Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Diritto di asilo e gestione delle frontiere interne ed esterne nella politica dell’UE.

Lampedusa, l’accordo Italia-Libia e la situazione greca.

La figura dell’apolide e del rifugiato

– Decenni fa, Arendt ci ha insegnato a considerare la figura dell’apolide come l’emblema dell’ ‘uomo in quanto tale’, privo di ogni tutela che non sia quella fragile e difficilmente azionabile dei diritti umani. Nelle sue parole, la condizione del profugo è quella che più di ogni altra esplicita i limiti di tali diritti, la soglia al di là della quale essi perdono di efficacia proprio nel momento in cui dovrebbero invece acquisire la pienezza della loro potenza e del loro significato, ovvero quando dovrebbero diventare azionabili da parte di esseri umani cui non è rimasto altro cui potersi appellare. E invece, come Arendt scriveva, “I diritti umani si sono rivelati inapplicabili, persino nei paesi che basavano su di essi la loro costituzione, ogni qual volta sono apparsi individui che non erano più cittadini di nessuno stato sovrano ” (Cfr. Arendt, H., Le origini del totalitarismo, cit., p.406).
Da quando è stato scritto quel capitolo de Le origini del Totalitarismo, sono ormai passati sessant’anni. In questo relativamente lungo lasso di tempo si sono succeduti vari tentativi formali di dare al diritto d’asilo, e quindi alla protezione dell’ “uomo senza Stato”, così centrale per la credibilità dell’intera dottrina dei diritti umani, strumenti di garanzia e tutela.

Sovrapproduzione giuridica sull’asilo

– La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, con l’Art. 14 e la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato (con la contestuale creazione di un’agenzia Onu che avesse come mandato specifico quello di verificarne la reale applicazione nei diversi paesi aderenti e di promuoverla in tutti gli altri), sono solo i principali testi di diritto internazionale in cui l’asilo viene definito come diritto fondamentale. In ambito nazionale la sua tutela viene assunta come principio imprescindibile nella maggior parte delle costituzioni in tutta Europa: ne è un esempio l’art. 10 della Costituzione italiana che ha dato una definizione ancora più inclusiva, rispetto a quella della Convenzione di Ginevra, di chi può essere considerato rifugiato.
A livello comunitario c’è l’art. 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, e poi le direttiva comunitarie 2004/83/CE (norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta), recepita dal d.l. 19 novembre 2007, n. 251, e la direttiva 2005/85/CE (norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato), recepita invece dal decreto legislativo 28 gennaio 2008 n.25 (oggi peraltro già modificato da un nuovo decreto del novembre del 2008).
Ci troviamo, quindi, di fronte a quella che potremmo quasi definire una ‘sovrapproduzione’ di Convenzioni, Dichiarazioni e testi di legge vari, volti alla promozione e alla tutela del diritto d’asilo. Nonostante ciò, la condizione reale del diritto d’asilo nell’Europa contemporanea appare particolarmente fragile quando non drammatica.

Alcuni accenni alla situazione attuale dell’asilo in Europa

– L’asilo oggi, infatti, appare un istituto progressivamente svuotato e privo di efficacia sotto svariati punti di vista. Innanzitutto ciò accade perché la definizione che di ‘rifugiato’ si è data nel 1951 (e ripresa poi dalla maggior parte dei successivi testi di legge) appare oggi, in un panorama geopolitico radicalmente mutato, eccessivamente schematica e restrittiva. Inoltre, e soprattutto, ciò che rende sempre più spesso lettera morta il diritto d’asilo in Europa sono quella infinità di ostacoli posti in essere dagli Stati di attraversati dai migranti rispetto ad un suo efficace esercizio.
Va detto che l’asilo è di per sé, per come è stato formulato fin dal secondo dopoguerra, un “diritto individuale monco” o imperfetto, perché al diritto dell’individuo di cercare protezione fuori dal proprio Stato non corrisponde uno specifico dovere posto in capo ad una altro paese di accoglierlo e proteggerlo (Cfr. Belvisi, F., Il diritto d’asilo tra garanzia dei diritti dell’uomo ed immigrazione nell’Europa comunitaria. In “Sociologia del diritto”, 1995/1, pp. 53-76).
Oggi più che mai, però, si assiste ad un eccesso di deresponsabilizzazione da parte degli Stati europei rispetto alla tutela dell’asilo politico ed anzi ad un intrecciarsi di tentativi, tanto a livello comunitario che a livello nazionale, tutti volti a ridurne il più possibile l’efficacia e la portata pur continuando a dichiarare la sua imprescindibile solennità.
È legittimo chiedersi quali siano le reali motivazioni di questa costante involuzione, consapevoli che la risposta a un simile interrogativo non può che essere particolarmente complessa.

Bisogna innanzitutto dire che quello all’asilo resta ormai l’unico diritto che, secondo ordinamenti nazionali e internazionali, tutela (o dovrebbe tutelare, almeno nella maggior parte dei casi) dalle espulsioni e dai respingimenti le persone che attraversano irregolarmente una frontiera, attribuendo loro, anzi, tutta una serie di diritti correlati e di garanzie. Ed è appunto per questo motivo che – allo scopo di metter in pratica le politiche di gestione repressiva delle migrazioni che almeno a partire dagli ultimi trent’anni hanno caratterizzato tanto gli Stati europei quanto gli Stati Uniti e l’Australia – questi paesi hanno scelto in qualche modo procedere a un suo graduale ‘svuotamento’.
In generale, Convenzioni come quella di Dublino del 1990, poi sostituita dal Regolamento cosiddetto “Dublino II” (Ce n.343/2003); principi come quello dei ‘paesi terzi sicuri’, gli Accordi di riammissione coi paesi di transito e, più genericamente, i tentativi di esternalizzazione delle procedure d’asilo; la detenzione amministrativa, ormai ovunque legalizzata, dei richiedenti asilo per tutto il tempo ritenuto ‘necessario’ alla valutazione della loro domanda, ma anche la declassazione da rifugiato ad avente diritto alla più effimera protezione sussidiaria, per non parlare della possibilità di revoca dello status per motivi di sicurezza o di ordine pubblico, sono i principali strumenti che stanno gravemente mettendo a rischio l’esistenza stessa del diritto d’asilo in Europa.

Per poter giustificare una simile prassi è stato anche qui necessario ricorrere, da parte dei governi, a tutta un filone nuovo di “discorsi ufficiali” (per citare Foucault) sempre connessi a quelli relativi alla sicurezza e all’ordine pubblico e volti a screditare la figura dei profughi, alimentando spesso deliberatamente la confusione tra scafisti, profughi, potenziali richiedenti asilo, migranti e criminali tout court. La richiesta d’asilo strumentale ormai viene raccontata come la normalità, mentre l’eccezione sembra essere il ‘vero’ rifugiato che purtroppo per lui si nasconde in mezzo ad un ammasso di usurpatori che fanno solo i loro interessi economici (i cosiddetti ‘bogus asylum seekers’). Due anni fa Lorenzo Trucco scriveva che “i drammatici fatti di Lampedusa, al di là delle spaventose condizioni di arrivo dei profughi, ne sono la conferma, in quanto la suddivisione tra i soggetti , in relazione alla formulazione o meno della domanda d’asilo, resta priva di effettive garanzie” (Cfr. Trucco L., Asilo: quale tutela giurisdizionale?, in Vassallo Paleologo F., Cuttitta, P. (a cura di), Migrazioni, frontiere, diritti , cit, p. 270). Queste stesse parole sono, oggi più che mai, ancora tremendamente attuali.
Nell’ultimo periodo, però, si stanno definendo altri panorami inediti che costringono a superare anche queste riflessioni che pure risultano in gran parte ancora appropriate: dopo che l’Acnur, le agenzie di stampa indipendente, le Ong, i movimenti, si sono affannati a dimostrare in maniera abbastanza incontrovertibile che la maggior parte delle persone che arrivano a Lampedusa, a Malta o in Grecia sono effettivamente potenziali rifugiati e che sempre di più chi compie i viaggi più pericolosi è chi fugge da situazioni dove è a rischio la sua stessa sopravvivenza, questo messaggio sembra a volte raggiungere le orecchie dei governi e dell’opinione pubblica. Una nuova strategia retorica, ultimamente, si è così aggiunta alle precedenti senza peraltro eliminarle: essa consiste il più delle volte in un’alzata di spalle, accompagnata da frasi come:‘d’accordo, sono profughi, ma noi che ci possiamo fare? C’è la crisi.
La realtà dei fatti, effettivamente, è che rispettare il diritto d’asilo ha dei costi. Costi irrilevanti, va detto, se comparati alle risorse economiche messe in campo per i dispositivi di controllo della mobilità migrante o in generale rispetto al dispiegamento di tutti quegli strumenti dichiarati necessari per garantire la sicurezza dei cittadini, ma pur sempre costi. E in tema di migrazioni sembra oggi inaccettabile parlare un linguaggio che differisca da quello dei vantaggi dei paesi d’arrivo, o dell’opportunità. Il linguaggio dei diritti non negoziabili è sempre più tacciato di buonismo e di scarso realismo, quando non di idealismo o di idiozia.

Un simile atteggiamento cerca facile legittimazione in alcuni degli effetti perversi delle politiche europee in materia di asilo: a causa della convenzione di Dublino, infatti, sono proprio i paesi più piccoli come Malta e Cipro, o quelli più economicamente instabili, come la Grecia e l’Italia, a dover per legge far fronte alla richiesta d’asilo di chi entra nell’Ue. Ciò perché questi Stati sono le ultime frontiere a sud e ad est del territorio dell’Unione e si ritrovano quindi ad essere tappe obbligate nel percorso di migranti che il più delle volte non avrebbero alcuna intenzione di restarvi stabilmente. In questa situazione ha trovato terreno fertile una nuova alleanza mediterranea tutta basata sul contrasto dell’immigrazione ‘clandestina’.
Recente formalizzazione ne è stata la “Dichiarazione congiunta” sottoscritta dall’Italia con la Grecia, con Malta e con Cipro, dopo un incontro dei ministri dell’interno dei quattro paesi. In questo documento si definisce una posizione comune nel richiedere un maggiore contributo finanziario dall’Unione Europea per il contrasto dell’immigrazione irregolare, una più equa distribuzione degli oneri di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, e maggiori garanzie rispetto all’effettiva riammissione nei paesi di origine o di transito di coloro che giungono irregolarmente. I toni di questo Patto sono allarmistici e descrivono una situazione da catastrofe imminente.
Eppure, nonostante i proclami più o meno ufficiali, di fronte al numero dei rifugiati che arrivano in Europa, non è certo a rischio l’autoconservazione dei nostri Stati, unico motivo plausibile per cui, secondo Kant, era possibile derogare dal “dovere morale imperfetto di aiutare e offrire riparo a coloro la cui vita, integrità e benessere si trovano in pericolo ” (Cfr. Benhabib, S., I diritti degli altri. Stranieri, residenti, cittadini. Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, p. 29).
È sempre bene ricordare che la maggior parte dei rifugiati del mondo viene infatti accolta dai paesi più poveri e direttamente confinanti con le zone di conflitto, quando non all’interno degli stessi confini dello Stato da cui si cerca rifugio, come avviene nel caso dei ‘displaced people’.

Questa premessa generale può forse aiutarci a capire almeno in parte cosa stia oggi succedendo alla frontiera sud di Lampedusa e a quella est dei porti dell’Adriatico.

1) Lampedusa

In nome della sicurezza

– Lampedusa rimane la frontiera più spettacolarizzata d’Europa, quella intorno alla quale si continuano a giocare le partite simbolicamente e politicamente più rilevanti, il laboratorio sperimentale delle prassi più repressive messe in atto contro i migranti, il luogo dove testare fino a che punto, in nome della sicurezza, è possibile violare i diritti fondamentali delle persone senza incorrere nel dissenso popolare o nelle condanne europee.
Lampedusa è anche un laboratorio di militarizzazione. In questo momento c’è un uomo in divisa per ogni migrante. Tutti i corpi delle forze militari e di polizia sono ad oggi presenti sull’isola. Prove di militarizzazione, dunque, come quelle che stanno avvenendo in maniera più graduale nelle nostre città, usando come pretesto, in questo secondo caso, i corpi delle donne. Che le cose siano strettamente connesse tra loro è dimostrato dal fatto che proprio all’interno del decreto di emergenza sugli stupri è stata fatta passare la norma concernente l’aumento dei mesi di detenzione negli ex Cpt, oggi Cie, da due a sei mesi, grazie alla copertura fornita dalla direttiva comunitaria sui rimpatri che tollera addirittura il limite di un anno e mezzo di trattenimento all’interno di queste strutture.
Ma cosa c’entrano i Cie con i recenti fatti di violenza sessuale che abbiamo letto in prima pagina su tutti i giornali degli ultimi mesi? Praticamente nulla, evidentemente. Anche volendo procedere per stereotipi, unico linguaggio che sembra oggi alla portata dei media mainstream, la figura dello ‘stupratore’ che imperversa nelle nostre metropoli è oggi costantemente associata a quella del giovane romeno, cittadino europeo e non extracomunitario, che quindi non viene minimamente interessato dai cambiamenti che riguardano la legge sull’immigrazione.
È sulla base di questi equivoci costruiti, però, che si creano le condizioni perché tutto, proprio come è avvenuto, possa succedere simultaneamente: nel giro di poco più di un mese sono aumentati i tempi di detenzione nei centri, è cambiato lo status formale di quello di Lampedusa (che era già passato da Cpt a centro di prima accoglienza e che ora diventa un Cie) e, come era prevedibile, si inizia a definire la prima lista provvisoria di altre dieci strutture di detenzione etnica da aprire nell’improvvisazione su tutto l’arco del territorio italiano, e per le quali sono stati stanziati 40 milioni di euro.
Ognuno affronta la crisi come può, verrebbe da dire, tanto a pagare saranno sempre i soliti.

Partenariato euro mediterraneo e rapporto con la Libia

– Lampedusa rappresenta anche, e pienamente, il fallimento dei presupposti del Partenariato Euromediterraneo siglato dalla Conferenza di Barcellona del 1995, basati sull’idea dello scambio e della collaborazione virtuosa tra le due sponde. Per valutare la portata dell’occasione perduta, basta forse pensare come quel tavolo di Barcellona sia stato l’unico luogo che abbia mai visto Israele e Palestina impegnarsi formalmente in un progetto comune.
Al di là della disfatta della logica neoliberista che sottendeva l’accordo – secondo la quale il libero mercato avrebbe agevolato le economie dei paesi svantaggiati (peraltro imponendo dazi sui prodotti agricoli della sponda sud e liberalizzando solo quelli della sponda nord) – il principio fondante che prevedeva la subordinazione di ogni forma di cooperazione al pieno rispetto dei diritti fondamentali è stato certamente il primo a naufragare, e non è un caso che lo abbia fatto proprio a partire dal tema delle migrazioni e dell’asilo
Anche in questo caso, infatti, le migrazioni non sono state mai considerate viste come un’interdipendenza positiva tra le due rive, ma come una interdipendenza negativa costantemente strumentalizzata per ridefinire i rapporti di forza all’interno di un accordo sempre più eurocentrico e asimmetrico.
Gli scambi commerciali che dovevano in origine essere subordinati al rispetto dei diritti umani sono invece stati definiti in relazione alla partecipazione più o meno attiva dei paesi della sponda sud al controllo delle migrazioni verso l’Europa.

Va comunque sottolineata, però, anche la grave responsabilità di paesi, come la Libia e la Tunisia, che sembrano trovar nulla da ridire sulle modalità con cui è stata condotta e viene condotta tutt’ora questa partita, né sul fatto che la merce di scambio siano i corpi vivi dei migranti e dei richiedenti asilo.
Gheddafi ha sempre utilizzato la carta delle migrazioni per mantenere sotto ricatto l’Italia e l’Europa tutta, mentre la Tunisia ha ricevuto notevoli benefici in cambio della propria cooperazione nel contrasto all’immigrazione irregolare.
Ai cittadini tunisini sono state riservate quote privilegiate nell’ambito dei decreti flussi emanati annualmente per limitare e regolare l’immigrazione legale di lavoratori stranieri in Italia, e sono state aumentate le cifre stanziate dal governo italiano per i programmi di cooperazione allo sviluppo in Tunisia.

Suggello di questi accordi sono da anni le imprese di spettacolarizzata repressione messe in atto sull’isola di Lampedusa. E questo è avvenuto secondo un percorso di totale continuità che lega l’operato dei governi di centro-destra e di centro-sinistra anche se, evidentemente, i primi sono meno ipocriti nel consumare a casa loro, invece che limitarsi a delocalizzarla, la violenza più esplicita.

Breve storia delle recenti relazioni tra Italia e Libia

– Il primo accodo bilaterale tra l’Italia e la Libia risale al 200, stesso anno in cui, non a caso, Gheddafi diede il via alle retate dei migranti irregolari nei quartieri di Tripoli. Nell’ambito di questo accordo l’Italia ha finanziato tre campi di detenzione e i voli di rimpatrio e fornito la Libia di svariati sacchi neri e alcune motovedette.
Stando ai dati riportati da Fortresse europe ad oggi in Libia sono operativi 28 centri di detenzione, situati per lo più sulla costa: “Centri di raccolta, strutture più piccole considerate di transito, vere e proprie prigioni di cui un settore è dedicato agli stranieri senza documenti”.
Nessuna convalida da parte di un giudice dà una parvenza di legalità alle pratiche di trattenimento che si consumano al loro interno, mentre la reale tutela dei diritti fondamentali e le condizioni igienico-sanitarie, come si legge nei rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch, versano in condizioni drammatiche. Nei centri finiscono indistintamente tutti i migranti ‘irregolari’, indipendentemente dalla loro nazionalità e dalla loro storia.

Del resto, è sempre bene ricordarlo, la Libia non ha alcuna legge che regolamenti l’asilo politico e non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.

Sono fondamentali, nell’ambito dei rapporti tra l’Italia e la Libia, gli anni del 2004 e del 2005, quando dalle coste lo Stato libico lasciò partire dalle proprie coste migliaia di migranti che vennero poi concentrati nell’allora cpt di Lampedusa per essere poi nuovamente deportati nella terra di Gheddafi, a bordo di cargo militari C-130 che si alternavano a normali voli di linea. Fu soprattutto dopo quegli episodi che la Libia, sotto pressione soprattutto italiana, iniziò ad acquisire nuovo prestigio in ambito internazionale.

Anche al livello dell’Unione europea la storia della cooperazione con la Libia in materia di immigrazione comincia formalmente nel 2004, quando venne definito il programma comunitario “Migrazione e asilo” all’interno del quale L’Oim (organizzazione intergovernativa che basa il proprio lavoro sul’ipocrisia dei ‘rimpatri volontari’) aveva un ruolo di primo piano. Nell’ambito di quel progetto si iniziarono a mettere da parte risorse europee messe da parte dedicate all’esternalizzazione della detenzione amministrativa nei paesi di origine e di transito e alle politiche di rimpatrio e trasferimento dei migranti. Nessuna attenzione veniva dedicata allo stato dei diritti fondamentali nei paesi che finanziati a questi scopi.
Gli stessi principi hanno del resto caratterizzato il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, firmato a Bruxelles il 16 ottobre del 2008.
Il 22 novembre del 2006 si svolgeva poi a Tripoli il Vertice tra l’Unione europea e l’Unione africana in materia di immigrazione. Già la semplice scelta del luogo poneva in posizione di spicco la figura del Colonnello Gheddafi.
Nel frattempo Associazioni indipendenti come Amnesty International si sforzavano di esprimere la loro costante preoccupazione per la mancata tutela dell’asilo in Libia, per le condizioni di detenzione dei migranti, per le frequenti espulsioni di massa e lesive del principio di non refoulement.
Nonostante ciò, il vertice euro-africano di Lisbona, nel 2007, vedeva il presidente libico assumere un ruolo da protagonista, dettare le condizioni sul tema del contrasto all’immigrazione irregolare verso l’Europa, e chiedere all’Unione europea un miliardo di euro per fornire la propria collaborazione in questo settore.
Nel dicembre del 2007, sotto il governo Prodi, viene firmato un protocollo tra Libia e Italia che include l’avviamento di un sistema di controllo misto italo-libico per le frontiere marittime e terrestri.
Nel 2008 vengono nel frattempo pubblicati ulteriori rapporti di HRW e la relazione di Hammarberg del Consiglio d’Europa. Tutti i testi ribadiscono il grave stato in cui versano i diritti fondamentali, e soprattutto i diritti dei migranti, in Libia.
Per tutta risposta, nel Febbraio del 2008, la Commissione europea cerca di chiudere un accordo con la Libia in materia di immigrazione, che però stenta tutt’oggi a prendere forma concreta. I negoziati sono iniziati lo scorso novembre.

Per tornare in ambito italiano, infine, il 30 agosto del 2008, a Bengasi, viene firmato da Berlusconi e Gheddafi, e finalmente divulgato pubblicamente, un “Trattato di amicizia, di partenariato e cooperazione” tra i due paesi, che prevede la “collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti, all’immigrazione clandestina”.
Questo atto si pone in evidente continuità con i Protocolli di cooperazione firmati a Tripoli il 29 dicembre 2007 dal governo Prodi e nasconde, dietro il pretesto del risarcimento italiano per i danni causati alla Libia in periodo coloniale, un accordo economico che ancora una volta usa la mobilità dei migranti come merce nelle trattative.

Nell’inverno del 2008, come abbiamo visto in tutti i telegiornali d’Italia e in molti di quelli europei, aumenta di molto, in proporzione rispetto al numero di persone arrivate durante lo stesso periodo negli anni precedenti, il numero di migranti che giungono a Lampedusa.

Sull’asilo a Lampedusa

– In questo frangente, dopo aver deciso di bloccare i trasferimenti dei migranti da Lampedusa verso gli altri centri italiani, Maroni si è trovato a dover affrontare la questione formale e materiale dell’accesso alle procedure di asilo, problema da aggirare in qualche modo per non attirarsi addosso eccessive critiche in ambito interno ma soprattutto comunitario.
Per questa ragione il ministro dell’Interno ha stabilito, con proprio decreto del 14 gennaio 2008, di procedere in via d’emergenza al trasferimento della Commissione territoriale per il riconoscimento del diritto d’asilo di Trapani sull’isola, perché le domande di asilo fossero immediatamente vagliate in loco. Solo quando si è reso palese fino a che punto fosse impossibile svolgere un’operazione tanto delicata in una situazione che si rivelava ogni giorno più esplosiva, alcune decine di richiedenti asilo sono stati trasferiti in altre parti d’Italia.
Il tentativo, comunque, era stato fatto, e anche in questo caso Lampedusa si è confermata laboratorio sperimentale delle peggiori politiche migratorie italiane ma anche europee: sull’isola, effettivamente, considerata quasi zona extraterritoriale, si è infatti tentato di dare concretezza a quella ipotesi dei ‘transit processing centres’ che, a partire dalla ‘proposte britanniche’ avanzate al consiglio europeo del 2003, si vorrebbero dislocati nei paesi extraeuropei, come luoghi in cui filtrare i potenziali rifugiati da tutti gli altri migranti per i quali invece, almeno in teoria, è previsto solo l’allontanamento.

Vale la pena tornare a ripetere fino a che punto simili politiche sull’asilo e il sistema di gestione bilaterale delle migrazioni abbia come principale conseguenza l’allungamento dei tragitti migratori – per aggirare i dispositivi di controllo tanto nei paesi di transito quanto in quelli di destinazione – e l’aumento della loro pericolosità. Vale la pena ripetere anche che la stragrande maggioranza delle persone che arrivano via mare (modalità d’ingresso peraltro utilizzata da una percentuale minima di persone rispetto alla totalità dei migranti irregolari presenti sul suolo italiano) sono potenziali richiedenti asilo.

Inoltre, ancora rispetto ai principi che dovrebbero regolare la protezione internazionale e in particolar modo quello relativo al non refoulement, tanto nel caso della Libia che in quello della Tunisia, venire deportati in questi Stati significa incorrere, nella maggior parte delle volte, in trattamenti a vario titolo inumani e degradanti. Il caso dei tunisini che hanno tentato il suicidio a Lampedusa pur di non essere rimpatriati, spiega più di tante parole lo stato dei diritti fondamentali in una Tunisia che l’Italia e l’Europa hanno invece tutto l’interesse di rappresentare come l’avamposto della democrazia nel mondo islamico.

2 – Le frontiere dell’adriatico

La violazione dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo, tanto è spettacolarizzata a Lampedusa, quanto è, ancora per il momento, resa invisibile alle frontiere est dell’Italia, quelle dei porti dell’adriatico, ad Ancona, Bari, Venezia.
In questi luoghi è quotidiana amministrazione applicare la prassi dei respingimenti con affido al comandante di tutti i profughi che arrivano nascosti dentro o sotto i tir in partenza dalla Grecia.
è da sottolineare come l’Acnur, con un comunicato dell’aprile 2008 abbia sollecitato gli Stati membri a sospendere la convenzione di Dublino quando si tratta di rimandare un richiedente asilo verso la Repubblica ellenica. Da segnalare è poi il rapporto di Human Rights Watch del novembre del 2008 e il recente rapporto datato al febbraio 2009 del Commissario Hammemberg del Consiglio d’Europa.
Tutti questi documenti hanno denunciato l’impossibilità nei fatti di chiedere e ottenere asilo politico in Grecia (0,4% di esiti positivi), i trattamenti inumani e degradanti subiti dai migranti ad opera della polizia greca tanto nei centri di detenzione quanto nei porti e nelle aree pubbliche, e soprattutto il concreto rischio di refoulement verso la Turchia, paese con il quale la Grecia ha concluso un accordo bilaterale nel 2002, che non ha ancora eliminato la riserva geografica sull’asilo e che rimpatria spesso verso l’Iraq e l’Afghanistan i profughi che intercetta.
Sulla base di questi documenti una recente sentenza del Tar della Puglia ha sospeso il trasferimento di un richiedente asilo che doveva tornare in Grecia ex Convenzione di Dublino, mentre la Norvegia ha in via generale sospeso la medesima Convenzione nei confronti della Grecia.

Percorsii confinati verso la Grecia e al suo interno – La rotta dell’Egeo sta assumendo dimensioni sempre più importanti nel panorama dei percorsi migratori, e ad attraversarla e a determinarla sono quasi sempre profughi in cerca di protezione, evidente ‘effetto collaterale’ delle guerre condotte in medio Oriente nelle quali anche l’Europa ha pesantissime responsabilità.
Gli afghani, ad esempio, si trovano a fuggire in Iran e poi in Turchia, da dove passano anche i profughi iracheni. Segue il difficile attraversamento della lingua di Mare che separa Smirne dalle isole greche e nella quale le polizie di entrambi i paesi si rimpallano le piccole barche non di rado distruggendo il motore o bucando i gommoni. Quando si riesce ad attraversarla si finisce poi, direttamente, nella costellazione dei centri di detenzione delle isole, dove si rimane per 90 giorni in condizioni di massima precarietà e sottoposti a violenze quotidiane. In questi centri vengono internati indistintamente minori e adulti. Di possibilità di richiedere asilo, ovviamente, neppure a parlarne.
Dopo questo internamento si possono seguire due strade. La prima è imposta dal governo quando decide di provare a deportare a ritroso rispedendo verso la Turchia. I migranti vengono allora trasferiti nella zona di Evros e nuovamente detenuti in attesa che il governo turco dia il via libera. Quando, come avviene la maggior parte delle volte, l’autorizzazione turca non arriva, le persone vengono a un certo punto liberate e abbandonate al confine.

La seconda strada è invece un misto di scelte soggettive e di controllo imposto: i migranti raggiungono Atene e da lì direttamente Patrasso, consapevoli che in Grecia, per loro, non c’è alcun futuro. Il governo greco ha al momento sospeso per decreto la ricezione delle richieste d’asilo.

Patrasso

Sono tornata da Patrasso due settimane fa e lì ho intervistato decine di afghani, la maggior parte minorenni, che si trovano in questa zona di concentramento informale in prossimità del porto che in realtà è una frontiera italiana de localizzata. ‘O Italia o morte’, dicono tutti, e infatti ogni giorno, a gruppi stabiliti, provano ad evadere dal limbo nascondendosi nei tir in partenza. Chi viene scoperto viene picchiato dalla polizia a volte fino a rompergli le ossa o, come ho potuto testimoniare direttamente, a fargli saltare le falangi delle dita delle mani.
Chi riesce a imbarcarsi, però, solo di rado incontra una sorte migliore. Dopo decine di ore di viaggio a morire di freddo nelle celle frigorifere o a rischio di asfissia nei cassoni coibentati, i migranti raggiungono i porti italiani e la maggior parte delle volte vengono scoperti dal personale addetto ai controlli. È a questo punto che entrano in gioco le pesantissime responsabilità dell’Italia, la cui polizia non consente di fatto la presentazione dell’istanza di asilo e respinge indietro in maniera informale e indiscriminata la maggior parte delle persone giunte irregolarmente nei porti (spesso anche minorenni) caricandole a forza sullo stesso vettore con cui sono arrivate. Nessun interprete, nessun operatore legale.
Per questo Zaher Rezai, minorenne e afghano, e quindi teoricamente titolare di tutti i diritti necessari per essere accolto in Italia, si era anche lui nascosto sotto un tir e ci era rimasto fino all’uscita dal porto. Della sua breve vita e della sua morte su una strada di Mestre, con il cranio fracassato e le sue poesie in tasca, si è parlato per qualche giorno mentre la prassi dei respingimenti continuava inesorabile. Come continua tutt’ora.
Il problema quindi, nel caso della mancata tutela del diritto d’asilo ai porti dell’adriatico, non riguarda neppure la già problematica Convenzione di Dublino, perché questi respingimenti con affido al comandante non sono giustificabili a titolo di nessun testo di legge nazionale o internazionale ed anzi li violano apertamente tutti.

Nei confronti di questi potenziali rifugiati, pertanto, avvengono violazioni ancora più estreme di quelle registrate a Lampedusa e solo ultimamente, con grande fatica, si sta iniziando a parlare anche di questa nuova frontiera del diritto s’asilo, intesa appunto come il luogo in cui questo diritto si infrange e lascia la persona che dovrebbe esserne tutelata, nella sua astratta nudità di essere umano in balia della violenza dei poteri costituiti.

3 – Forme di resistenza: abitanti di Lampedusa, migranti, associazioni veneziane

Eppure, nonostante questo fosco panorama, voglio concludere sottolineando quanto di positivo è possibile anche oggi intravedere e, soprattutto, in che modo i migranti rimangono soggetti attivi all’interno dei loro percorsi, e non solamente vittime che subiscono il controllo, le violazioni o le degenerazioni del diritto.

Con la Rete Antirazzista Siciliana sono stata a Lampedusa nel 2004 e nel 2005 per documentare quelle deportazioni di massa verso la Libia per cui l’Italia è stata in seguito condannata dal Parlamento europeo e dalla Corte europea dei diritti umani.
L’aria sull’isola, allora, era irrespirabile. Gli abitanti ci avevano fatto capire, fin da subito e in ogni modo, che non eravamo i benvenuti. C’era un convegno della Lega, negli stessi giorni, e la bandierina verde sventolava nella piazza centrale. C’era Borghezio e con lui la Maraventano, nel pieno della sua ascesa politica tutta costruita sulla demonizzazione dei migrante e su un finto interesse per il bene di Lampedusa. I profughi venivano chiamati ‘i turchi’, col nome degli storici invasori, e avvertiti come la causa di tutti gli innumerevoli disagi cui gli abitanti di quell’isola sono da sempre sottoposti: la mancanza di un vero ospedale, la carenza di scuole, la difficoltà dei collegamenti col resto del mondo.

Vedere quello che è invece avvenuto a Lampedusa negli ultimi mesi non può che fare felici e ridare speranza.
Senza false ingenuità non sto qui affermando che, di colpo, quei 5000 abitanti si siano riscoperti la roccaforte dell’antirazzismo italiano. Semplicemente, sono stati i primi a rendersi profondamente conto dell’imbroglio perché sono stati quelli che lo hanno maggiormente vissuto sulla loro pelle.
Hanno finalmente capito, gli abitanti di Lampedusa, che stare dalla parte dei diritti dei migranti vuol dire stare anche dalla parte dei propri diritti. Hanno capito che quelle migliaia di persone che arrivano ogni anno dal mare non scelgono la loro isola per comodità, ma perché costretti a seguire una rotta obbligata e prestabilita a tavolino. Hanno capito, infine, fino a che punto Lampedusa sia sempre stata strumentalizzata e abusata e utilizzata come laboratorio sperimentale e campo di prova.
Poi mi fa piacere pensare che forse ci abbiano anche preso gusto, nell’iniziare questa nuova battaglia, perché fa sentire meglio, ne sono convinta, quando le lotte per la propria dignità coincidono o si intrecciano con quelle della dignità degli altri. E sarebbe bello che fosse questo il messaggio assolutamente controcorrente che da Lampedusa si diffondesse, in questo momento, nel resto di Italia.

A Lampedusa sono esplose le contraddizioni dell’attuale tentativo di governo delle migrazioni. I lampedusani hanno dovuto imparare a loro spese che un richiedente asilo non è espellibile, che la maggior parte di quelli che arrivano dal mare fuggono da guerre e persecuzioni.
E la loro resistenza si è unita alla resistenza dei migranti, iniziata a Lampedusa con la famosa ‘evasione’ dal centro, e continuata con lo sciopero della fame, fino alla rivolta dello scorso 18 febbraio che ha fatto saltare tutti piani di Maroni, costretto finalmente a smistare almeno un parte delle persone detenute in altri centri d’Italia.
E anche lì, nei nuovi luoghi di detenzione, i migranti stanno continuando, da Milano a Torino, a protestare per i loro diritti.
Ed è in qualche modo una forma di resistenza anche il fatto che, nonostante tutto, le persone continuino ad arrivare dal mare, adesso a Porto Empedocle, segno tra i tanti che i desideri e le aspirazioni alla sopravvivenza o ad una vita migliore, questo immenso tentativo di ridistribuzione delle risorse e di ripristino di un po’ di giustizia fatto da donne, bambini e uomini inermi, non si può arrestare (obiettivo che non è certamente quello reale delle politiche migratorie italiane ed europee) ma neppure interamente condizionare dettando ad esso i tempi e le modalità.

Per quanto riguarda i porti dell’Adriatico è con orgoglio che penso al lavoro portato avanti dalla rete di associazioni ‘Tuttiidirittiumanipertutti” che sta riuscendo finalmente a dare visibilità a quanto accade al porto di Venezia, mentre anche ad Ancona le realtà antirazziste si riorganizzano attorno a questo tema centrale insieme a quello dell’annunciato Cie da costruire sul loro territorio. Non è un caso se i servizi su Patrasso abbiano ultimamente trovato inedito spazio sui giornali e nelle trasmissioni televisive.

Dei ragazzi che vivono nel campo di Patrasso, invece, mi viene sempre in mente il vaso pieno di fiori che stava sul tavolo della casetta di cellofan e legno dentro la quale facevamo le interviste. La loro dignità, il loro coraggio anche nel disperarsi per ricordare di essere uomini. E poi il loro continuare a combattere e a progettare.

Bisognerebbe vedere, per capire davvero, il modo in cui ogni notte si tenta la sorte per salire sui tir. Correndo, ridendo, come fosse un gioco. Da un lato, ovviamente, lo fanno perché non rimane altra scelta. Dall’altro, però, e io ne sono certa, si tratta di una sfida quotidiana, nonostante tutto, alle leggi del mondo.