Nella notte tra il 28 ed il 29 dicembre del 1999, a Trapani, all’interno del centro di permanenza temporanea per extracomunitari “Serraino Vulpitta”, dopo un tentativo di fuga duramente sedato dalle forze dell’ordine, dodici immigrati vennero rinchiusi in una cella, bloccata dall’esterno con una sbarra di ferro ed un catenaccio. Uno di loro diede fuoco ai materassi nel tentativo di farsi aprire la porta di legno. Nel rogo morirono subito, bruciati vivi, tre immigrati tunisini; altri tre moriranno nei mesi successivi in ospedale, al Civico di Palermo, a causa delle gravissime ustioni riportate. Gli antirazzisti palermitani in quei mesi donarono anche il loro sangue nel tentativo di salvare quelle giovani vite, un impegno preciso assunto allora con chi giaceva incosciente nel letto di un ospedale, un impegno che si è rinnovato nel corso degli anni, per impedire che queste tragedie si ripetessero ancora, per la chiusura di tutti i CIE, per una diversa politica dell’immigrazione, per il rispetto dei diritti fondamentali di tutte le persone, comunque presenti nel territorio italiano. La condizione di irregolare o di “clandestino” non può legittimare pratiche detentive che risultano ancora oggi, come allora, in aperto contrasto con il divieto di trattamenti inumani o degradanti affermato dall’art. 3 della Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, oltre che con i diritti di difesa, la riserva di giurisdizione ed il principio di legalità, sanciti dalla Costituzione italiana.
Il processo iniziato davanti al Tribunale di Trapani nel 2001, a carico dell’ex Prefetto, accusato di omicidio colposo plurimo, nel quale l’ASGI si era costituita come parte civile, si è poi concluso con l’assoluzione dell’imputato, assoluzione confermata il 26 aprile 2005 da una sentenza della Corte di Appello di Palermo. La sentenza di assoluzione puntava il dito sulla responsabilità delle forze di polizia presenti quella notte nel centro, osservando come, anche se fossero state adottate le precauzioni strutturali, come un sistema antifumo rilevatore degli incendi, la circostanza accertata che le stesse forze di polizia non erano riuscite a trovare in tempo le chiavi dei catenacci con i quali erano bloccate le porte, impediva di stabilire la responsabilità penale del prefetto. Non venivano però disposte ulteriori indagini. Malgrado il processo avesse consentito l’individuazione di gravissime carenze strutturali, di molteplici ritardi ed omissioni, che avevano concorso a determinare il tragico bilancio di morti, questa strage è rimasta impunita.
Nel corso degli anni, il centro di permanenza temporanea (come si chiamava allora) Serraino Vulpitta veniva sequestrato a più riprese dalla magistratura, e dopo costosi lavori di ristrutturazione puntualmente riaperto, anche se nel 2007 la commissione ministeriale sui CPT, presieduta da Staffan De Mistura, attuale sottosegretario al Ministero degli esteri, ne aveva chiesto la chiusura. Il Vulpitta era un luogo simbolo delle politiche di rimpatrio violento dei migranti irregolari e non doveva essere chiuso da un governo che faceva della “cattiveria” contro gli immigrati irregolari il suo slogan elettorale e la bandiera delle politiche di criminalizzazione dell’immigrazione”clandestina”. Non si comprende perché l’attuale governo, che vede al suo interno un componente di una commissione ministeriale che ne aveva chiesto la chiusura, non abbia ancora deciso l’immediata e definitiva chiusura di quel luogo di sofferenza e di morte.
Una successiva sentenza del Tribunale civile di Palermo dell’11 giugno del 2008 ( sentenza n.2976/08) ha invece riconosciuto la responsabilità dello stato per i danni morali e patrimoniali subiti da due immigrati sopravvissuti al rogo verificatosi al Vulpitta quasi nove anni prima. Anche in questo caso, però, non si è andati oltre, alla ricerca del nesso di causalità che aveva prodotto la strage. Secondo il Tribunale di Palermo, l’Amministrazione dell’interno “con l’internamento degli extracomunitari nei centri di permanenza temporanea assume l’obbligo giuridico di tutelare l’incolumità degli internati”.
Quindi il Tribunale individua nel fatto oggetto del giudizio “la sussistenza del delitto di lesioni colpose”, sia per la mancanza del sistema antincendio che per i ritardi nell’intervento degli agenti, giungendo ad ipotizzare “l’omessa vigilanza da parte degli agenti in servizio” e conseguentemente stabilisce il diritto al risarcimento da parte del ministero dell’interno “ di cui la prefettura è organo periferico”, in favore dei due superstiti del rogo, sia per il danno biologico e morale che per i danni derivanti dalle conseguenti invalidità. Per ciascuno dei superstiti veniva stabilito a titolo di provvisionale un risarcimento danni complessivo per oltre 110.000 euro.
La decisione del giudice civile, però, non ha condotto all’accertamento di alcuna responsabilità personale, né in sede civile che in sede penale. Lo stato ha pagato i danni subiti dai sopravvissuti, ma per la morte di RABAH, NASHREDDINE, JAMAL, RAMSI, LOFTI e NASIM non c’è nessun colpevole né sono state disposte altre indagini per accertare altre responsabilità. Neppure la Corte dei conti sembra essersi accorta di un danno erariale tanto rilevante per lo stato.
A distanza di undici anni dal rogo, nel pieno dell’emergenza Nordafrica del 2011, nel mese di luglio entrava in funzione, alla periferia di Trapani, un nuovo centro di detenzione, denominato oggi centro di identificazione ed espulsione (CIE), in contrada Milo con la capienza di oltre duecento posti. All’interno di esso vi sarebbe dovuta essere una sezione femminile ed anche un centro di accoglienza per richiedenti asilo, come annunciato dal Senatore D’Alì, all’epoca della costruzione del centro sottosegretario al ministero dell’interno e padrino dell’opera. Ben presto la struttura di Milo evidenziava gravi problemi gestionali, sottolineati anche dalle proteste di alcuni sindacati di polizia che il 7 luglio 2011 proclamavano lo stato di agitazione e in una nota inviata al ministero dell’interno ed al questore di Trapani denunciavano, a causa delle gravi carenze di organico della questura, come “l’emergenza legata ai dilaganti flussi migratori è gestita a discapito della sicurezza del personale di polizia, dei cittadini e degli stessi migranti”.
In occasione di una visita effettuata il 25 luglio 2011 appariva evidente, e veniva confermata anche da alcuni operatori della struttura, come dagli avvocati che effettuavano le convalide, la assenza di interpreti e di presidi sanitari, che venivano frettolosamente predisposti pochi minuti prima dell’arrivo dei parlamentari, per essere smobilitati non appena terminata la visita. Come al solito, quando le visite e le ispezioni nei Cie sono annunciate con troppo anticipo come si è puntualmente verificato anche nella visita della giornalista Raffaella Cosentino alcune settimane fa. Esattamente come pretende oggi il ministero dell’interno che lascia passare settimane dopo la richiesta di ingresso da parte dei giornalisti e distingue a merito a seconda dei richiedenti e del possesso del titolo di giornalista o di pubblicista. Come se il diritto di cronaca affermato dalla Carta Costituzionale fosse rimesso alla disponibilità del prefetto, o del ministro, di turno.
Così come era successo per il ”Serraino Vulpitta” nel 1999, prima del rogo, il clima di tensione all’interno dei CIE trapanesi, a Milo in particolare, dal luglio del 2011 ad oggi risulta sempre più evidente, e non viene neppure coperto dai rassicuranti comunicati della Prefettura e della Questura, fino al 21 marzo di quest’anno, quando si negava l’ingresso persino alla RAI. Mentre le fughe, gli atti di autolesionismo, gli scioperi della fame e della sete, i casi di abbandono di soggetti tossicodipendenti provenienti dal carcere che non ricevevano trattamenti adeguati, si ripetevano con cadenza quotidiana. E in qualche caso i giudici annullavano persino i procedimenti di espulsione e di trattenimento con la liberazione degli immigrati illegittimamente detenuti. Intanto però anche richiedenti asilo trattenuti negli stessi CIE, dopo avere ricevuto un diniego da parte della competente commissione territoriale, venivano sottoposti all’accompagnamento forzato in frontiera, malgrado l’avvocato che li difendeva avesse tempestivamente proposto ricorso contro la decisione di rigetto. Infine si raccoglievano voci sempre più insistenti che gli immigrati trattenuti nei Centri di detenzione trapanesi, dopo i gesti di ribellione o i tentativi di fuga, venissero duramente picchiati, al punto, in qualche caso, da venire ricoverati in ospedale.
Dopo che i costi della gestione erano lievitati per anni oltre ogni controllo, si sono banditi nuovi appalti, ed al CIE di Milo il Consorzio Connecting People sta per essere sostituito con un nuovo consorzio proveniente dalla provincia di Siracusa, un cartello di associazioni nel quale sembrerebbero trovare spazio gli stessi soggetti che hanno gestito in passato centri di accoglienza e detenzione nella Sicilia orientale, poi finiti sotto indagine della magistratura. Non si vede come la situazione nei centri di detenzione trapanesi possa migliorare con i ribassi d’asta promessi dai nuovi enti gestori a fronte delle carenze igieniche, di inadeguatezza strutturale, di scarsa vivibilità per chi vi è trattenuto e per chi vi lavora, denunciati più volte, anche da Medici senza Frontiere, sia nel CIE Vulpitta che nel nuovo centro di Milo. Si stanno insomma mantenendo tutte quelle condizioni che possono rendere la permanenza in un centro di identificazione ed espulsione “un trattamento inumano o degradante”.
Chiediamo per tutte queste ragioni di riaprire i CIE agli organi di informazione per l’esercizio del diritto di cronaca costituzionalmente garantito e di riprendere le visite delle associazioni indipendenti e le ispezioni dei parlamentari, soprattutto in quelle strutture che, come il Serraino Vulpitta, avrebbero dovuto essere chiuse da anni, o che non presentano idonee garanzie gestionali come quello di Milo. Invitiamo tutte le associazioni indipendenti a fare valere in giudizio i danni subiti per effetto di una ingiusta detenzione nei Cie o per un trattenimento in condizioni disumane o degradanti, come si verifica nei casi di sovraffollamento, quando ad esempio in una sola stanza vengono rinchiuse dieci persone. Esattamente come si verificò nel vecchio Cpt Vulpitta di Trapani pochi giorni prima del rogo. E’ troppo facile addossare tutte le responsabilità dei gravi disordini che caratterizzano tutti i giorni i centri di detenzione in Italia, fino al punto di contestare loro i reati di devastazione e saccheggio quando si registra soltanto la distruzione di alcune suppellettili da parte di persone portate oltre qualsiasi limite di esasperazione. Prima che diventi troppo tardi occorre intervenire per rimuovere le cause che spingono verso la disperazione persone delle provenienze più diverse, addirittura anche alcuni che sono rimasti vittima della sanatoria truffa ordita nel 2009 dal governo italiano.
Chiediamo la regolarizzazione degli immigrati irregolari presenti in Italia che dimostrino di avere un rapporto di lavoro, l’effetto sospensivo dei ricorsi contro i dinieghi dello status di protezione, la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari per tutti coloro che sono arrivati dalla Libia, paese che ancora non garantisce il rispetto dei diritti umani. Chiediamo soprattutto la riapertura dei canali di ingresso legale e la chiusura dei centri di detenzione amministrativa, dopo l’entrata in vigore della normativa comunitaria che impone di procedere al rimpatrio volontario prima di porre in essere le pratiche amministrative di rimpatrio forzato. Una normativa, quella comunitaria, che non può continuare ad essere aggirata dalla legge 129 introdotta nel 2011, che costringe al rimpatrio forzato in tutti i casi nei quali si ravvisi un “pericolo di fuga” anche per la mera mancanza di un passaporto. L’ennesimo tentativo, dopo la circolare Manganelli del dicembre 2010, per sterilizzare le poche garanzie di difesa con riguardo al controllo sulla limitazione della libertà personale, previste dalla direttiva comunitaria 2008/115/CE sui rimpatri, in favore di tutti gli immigrati irregolari. Persone, esseri umani, non rifiuti da scaricare alla prima occasione.
– Sentenza del Tribunale di Palermo n. 2976 dell’11 giugno 2008