2011 raccomandava che i principi normativi e le garanzie introdotte dalla Direttiva Rimpatri siano rispettati per qualsiasi provvedimento di allontanamento dal territorio, quindi anche nell’ambito delle procedure di respingimento realizzate in frontiera [2] . Ma il governo italiano del tempo non ha ascoltato questo appello ed ha legiferato approfittando del richiamo al respingimento per restringere l’ambito di applicazione della Direttiva 2008/115/CE. Come è noto in Italia il respingimento corrisponde a procedimenti molto diversi, a seconda che si svolga in frontiera ( art. 10 comma 1 del T.U. n. 286 del 1998) oppure che si tratti del cd. respingimento differito, disposto dal Questore una volta che l’immigrato è entrato nel territorio dello stato, anche per esigenze di soccorso ( art. 10 comma 2 del medesimo T.U.) [3]. Di certo, il respingimento differito presenta forti analogie con l’espulsione, rientrando comunque nella categoria delle procedure di allontanamento forzato ( rimozione) dal territorio di una persona che già vi ha fatto ingresso (removal) , a differenza del respingimento in frontiera che costituisce un atto materiale o un procedimento formale che impedisce direttamente l’ingresso nello stato, caso nel quale evidentemente, come avverte anche la Direttiva, non si pone il problema di un successivo allontanamento forzato. Probabilmente toccherà alla Corte di Giustizia risolvere la questione se la facoltà di non applicare la Direttiva rimpatri riguarda solo i casi di respingimento diretto “alla frontiera” e non quei casi in cui l’immigrato e temporaneamente entrato in Italia, e riceva successivamente un provvedimento di “respingimento differito”, oppure si accompagnato in frontiera esclusivamente sulla base di unprovvedimento di respingimento immediato, ai sensi dell’art. 10 comma 1 del T.U. n.286 del 1998, ma dopo alcuni giorni di detenzione amministrativa in un centro di detenzione informale . Come è successo da ultimo nei casi dei respingimenti collettivi in Tunisia praticati il 17 giugno 2013, come è successo in centinaia di casi in precedenza, verso la tunisia ed anche verso l’Egitto. Una questione sulla quale dovrebbe pronunciarsi anche in via d’urgenza ( dopo una eccezione di pregiudizialità sollevata da un giudice interno) la Corte Europea di Lussemburgo.
In ogni caso, secondo l`art.8 della Direttiva comunitaria 2008/115/CE,“ ove gli Stati membri ricorrano- in ultima istanza- a misure coercitive per allontanare un cittadino di un paese terzo che oppone resistenza, tali misure sono proporzionate e non eccedono un uso ragionevole della forza. Le misure coercitive sono attuate conformemente a quanto previsto dalla legislazione nazionale in osservanza dei diritti fondamentali ( ad esempio gli art. 13 della Costituzione in materia di garanzie della libertà personale e 24 sui diritti di difesa) e nel debito rispetto della dignità e dell`integrità fisica del cittadino di un paese terzo interessato`. Occorre ricordare in proposito che l’immediato ricorso al trattenimento è uno dei punti di illegittimità del sistema espulsivo italiano rilevato dalla Corte di Giustizia che al punto 39 della Sentenza El Dridi del 28 aprile 2011 scrive: “discende dal sedicesimo ‘considerando’ di detta direttiva nonché dal testo del suo art. 15, n. 1, che gli Stati membri devono procedere all’allontanamento mediante le misure meno coercitive possibili. Solo qualora l’esecuzione della decisione di rimpatrio sotto forma di allontanamento rischi, valutata la situazione caso per caso, di essere compromessa dal comportamento dell’interessato, detti Stati possono privare quest’ultimo della libertà ricorrendo al trattenimento”.
Secondo il Regolamento frontiere Schengen n. 562 del 2006, “ Il provvedimento ( di respingimento (n.d.a.) è adottato da un’autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è d’applicazione immediata. Il provvedimento motivato indicante le ragioni precise del respingimento è notificato a mezzo del modello uniforme di cui all’allegato V, parte B, compilato dall’autorità che, secondo la legislazione nazionale, è competente a disporre il respingimento. Il modello uniforme compilato è consegnato al cittadino di paese terzo interessato, il quale accusa ricevuta del provvedimento a mezzo del medesimo modello uniforme”. Sempre secondo il Regolamento n. 562 del 2006, “Le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. I ricorsi sono disciplinati conformemente alla legislazione nazionale. Al cittadino di paese terzo sono altresì consegnate indicazioni scritte riguardanti punti di contatto in grado di fornire informazioni su rappresentanti competenti ad agire per conto del cittadino di paese terzo a norma della legislazione nazionale. L’avvio del procedimento di impugnazione non ha effetto sospensivo sul provvedimento di respingimento. Fatto salvo qualsiasi indennizzo concesso a norma della legislazione nazionale, il cittadino di paese terzo interessato ha diritto a che lo Stato membro che ha proceduto al respingimento rettifichi il timbro di ingresso annullato e tutti gli altri annullamenti o aggiunte effettuati, se in esito al ricorso il provvedimento di respingimento risulta infondato”.
In ogni caso, l’art. 9 della Direttiva comunitaria 2008/115/CE prevede il rinvio dell’allontanamento forzato quando ci sia il rischio di violare il principio di non- refoulement, e non solo quando si verifichi l’assenza di mezzi di trasporto o quando il mancato allontanamento discenda dall’assenza di identificazione. E a tale riguardo, considerando la situazione attuale in paesi come l‘Egitto, si potrebbero anche ipotizzare, sempre che si riesca a conttare i migranti soggetti ad allontabnamento forzato una serie di ricorsi individuali alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, soprattutto per la violazione dell’art.3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti) con riferimento al respingimento differito o alle espulsioni collettive, dell’art. 5 (garanzie in base alla riserva di legge in caso di limitazione della libertà personale) qualora la detenzione amministrativa informale o il respingimento collettivo in frontiera avvenga al di fuori di una espressa previsione di legge o senza un effettivo controllo giurisdizionale, e dell’art.6 (in materia di giusto processo) con riferimento all’esercizio del diritto di difesa in particolare nelle procedure di convalida del trattenimento amministrativo e delle misure di allontanamento forzato. Ma è proprio per questa ragione che le forze di polizia impediscono sistematicamente l’accesso degli avvocati nei centri di prima accoglienza e soccorso, utilizzati in funzione preespulsiva e nei centri informali di trattenimento “specializzati“ per tunisini ed egiziani.
In definitiva il ruolo dell’autorità giurisdizionale viene fortemente ridimensionato, per non dire del tutto soppresso, mentre le autorità di polizia, dopo un breve termine, possono eseguire l’espulsione senza neppure attendere il rilascio di un nulla osta da parte del magistrato competente all’accertamento del reato contravvenzionale di ingresso clandestino commesso dall‘immigrato. In caso di avvenuta espulsione al giudice, una volta che ne ha acquisito la notizia, non rimane altro che pronunciare una sentenza di non luogo a procedere [4]. Del resto anche di fronte ad un procedimento per il reato di immigrazione clandestina che si conclude con una sentenza di condanna si riscontra la medesima possibilità di sostituire la sanzione penale con la misura dell’accompagnamento forzato, che appare come il vero obiettivo da perseguire indicato dalla legge alle autorità amministrative. E in questo punto cruciale si verifica l’aggiramento della disciplina comunitaria, e della stessa Costituzione italiana, che imporrebbe un controllo effettivo da parte del giudice sulle procedure di allontanamento forzato, al fine di garantire i diritti di difesa ed il rispetto dei diritti fondamentali della persona migrante anche nell’ambito delle procedure di respingimento e di espulsione [5]. Il vero obiettivo delle prassi adottate dalle autorità di polizia e della stessa legge 129 del 2 agosto 2011, come già in precedenza della circolare ministeriale del 17 dicembre 2010, con le quali si intendeva dare attuazione in Italia alla Direttiva sui rimpatri 2008/115/CE, sembra costituito così dall’esigenza di impedire che la posizione dello straniero sia oggetto di approfondita valutazione individuale; in modo che le decisioni discrezionali (come, ad esempio, la mancata concessione allo straniero del termine per la partenza volontaria, la durata del divieto di ingresso o il suo trattenimento nel CIE o in un centro di detenzione informale) non debbano essere corredate da adeguata motivazione sulla base delle situazioni personali e siano adottate in virtù di meccanismi quasi automatici di rimpatrio, magari sulla base di specifici accordi di riammissione.
Occorrerebbe invece garantire in modo pieno l’accesso alla procedura di asilo, come peraltro imposto dalla normativa comunitaria e dal decreto legislativo n.25 del 2008 che priva l’autorità di polizia di qualunque potere di sindacare ( o impedire) l’accesso alla procedura. E occorrerebbe anche rispettare il principio introdotto dalla Direttiva 2009/115/CE, che è quello di effettuare il rimpatrio dello straniero con misure che operino progressivamente, mediante l’adozione di provvedimenti “ad intensità graduale crescente” sulla base dei noti criteri di adeguatezza e proporzionalità, che il legislatore italiano sembra avere smarrito. In queste valutazioni, nell’accesso alle procedure di protezione internazionale e nell’apprezzamento di una “intensità graduale crescente” nell’adozione e nell’attuazione delle misure di allontanamento , così come applicate nella prassi italiana dopo l’approvazione della legge 129 del 2 agosto 2011, risiede una eccessiva discrezionalità da parte delle autorità amministrative, dunque della polizia di frontiera, ed anche una evidente discriminazione in base ai paesi di provenienza, si pensi al trattamento speciale riservato ad egiziani e tunisini in base agli accordi di riammissione, con il rischio dunque di applicazioni difformi sul territorio nazionale, e in ogni caso con una grave violazione della normativa comunitaria, internazionale e degli artt.3 (principio di eguaglianza),10 (riserva di legge) e 13 ( riserva di giurisdizione), della Costituzione italiana.
[1] Art. 23 del Regolamento n.394 del 1999, di attuazione del T.U. sull’immigrazione.
(Attività di prima assistenza e soccorso)
1. Le attività di accoglienza, assistenza e quelle svolte per le esigenze igienico-sanitarie, connesse al soccorso dello
straniero possono essere effettuate anche al di fuori dei centri di cui all’articolo 22, per il tempo strettamente necessario
all’avvio dello stesso ai predetti centri o all’adozione dei provvedimenti occorrenti per l’erogazione di specifiche forme
di assistenza di competenza dello Stato.
[2] L’UNHCR valuta positivamente l’introduzione nell’ordinamento italiano, nel contesto del recepimento della Direttiva Rimpatri, del rimpatrio volontario assistito cui possono accedere anche persone in situazione irregolare e persone colpite da provvedimento di respingimento o espulsione. Desta invece forte preoccupazione l’estensione della durata massima del trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione (cie) fino a 18 mesi, senza che siano previsti un rafforzamento delle garanzie e dei diritti dei soggetti trattenuti, né un adeguamento delle condizioni dei cie e dei relativi servizi. Pertanto, l’UNHCR raccomanda di limitare la durata massima del periodo di trattenimento e, in ogni caso, di prevedere maggiori garanzie per le persone trattenute. In particolare, come previsto dalla Direttiva, si sollecita il rilascio immediato nel caso in cui il trattenimento non sia giustificato in assenza di ragionevoli prospettive di eseguire l’allontanamento. Inoltre, l’Alto Commissariato sostiene con forza l’introduzione di un esplicito riferimento al principio di non respingimento (non-refoulement), richiamato dalla Direttiva stessa in diversi punti. Per quanto concerne il divieto di reingresso nel territorio nazionale, applicato al momento dell’avvenuta espulsione, la Direttiva Rimpatri stabilisce che esso non debba pregiudicare per il futuro la possibilità di chiedere asilo. Pertanto, l’UNHCR ritiene essenziale prevedere misure che garantiscano ai richiedenti asilo l’accesso al territorio ed alla relativa procedura di riconoscimento, in particolare nel caso in cui un individuo diventi bisognoso di protezione internazionale a causa di sopravvenuti cambiamenti della situazione personale o del paese di provenienza. Infine, l’UNHCR raccomanda che i principi normativi e le garanzie introdotte dalla Direttiva Rimpatri siano rispettati per qualsiasi provvedimento di allontanamento dal territorio, quindi anche nell’ambito delle procedure di respingimento realizzate in frontiera.
[3] Cfr. F.VASSALLO PALEOLOGO, Il respingimento differito disposto dal questore e le garanzie costituzionali, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2009, fasc. 2, p.19.
[4] Con la legge 129 del 2 agosto 2011 il comma 5-quinquies dell’art. 14 del T.U. sull’immigrazione n. 286 del 1998,è sostituito dal nuovo: «5-quinquies. Al procedimento penale per i reati di cui agli articoli 5-ter e 5-quater si applicano le disposizioni di cui agli articoli 20-bis, 20-ter e 32-bis, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274.»; dopo il comma 5-quinquies sono aggiunti i seguenti: «5-sexies. Ai fini dell’esecuzione dell’espulsione dello straniero denunciato ai sensi dei commi 5-ter e 5-quater, non è richiesto il rilascio del nulla osta di cui all’articolo 13, comma 3, da parte dell’autorità giudiziaria competente all’accertamento del medesimo reato. Il questore comunica l’avvenuta esecuzione dell’espulsione all’autorità Giudiziaria competente all’accertamento del reato. In base al nuovo art. 14 comma 5-septies. dunque “ il giudice, acquisita la notizia dell’esecuzione dell’espulsione, pronuncia sentenza di non luogo a procedere. Se lo straniero rientra illegalmente nel territorio dello Stato prima del termine previsto dall’articolo 13, comma 14, si applica l’articolo 345 del codice di procedura penale”.
[5] Si osserva da parte di S.BRIGUGLIO,come se “l’aver rimpiazzato la pena della reclusione con quella della multa risulta coerente con la sentenza della Corte di Giustizia (C-61/11), che aveva censurato la normativa italiana sulla base della inefficacia, ai fini dell’allontanamento, di una pena detentiva, resta aperta la possibilita’ che la Corte censuri le vecchie disposizioni (e le nuove) sulla base della violazione del principio di proporzionalita’. Resta in piedi, infatti, la spirale di intimazioni al rimpatrio e di restrizioni della liberta’ su cui la Corte di Cassazione ha chiesto che la Corte di Giustizia si pronunci con procedura d’urgenza.