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da Il Manifesto del 23 luglio

«Don Cesare è colpevole»

ANTONIO MASSARI

LECCE
Violenza privata e lesioni aggravate: don Cesare Lodeserto è già andato via quando il giudice Annalisa de Benedictis legge il dispositivo e pronunciando un elenco interminabile di norme lo condanna a un anno e quattro mesi di reclusione e lo relega al definitivo isolamento politico. E’ altrove il «prete dell’accoglienza» (come fino all’ultimo è stato definito dalla sua difesa) ma dietro la balaustra del tribunale ci sono le sue vittime: due dei 17 immigrati che hanno denunciato lui, suo nipote Giuseppe con la compagna Natalia, quattro operatori e dieci carabinieri. «L’importante è che l’abbiano condannato», dice una delle vittime. «Sono felice perché è stata fatta giustizia», dice l’altra, «anche se non completamente: un anno e quattro mesi sono troppo poco rispetto al male che ci ha fatto». E’ la notte del 22 novembre 2002 quando una trentina di immigrati tentano la fuga dal Cpt Regina Pacis di San Foca, in provincia di Lecce, all’epoca gestito da don Cesare: fu una notte di violenza e umiliazioni. Uno di loro, Montassar Souiden, a furia di botte perse i sensi. In quattro, la mattina successiva, furono costretti a mangiare carne di maiale servita su un manganello, come hanno testimoniato Jaku Daniel, il cuoco del centro, e Mustafà Taha, l’autista. Non solo percosse, ma anche frasi ingiuriose: «Dov’è ora il vostro dio?«, chiedevano gli operatori, secondo le testimonianze delle vittime, mentre alcuni carabinieri partecipavano attivamente e altri, quanto meno, non ne impedivano le violenze. E così, in questa sentenza storica, troviamo condannato un intero plotone (sedici persone) in tonaca, camici e divise: un anno e quattro mesi per i carabinieri Vito Ottomano e Francesco D’Ambrosio, accusati di aver costretto gli immigrati a mangiare maiale, mentre per altri cinque la pena è di un anno di reclusione. Assolti gli altri tre carabinieri che quella notte stazionavano nel centro. Un anno e due mesi per il nipote di don Cesare, Giuseppe, e la sua compagna Natalia Vieru. Nove mesi, infine, per quattro operatori e per i medici Anna Catia Cazzato e Giovanni Roberti, colpevoli di aver falsificato i referti medici relativi alle violenze. E’ l’unico reato, quest’ultimo, per il quale don Cesare viene assolto. Per tutti, invece, l’aggravante di aver agito con crudeltà.

«Una sentenza storica», conferma Marcello Petrelli, il difensore degli immigrati, «caratterizzata da un enorme spessore giuridico: l’assoluzione di alcuni e la condanna di altri conferma l’equilibrio e lo spessore di questo giudizio. Abbiamo avuto una condanna per violenza privata e lesioni aggravate, mentre il capo d’imputazione originario era quello di abuso dei mezzi di correzione: il giudice ha valutato il contenuto delle dichiarazioni degli immigrati e le ha ritenute fondate».

E’ stato un processo fondato sulle parole, più che sui documenti, che per la gran parte sono stati (evidentemente) ritenuti non esaustivi. Quelli della difesa, in particolare, che ha presentato turni, ordini e memoriali di servizio totalmente incongruenti tra loro. Alcuni mostravano evidenti segni di manipolazione. «Restituiteci don Cesare», aveva esordito nella sua ultima arringa il difensore del sacerdote, l’avvocato Pasquale Corleto, annunciando che la condanna, soprattutto quella relativa all’obbligo di mangiare carne di maiale, avrebbe costituito «un agguato alla Puglia, alla Curia, allo Stato: perché se è vero che non si tratta di un processo politico», ha specificato guardando negli occhi il pm Carolina Elia, «è anche vero che questo processo ha una grande rilevanza politica e sociale». E infatti, pochi minuti dopo la sentenza conferma: «Immagino che ora il legislatore dovrà procedere alla chiusura di questi centri, non so con quali iniziative legislative, ma dovrà prendere atto di questa sentenza».

Per il resto, si tratta «del primo capitolo di un lungo romanzo: l’accusa ha chiaramente un’impostazione erronea, poiché le querele presentate dagli immigrati sono state poi ritirate, ma il giudice ha evidentemente operato una coraggiosa operazione di salvataggio. Questa situazione troverà sbocco in Cassazione, dove questo nodo, all’ottanta per cento, sarà definitivamente sciolto».

Su don Cesare, condannato tre mesi fa ad altri otto mesi per simulazione di reato (s’era inviato un sms di minacce per ottenere la scorta), pendono ancora due procedimenti. Nel primo, tuttora in fase di indagine, è accusato di sequestro di persona, favoreggiamento all’immigrazione clandestina, lesioni e abuso dei mezzi di correzione ai danni delle ragazze che lo Stato gli aveva affidato in custodia, in base all’articolo 18 del testo unico sull’immigrazione, che prevede la protezione sociale per le donne vittime della tratta. Per il secondo, invece, è stato rinviato a giudizio, con l’accusa di peculato, per aver sottratto denaro dalle casse del Regina Pacis, che era sovvenzionato dallo Stato. «Attendiamo l’esito di questi altri due processi», commenta il sostituto procuratore Vincenzo Vignola, «per tirare le somme, almeno in questa prima fase del giudizio: non si è mai soddisfatti della condanna di nessuno, ma sono contento che siamo arrivati al capolinea di questa vicenda giudiziaria: significa che la magistratura, nonostante le attuali polemiche e accuse di parzialità, funziona ancora. So che non è stato semplice, per il pm Carolina Elia, cattolica convinta, sostenere l’accusa contro un prete. Ma le va riconosciuta, oltre la difficoltà del lavoro, la serenità e la professionalità con cui l’ha svolto».

E l’accusa contro il prete, da ieri trasformatasi in condanna, pesa ora sull’intera Curia leccese e sui poteri forti, del centrodestra e del centrosinistra, che sinora l’hanno sostenuta. Anche per questo, quella di ieri, possiamo annoverarla tra le sentenze storiche: iniziata il 340 novembre 2002 con le denunce del movimento pugliese, i cui membri entrarono in visita nel Cpt. Questa storia è andata avanti nonostante tutto. Nonostante lo senario che, sin da quel giorno, si andava profilando: non solo la condanna di un prete potente e amico dei potenti, non solo la delegittimazione di una parte dell’Arma e della Curia leccese con a capo l’arcivescovo Cosmo Francesco Ruppi.