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Diritto di asilo – Libero dalla paura… per un anno

La testimonianza di M.B.

Rojbas,
mi chiamo Muslum, sono nato il 1° gennaio del 1975 a Urfa-Bozova, nel Nord Kurdistan (Kurdistan turco). Sono kurdo di religione zoroastriana.
Mio padre si chiama Imam; è contadino.
Mia madre Leymun è casalinga. Abitano nel villaggio di Sigircik (Urfa).
Siamo in dodici fratelli.

Ho chiesto asilo politico in Italia, perché nel mio paese c’è la guerra, c’è repressione, si usa sistematicamente la tortura, che anch’io ho sperimentato più volte.
Sono fuggito anche dalla costrizione di dover svolgere il servizio militare per uccidere i miei fratelli kurdi, sono fuggito dal potere militare che governa anche oggi il mio paese e che impedisce a me e tutti i kurdi di vivere con dignità.
Nel 1982 mio padre è stato arrestato e condannato a 3 anni di carcere con l’accusa di collaborazionismo, solo per aver dato acqua e cibo ad alcuni ragazzi che glielo avevano chiesto. Per questo motivo da allora tutta la mia famiglia è stata fatta oggetto di speciale sorveglianza da parte dell’esercito e delle forze speciali. Un grave problema che abbiamo dovuto affrontare, in quegli anni, è stata la difficoltà a coltivare i nostri campi ed il conseguente aumento della nostra povertà, a causa all’assenza di mio padre incarcerato. Insieme a mia madre, tutte le estati, ci recavamo a lavorare nei campi di cotone ad Adana alle dipendenze di un latifondista, che ci costringeva a lavorare duramente per 10-12 ore al giorno per un compenso minimo: anch’io, seppur piccolo, ed i miei fratelli e sorelle lavoravamo alla raccolta del cotone.
Tornato mio padre le cose sono andate meglio.
Ho frequentato le scuole fino a 16 anni. Varie volte sono stato castigato dagli insegnanti, con punizioni corporali, perché, con i miei compagni, parlavo in curdo, la lingua che ho imparato in casa mia, perché i miei genitori, analfabeti, conoscono solo quella.
Un giorno mi sono rivolto all’insegnante in curdo, la lingua che mi viene più spontanea parlare: sono stato espulso non solo dalla scuola che frequentavo, ma da tutte le altre scuole. Così, nonostante volessi continuare a studiare, ho dovuto trovarmi un lavoro vendendo giornali.

Il primo arresto e la fuga in Germania
Nel 1993 collaboravo e distribuivo un giornale d’opposizione al regime che si chiamava “Ozgur Ulke” ad Antalya. Il giornale è stato soppresso. C’era una situazione da guerra civile, documentata da tutte le organizzazioni che si occupano di Diritti Umani ed anche da Amnesty International, di cui, ora, sono socio attivo.
Un giorno sono entrato in un caffè ad Antalya con i giornali che stavo distribuendo, quando un gruppo di razzisti turchi sono venuti verso di me, hanno cominciato a picchiarmi. Poi sono arrivati i poliziotti che anziché portarmi all’ospedale mi hanno portato in caserma e visto che ero un curdo ne hanno approfittato per sottopormi a torture: per tre giorni mi hanno picchiato con calci e pugni ed hanno usato su di me le scosse elettriche (picana), quindi hanno aperto contro di me un procedimento giudiziario presso il Tribunale speciale di Konya, un tribunale istituito per giudicare gli oppositori politici.
In seguito sono ritornato ad Urfa dove l’esercito mi aveva imposto di presentarmi ogni settimana in una caserma dove dovevo firmare. Il nome della caserma è Yaylak.
Sentendomi minacciato e in pericolo di vita, ho deciso di fuggire all’estero. Nel maggio 1994 sono andato in Germania dove gestivo con mio fratello Ismail un ristorante. Una sera sono entrati nel ristorante nove naziskin, persone che non avevo mai visto, e avevano preso ad insultarmi dicendomi d’andarmene dalla Germania, mi minacciavano di morte; io ho tentato di telefonare alla polizia, loro me l’hanno impedito e si sono messi a distruggermi il ristorante. Ho avuto una colluttazione con loro, ho ferito uno di loro. Gli altri otto sono scapparti, è rimasto solo quello ferito, ho chiamato la polizia che è arrivata e mi ha portato in caserma; ho subito un processo e sono stato condannato ma non ho scontato la pena in carcere poiché sono stato espulso in Turchia.

Il ritorno in Turchia
Il 23 novembre 2002 due poliziotti mi hanno accompagnato nel viaggio aereo fino a Istanbul. Arrivato all’aeroporto di Istanbul sono stato arrestato dai poliziotti turchi dell’antiterrorismo: mi hanno torturato per sei giorni e intanto mi accusavano di aver fatto attività politica mentre ero in Germania, mi accusavano di essere un simpatizzante del PKK. Durante la detenzione sono stato più volte picchiato, mi hanno inflitto la falaka (percosse sulle piante dei piedi), le scosse elettriche, mi hanno spento sul corpo sigarette, sono stato legato strettamente nei polsi e ai piedi; tra una seduta di tortura e l’altra, mi mostravano foto di persone che dovevo riconoscere, io non le avevo mai viste prima, per questo riprendevano a picchiarmi con maggiore intensità. Durante quei 6 giorni mi è stato impedito di contattare un avvocato, né alcuna altra persona. I miei aguzzini mi dicevano “Perché vuoi chiamare un avvocato, siamo noi i tuoi avvocati! ”Tutte le sere sei guardie del carcere mi portavano in infermeria dove un medico mi chiedeva se ero stato torturato; siccome le sei guardie erano sempre presenti, per paura, ero costretto a negare. Le torture che mi praticavano non lasciavano segni sul mio corpo, quindi era difficile anche per il medico rendersi conto di ciò che mi infliggevano durante il giorno.
Dopo questi sei giorni mi hanno ordinato di andare a Sivas per il servizio militare, dove dovevo trovarmi entro due giorni.
Sapevo che i curdi che prestano servizio militare di leva sono particolarmente discriminati e costretti a partecipare ad operazioni militari contro altri curdi, ero anche a conoscenza di morti di militari di leva curdi, fatte passare poi per suicidi, per questo avevo molta paura di andare a Sivas.
Ho preferito andare prima dalla mia famiglia che non vedevo da tanti anni. Sono stato qualche settimana con la mia famiglia. I militari venivano a cercarmi ma non sono riusciti a trovarmi. Sono andato da mia sorella che vive ad Antep e in questa città il 5 febbraio 2003 c’era una manifestazione per chiedere la fine dell’isolamento di Ocalan e che gli fossero permesse le visite degli avvocati. Manifestazioni che con le stesse richieste si svolgevano contemporaneamente anche in tante città europee. Come curdo io dovevo partecipare.
Sono stato arrestato dai poliziotti dell’antiterrorismo e per quattro giorni mi hanno torturato. E’ risultato di nuovo che non avevo fatto il servizio militare e perciò il 9 febbraio con due militari sono stato accompagnato a Sivas. All’arrivo a Sivas mi hanno picchiato. Un giorno un ufficiale mi ha chiamato e mi ha chiesto: “Sei un terrorista?” Ho risposto di no. Lui mi ha detto: “Ci è arrivata da Antep la relazione su di te, dicono che lo sei” Io ho risposto ancora che non era vero. Lui mi ha detto: “Qui ti ammazzano di sicuro e ci sarà anche una scusa per fare apparire la tua morte un suicidio: si dirà che qui non ti trovavi bene dopo essere vissuto comodamente per tanti anni in Germania”. Gli ho chiesto cosa mi consigliava di fare. Lui mi ha risposto che avevo una unica possibilità per fuggire: far sì che un mio parente chiedesse per me l’uscita di fine settimana. Ho chiamato mio cognato, il marito di mia sorella di Antep, gli ho riferito le cose che mi aveva detto l’ufficiale; mio cognato ha preso per me il permesso e siamo usciti fuori.
Abbiamo preso due biglietti: uno per Izmir e uno per Antep. Lui ha preso il bus per Antep e io quello per Izmir. Dopo questo, mio cognato per qualche giorno è stato arrestato ed anche torturato.

Il viaggio della speranza verso l’Italia
Io invece, il 24 maggio 2003, a Mersin, sono riuscito a salire su una nave per l’Italia.
Per il viaggio avevo dovuto pagare 3000 euro. Su quella nave di 24 metri eravamo in 177 persone: uomini, ragazzi anche donne incinte e bambini piccoli. Il viaggio è stato di sette giorni e sette notti. Giorni senza cibo, senza acqua, pensavamo di morire. Per i primi 2 giorni gli scafisti ci hanno costretto a rimanere nella stiva, dove c’era molto sporco e una gran puzza di benzina e olio combustibile, poi, durante i giorni successivi, ci lasciavano salire all’aria durante il giorno. Di notte era molto freddo e nessuno di noi aveva coperte per ripararsi. Gli scafisti ci hanno poi sequestrato e buttato a mare ogni nostro documento o effetto personale, anche le foto che avevamo, ultimo ricordo delle nostre famiglie.

L’arrivo in Italia: la fuga dal CPT di Crotone
Sono arrivato in Italia nella notte tra il 30 ed il 31 maggio 2003: sulla costa nei pressi di Crotone. Al mattino i poliziotti ci hanno portato in bus a Crotone, in un campo militare vicino all’aeroporto, il cpt di S. Anna.
Eravamo in moltissimi, forse migliaia, avevamo a disposizione solo 2 docce con acqua fredda e una decina di servizi igienici mal ridotti e sporchissimi. Per ricevere il cibo dovevamo fare una fila di circa 2 ore. Dormivamo a gruppi di 4 in container piccoli e sporchi, con solamente un materasso molto sporco senza lenzuola. I poliziotti che vigilavano erano molto duri e spesso, durante risse o alterchi tra noi detenuti, ci picchiavano violentemente .L’interprete per noi kurdi era un iracheno che non conosceva né il turco né la lingua che io parlo, cioè il kurmangi. Io ho detto subito che volevo fare domanda d’asilo in Italia. Ci facevano qualche domanda, ma dopo un mese di permanenza nel campo io ancora non avevo capito a che punto fosse la procedura, ed anzi ero spaventato perché due curdi che avevano fatto il viaggio con me erano stati rinviati in Turchia. Uno di quei due si chiama Muhittin Kaya, che ho saputo è stato incarcerato al suo arrivo in Turchia, dell’altro non so. Per non fare la loro fine una notte sono scappato dal CPT di Crotone e ho raggiunto Roma e trovando che le persone dovevano dormire anche nei parchi mi ero diretto verso Nord.

L’accoglienza in un progetto del Sistema di Protezione
Finalmente in ottobre sono arrivato a Parma; al CIAC mi hanno proposto l’inserimento nel progetto “Terra d’asilo” a Fidenza e da allora le mie condizioni sono cambiate: ho trovato ospitalità, una borsa lavoro che mi ha consentito di vivere dignitosamente e la possibilità di rendermi utile al Centro di Accoglienza della Caritas di Fidenza ed in altre associazioni di volontariato, come Amnesty International e Jambo (Commercio equo e solidale). Ho frequentato un corso di lingua italiana e ho potuto inserirmi bene nella città che mi ospita.

Il lungo iter burocratico
Ho fatto domanda per l’ottenimento dello status di rifugiato il 30-09-03, sono stato convocato alla Commissione Centrale di Roma il 2-2-05. L’audizione è stata brevissima (circa 10 minuti) e, troppo superficiale, non attenta alle persecuzioni ed alle torture che ho subito e che avevo riferito nella memoria scritta consegnata al momento di inoltrare la domanda di asilo. Il 7-7-05 mi è stato notificato il diniego.
Frequentemente, soprattutto in questi ultimi mesi, i militari vanno a casa dei miei vecchi genitori a Bozova per cercarmi, suscitando grande paura soprattutto in mio padre ex prigioniero politico kurdo nelle carceri turche ed attualmente sindaco per il partito Dehap (partito legalmente riconosciuto) a Sigircik (Bozova) e di mia madre. Nella loro penultima “visita” i militari sono arrivati nel mezzo della notte, non avevano alcun mandato di perquisizione, sono entrati con violenza in casa, minacciando con frasi e gesti i miei genitori, i miei fratelli e soprattutto le mie giovani sorelle, hanno rovistato in tutta la casa, chiedendo ad ognuno, separatamente, mie notizie, poi hanno sequestrato senza motivo il calendario e le bandiere del Dehap; era la fine di marzo del 2005, poco dopo la mia audizione presso la Commissione Centrale.
I militari sono andati altre volte a minacciare la mia famiglia e io ho paura non solo per la mia, ma anche per la loro incolumità.
Sono riuscito, grazie all’interessamento di Acnur, Ciac e Amnesty, ad ottenere un riesame presso la commissione centrale e da alcune settimane ho il permesso per motivi umanitari per un anno. Subito sono riuscito a trovare un lavoro. Ora mi sento finalmente libero dalla paura di essere costretto a ritornare in Turchia; ma il prossimo anno non so cosa mi accadrà.

L’impegno per il Kurdistan, nonostante l’esilio
Durante la mia permanenza in Italia ho cercato di far sapere le pesanti e ripetute violazioni che ho vissuto io e tutto il mio popolo: un popolo senza terra, senza identità, senza diritti, un popolo che, nonostante tutto non si piega.
Pochi conoscono la questione kurda in Turchia e proprio per questo silenzio, molte volte complice delle ingiustizie, queste ultime possono continuare ad essere perpetrate con impunità.
Nel Kurdistan c’è una guerra a bassa intensità che dura da più di 20 anni, il secondo esercito meglio equipaggiato della Nato è schierato contro un popolo che nessuno riconosce, che è mantenuto nella povertà e nell’ignoranza, a cui sono negati i fondamentali diritti umani, un popolo di 20 milioni di persone che non ha nemmeno il diritto di parlare la proprio lingua, di mantenere viva la propria cultura. Durante questi ultimi 20 anni l’esercito turco ha distrutto 4000 villaggi, uccidendo o cacciandone gli abitanti, si sono creati 4 milioni di esuli, 10000 desaparecidos, innumerevoli sono anche oggi i casi di tortura, di detenzioni inumane, come quella di Ocalan e di tutti i prigionieri politici nelle celle di tipo F.
Questo è il triste bilancio di una delle tante guerre dimenticate, forse quella più vicina a casa nostra, ma ampiamente ignorata, perché la Turchia, che è una dittatura militare, perché ai militari spetta, secondo la costituzione del 1980, la decisione finale per tutto ciò che concerne la sicurezza della stato e perché la lobby militare o Oyak è una potenza economica, è molto importante sia economicamente che per la sua posizione geopolitica in medioriente. Proprio in Kurdistan c’è anche una enorme ricchezza: l’acqua.

In Kurdistan chi chiede pace finisce in prigione: è il caso degli scudi umani, giovani che, armati solo di una maglietta bianca con scritto in kurdo e turco “pace”, vanno nei luoghi dove sono avvenuti scontri a fuoco per chiedere pace; per questo vengono incarcerati. Da alcuni mesi a questa parte è aumentata la violenza e le uccisioni di civili inermi: è il caso del dodicenne Ugur, dell’uso sproporzionato della forza nelle manifestazioni pacifiche, come quelle per i fatti avvenuti a Semdinli.
Nell’avvio dei negoziati per l’ingresso della Turchia in Europa ci si è dimenticati, forse volutamente, del mio Paese, ancora una volta il paese che non c’è! Il paese in cui vorrei vivere in pace, senza paura, con la stessa dignità e gli stessi diritti di tutti gli altri abitanti della Turchia.