Nei primi giorni di febbraio di quest’anno il ministro Maroni effettuava un viaggio in Libia allo scopo di avviare i pattugliamenti congiunti ai confini delle acque libiche e soprattutto per incentivare le deportazioni in quel paese di quanti fossero bloccati durante i tentativi di traversata. Il 4 febbraio, appena poche ore dopo l’approvazione definitiva da parte del Senato dell Trattato di amicizia tra Italia e Libia, veniva firmato l’ennesimo “protocollo attuativo” dei precedenti accordi del 2007 tra i due paesi. Un protocollo dai contenuti rimasti segreti, quello firmato da Maroni a Tripoli, che pur riferendosi soltanto ai “pattugliamenti congiunti”, andava ben oltre quanto contenuto negli accordi bilaterali firmati da Amato e da Manganelli nel dicembre del 2007. Una negoziazione personale e segreta, sottratta al controllo del Parlamento che quando aveva approvato il giorno prima gli accordi con la Libia, con la ratifica del “Trattato di amicizia”, aveva recepito soltanto i precedenti protocolli firmati nel dicembre del 2007 da Amato e da Manganelli, capo della polizia, protocolli che però non prevedevano la riconsegna ai libici delle persone, meglio dei naufraghi salvati dalle unità militari italiane in acque internazionali, più precisamente nella zona SAR (ricerca e salvataggio) di competenza del governo maltese. E invece l’impegno di Maroni sulla questione dei respingimenti è andato ben oltre quanto previsto da Amato, ed è arrivato ad ottenere la possibilità di riconsegnare ai libici quelle persone che in precedenza le unità militari italiane portavano in salvo a Lampedusa ed in altri porti siciliani. Un modello di soccorso e salvataggio che il Prefetto Morcone, capo del Dipartimento immigrazione del Ministero dell’interno, nel 2007 a Bruxelles, nel corso di una Conferenza su un nuovo sistema europeo per il riconoscimento del diritto di asilo, presentava come un esempio positivo che anche gli altri stati europei avrebbero dovuto seguire. Oggi quello che rimane del “sistema di accoglienza Lampedusa” lo si può leggere negli occhi sgranati dei pochi migranti che sopravvivono alla traversata e che riescono ancora a raggiungere le coste siciliane.
Le conseguenze di questo artificio diplomatico sono state catastrofiche soprattutto per i soggetti più vulnerabili, le donne ed i minori. Per la prima volta, a maggio, persone salvate in acque internazionali sono state riconsegnare dai nostri mezzi militari al ministero dell’interno libico, ove sono state sottoposte ad una carcerazione amministrativa in luoghi segreti e a nuove occasioni di abuso. E nei mesi estivi i respingimenti collettivi sono continuati con cadenza settimanale, anche ai danni di persone che avrebbero avuto titolo di chiedere asilo, come somali ed eritrei, oltre che di donne e minori non accompagnati. Non si è avuto pietà neppure davanti a donne in stato di gravidanza, minori, migranti feriti o malati. Tutti respinti verso l’inferno libico. Con le buone, o con le cattive, in qualche caso anche dopo essere stati percossi. Di alcuni di questi casi si occuperanno presto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la Commissione Europea.
A partire dal 7 maggio 2009 sono oltre millecinquecento le persone soccorse in zona SAR maltese da motovedette italiane, a sud dall’isola di Lampedusa. Per quanto è dato sapere, a seguito degli accordi con la Libia specificati in tal senso negli incontri tra Maroni e i vertici della polizia di quel paese, i comandanti di alcune navi militari italiane, prima della Marina, poi della Guardia di Finanza, hanno imbarcato a bordo i migranti, comprese donne e bambini, segnalati dai ricognitori di Frontex o dalla marina maltese, per riportarli in Libia, riconsegnandoli alle autorità militari di quel paese. Nessuna delle persone trasportate in Libia è stata identificata dalle autorità italiane, né è stata rilevata la nazionalità, la minore età, lo stato di gravidanza delle donne, le condizioni di salute dei migranti, né verificate eventuali richieste di protezione internazionale. Tali operazioni sono state salutate da un commento esultante del Ministro dell’Interno, il quale, secondo notizie di stampa, ha dichiarato che quanto successo nei rapporti Itala-Libia “può rappresentare una svolta nel contrasto all’immigrazione clandestina. Un risultato storico”. Quello che si prospetta quindi, secondo Maroni, è “un nuovo modello di contrasto in mare di chi cerca di arrivare illegalmente” che “non ha a che fare con chi chiede asilo: i clandestini non arrivano sul territorio nazionale ma vengono respinti alla frontiera, valutare le richieste di asilo non è quindi compito del governo italiano”.
Sulla stessa linea, il Ministro Maroni durante la Festa della Lega Nord a Venezia, domenica 12 settembre ha rincarato la dose, snocciolando i dati della riduzione degli “sbarchi” a Lampedusa nel periodo giugno-agosto, pari al 95 per cento, rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, Nel corso dello stesso intervento il ministro si è attribuito il merito personale di questo “successo” ottenuto dopo la sua personale negoziazione con Gheddafi proprio nei mesi di febbraio e marzo di quest’anno, quando Lampedusa veniva invasa da migliaia di migranti lasciati partire dalla Libia, malgrado le proibitive condizioni atmosferiche, probabilmente allo scopo di rialzare il prezzo degli accordi con l’Italia.
Una politica coperta da segreto militare, quella dei respingimenti collettivi, fatta di accordi di polizia sottratti al controllo delle Camere, che continua ancora oggi, malgrado siano in tanti a denunciare gli abusi e la disumanità dei respingimenti in Libia. Immagini di torture e di uccisioni che circolano in rete ma che sono censurate in Italia. Come Maroni sta nascondendo gli esiti fallimentari della regolarizzazione in corso, e l’aumento esponenziale degli irregolari nel nostro paese, soprattutto per la perdurante mancanza di canali legali di ingresso per lavoro, e per gli effetti perversi dei provvedimenti sulla sicurezza, lo stesso ministro, supportato da Berlusconi, nasconde l’esistenza di una elevatissima percentuale di potenziali richiedenti asilo tra quanti sono stati o tuttora vengono respinti in Libia, e cancella di fatto l’art. 10 della Costituzione Italiana, norma che prevede il diritto di asilo e che in passato la giurisprudenza ha ritenuto di immediata efficacia precettiva. Una norma che oggi viene svuotata di contenuto effettivo proprio per la pratica dei respingimenti in acque internazionali e per la introduzione del reato di immigrazione clandestina, che comporta persino la iscrizione nel registro degli indagati di rutti i migranti che hanno fatto ingresso nel territorio nazionale, seppure a bordo di unità militari italiane, dopo azioni di salvataggio.
Non solo, Maroni attacca a tutto campo anche la magistratura e, dimentico del suo ruolo di ministro, quando si tratta di riscuotere gli applausi della sua gente, ritorna il militante leghista che anni fa organizzava le prime ronde verdi e che per questa ragione è stato messo sotto processo davanti ad un Tribunale dello stato. Un processo per un tentativo di “secessione”, secessione rivendicata ancora oggi da Bossi, alla presenza di Maroni che applaudiva, una ennesima uscita eversiva del leader della Lega alla festa di Venezia, davanti al “suo” ministro dell’interno, per andare “oltre il federalismo”, verso la sovranità della Padania,“ con le buone o con le meno buone”. E intanto, lo steso giorno, sempre a Venezia, la polizia, con il sostegno delle squadracce leghiste, impediva ai manifestanti “No DalMolin” di esercitare il libero diritto di manifestazione.
L’effetto delegittimante ed intimidatorio dell’attacco del ministro al magistrato Papalia chiamato per nome nel corso della manifestazione di Venezia è evidente e coinvolge l’intera magistratura, intaccandone il prestigio e l’autorevolezza, oltre ad avere una evidente portata intimidatoria. L’art. 101 della Costituzione afferma che “ i giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Il ministro dell’interno ed il suo partito, con i loro attacchi ai magistrati che hanno indagato, e stanno ancora indagando, sui comportamenti razzisti (accertati ormai anche in Cassazione) e sui tentativi di secessione degli esponenti leghisti, si collocano ormai fuori dalla Costituzione, come si collocano contro la Costituzione quando ordinano i respingimenti collettivi vietati dalle Convenzioni internazionali e dal diritto interno.
Ancora ieri, alla festa della Lega Nord, Maroni ha accusato di “malafede o ignoranza” quanti lo hanno criticato per la politica dei respingimenti. Un accusa che respingiamo al mittente.
Secondo Maroni, i respingimenti collettivi costituirebbero un “nuovo modello di contrasto in mare”, che comporterebbe un respingimento dei “clandestini” (entità indistinta nella quale si ricomprendono anche i profughi), alla frontiera, senza che possano trovare applicazione le normative sul diritto d’asilo, in quanto “i clandestini non arrivano sul territorio nazionale”.
Su questo punto Maroni è smentito persino dal testo del codice penale. L’art. 4 del codice penale, precisa invece che le navi e gli aeromobili italiani sono considerate “territorio dello Stato”, ovunque si trovino. Pertanto i profughi soccorsi nelle acque del Canale di Sicilia sono giuridicamente entrati nel “territorio dello Stato” per il solo fatto di essere stati trasbordati sulle navi italiane e, proprio per questo, essendo soggetti alla sovranità italiana, è stato possibile sottoporli a numerosi e reiterati provvedimenti amministrativi di respingimento- con la consegna coatta alle autorità libiche. Tali provvedimenti sono in contrasto con la normativa vigente in Italia che regola la disciplina dell’immigrazione e le norme sulla condizione dello straniero, nonché con le norme in materia di asilo politico e con le Convenzioni Internazionali stipulate dall’Italia e con la disciplina di origine comunitaria in materia di immigrazione ed asilo. Quanto previsto dall’art.4 del Codice penale ribadisce la giurisdizione italiana sugli illeciti e sugli abusi commessi a bordo delle unità militari italiane.
Riportiamo alcuni passi della denuncia dell’ASGI e di altre associazioni presentata alla Procura di Roma nel mese di giugno scorso. Mentre questa Procura ha respinto un precedente ricorso contro i respingimenti presentato da alcuni esponenti del Partito Radicale, e l’archiviazione ha avuto vasta ed immediata eco sulla stampa, non si ha ancora notizia di un analogo pronunciamento in ordine alla denuncia dell’ASGI della quale richiamiamo di seguito i punti essenziali. Attendiamo che i giudici si pronuncino al più presto su questo ulteriore esposto. Auspichiamo che la magistratura si confermi come un “ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”, così come dettato dall’art. 104 della Costituzione.
“1.1) Il respingimento
L’art. 10 T.U. disciplina il primo istituto preordinato alla repressione dell’immigrazione illegale, ossia il respingimento. Ai sensi del primo comma, “la polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti dal presente testo unico per l’ingresso nel territorio dello Stato”; il secondo comma disciplina invece i casi di respingimento cd. “differito”: “il respingimento con accompagnamento alla frontiera è altresì disposto dal questore nei confronti degli stranieri: a) che entrando nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all’ingresso o subito dopo; b) che, nelle circostanze di cui al comma 1, sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso”….(omissis)
Orbene lo stesso art. 10, al comma 4, prevede che la procedura di respingimento (sia il respingimento immediato che quello differito) non si applica: “ nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”
1.2. Divieti di respingimento e di espulsione
L’art. 19 T.U. prevede una serie di divieti di espulsione e di respingimento dello straniero irregolare, ai quali la giurisprudenza ha aggiunto altri casi basati sulla necessità di evitare che l’espulsione vada in pregiudizio dei diritti fondamentali della persona: si tratta di veri e propri divieti di adottare il provvedimento espulsivo o di eseguirlo se già adottato al sorgere delle relative fattispecie. Altre limitazioni derivano da norme internazionali, come il divieto di espulsioni collettive previsto dall’art. 4 del protocollo n. 4 addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (D.P.R. n. 217/1982)
1.3 Divieto di espulsione degli stranieri che possano essere oggetto di persecuzione (art. 19 co. 1).
Ai sensi dell’art. 19, comma 1 “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”.
Il divieto si riferisce alla semplice possibilità che lo straniero sia perseguitato; di conseguenza, agli stranieri inespellibili ai sensi di tale norma deve essere rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari, previo parere delle Commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero acquisizione dall’interessato di idonea documentazione (art. 11, comma 1, lettera c-ter reg. att.)”.
2. Lo status di rifugiato.
Un limite sostanziale alla possibilità di eseguire tanto l’espulsione dello straniero, quanto il c.d. respingimento differito è rappresentato dagli obblighi internazionali assunti dall’Italia in tema di protezione dei rifugiati. A livello internazionale è stata adottata, nell’ambito delle Nazioni Unite, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, la cui ratifica è stata autorizzata in Italia con la legge 24 luglio 1954, n. 722. La stessa Convenzione è stata attuata nel nostro ordinamento con l’art. 1 della legge 39/1990, successivamente modificato dagli artt. 31 e 32 della legge 189/2002, e ha trovato piena applicazione con il Dlgs. n.251/2007 di attuazione della Direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale.
Occorre evidenziare che la definizione del termine “rifugiato”, rimane sempre quella indicata dalla Convenzione di Ginevra. Secondo tale norma è rifugiato colui che fugge dal proprio Paese o che non vuole rientrarvi in quanto teme “a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche”. Occorre pertanto un timore fondato di subire una persecuzione e non è necessario che la persecuzione sia già avvenuta.
Si sottolinea peraltro come il Dlgs. n.251/2007 di attuazione della direttiva 2004/83/CE introduca una nuovo istituto, la “protezione sussidiaria”, che, basandosi sul presupposto del “danno grave” che può subire il soggetto, ulteriormente allarga le forme di protezione internazionale.
Per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra, nonché della protezione sussidiaria, la procedura è regolata dal D.Lvo 28 gennaio 2008 n. 25, emanato in attuazione della Direttiva 2005/85/CE, recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. In base a tale normativa non può essere impedito a nessuno di presentare domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato.
3. I limiti all’espulsione del rifugiato o del titolare del diritto di asilo.
Secondo la Convenzione di Ginevra, gli Stati contraenti non possono espellere un rifugiato che si trovi regolarmente nel loro territorio se non per ragioni di sicurezza nazionale o di ordine pubblico (art. 32 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati). La tutela della vita del rifugiato, infatti, preclude il suo allontanamento o rinvio verso le frontiere dei territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbe minacciata a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un certo gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. Tale limite vale anche per il respingimento avendo il rifugiato diritto di ingresso almeno al fine di presentare domanda di rifugio. Onde garantire effettivamente il diritto di richiedere rifugio ai sensi della Convenzione, il rifugiato non può essere perseguito penalmente a motivo del proprio ingresso e/o soggiorno irregolare (art. 31 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati), salvo che abbia commesso reati particolarmente gravi o comunque rappresenti un pericolo per la sicurezza del Paese in cui si trova. Egli dovrà, però, salvo inderogabili ragioni di sicurezza nazionale, essere ammesso a fornire delle prove che possano discolparlo, presentare un ricorso e farsi rappresentare a questo scopo davanti a un’autorità competente o davanti a una o più persone designate appositamente da tale autorità. Inoltre gli Stati devono accordargli un lasso di tempo ragionevole per permettergli di cercare di farsi ammettere regolarmente in un altro Paese. In ogni caso, nessuno Stato può espellere o respingere un rifugiato “verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita e la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche” (art. 33- principio del non refoulement): tale norma ha carattere assoluto ed inderogabile e deve essere applicata sia sul territorio dello Stato, che in ambito extraterritoriale.
4. Limiti all’espulsione ed il respingimento derivante dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo.
L’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (C.E.D.U.) sancisce il diritto a non subire torture o maltrattamenti disumani o degradanti. Si tratta di un diritto che deve essere garantito dagli Stati membri attraverso tutti i propri organi e, in particolare, attraverso la giurisdizione. L’articolo 3 è stato ampiamente interpretato dalla Corte europea dei diritti umani come limite all’espulsione degli stranieri ogni qual volta l’allontanamento dello straniero dal territorio dello Stato ospite possa esporlo al rischio grave di subire un tale trattamento o tortura (Cruz Varas and Others, 20 marzo 1991, ricorso n. 15576/89). Si tratta quindi di una fattispecie diversa da quella contemplata dalla Convenzione di Ginevra o dalla Costituzione, volta a comprendere ipotesi non rientranti né nell’una né nell’altra e tuttavia tale da impedire, l’allontanamento di uno straniero che incorra in un tale rischio.
Si consideri che le norme della Convenzione sono direttamente applicabili nell’ordinamento giuridico italiano. Infatti è assolutamente pacifico, per giurisprudenza consolidata delle Sezioni Unite e delle altre Sezioni della Cassazione, che le norme della C.E.D.U. sono direttamente applicabili nell’ordinamento interno e per questo sono fonte di diritti soggettivi, invocabili dinanzi al giudice italiano.
5. Il Protocollo n. 4 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
L’art. 4 del Protocollo n. 4 alla C.E.D.U. vieta le espulsioni collettive di stranieri.
Nel caso qui in esame tale divieto è stato palesemente violato, nonostante l’assenza di formali provvedimenti amministrativi (non) adottati dall’Italia ai sensi dell’art. 10 e dell’art. 13 del D.Lgs. 286/98 come successivamente si evidenzierà. Anche il comportamento materiale dello Stato, infatti, va ritenuto rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4, avendo come effetto concreto il rinvio in massa degli stranieri (secondo il Ministro dell’interno varie centinaia) verso un Paese asserito come di provenienza. Va ricordato che secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sono espulsioni collettive tutte quelle misure che obbligano gli stranieri “in quanto gruppo” a lasciare un Paese.
Se il divieto vale per le espulsioni disposte con formale provvedimento amministrativo, non può non valere parimenti quando l’effetto sia raggiunto attraverso un mero comportamento di fatto attuato dalle autorità pubbliche”
6. Per quanto tempo ancora?
Sarebbe tempo che i ministri di questo governo, e lo stesso Berlusconi, la smettano con dichiarazioni che diffondono rassicurazioni o allarmi a seconda delle convenienze del momento, occultando i fatti e attribuendo alle norme interne o alle Convenzioni internazionali un significato opposto rispetto a quanto in esse testualmente affermato.
Se Maroni si compiace perché ha ridotto da circa 15.000 a soli 1400 gli sbarchi a Lampedusa nei mesi estivi, e tace delle migliaia di migranti detenuti o schiavizzati in Libia, presto sarà costretto a rendere conto all’opinione pubblica di centinaia di migliaia di immigrati che negli stessi mesi estivi sono comunque presenti o entrati irregolarmente in Italia senza seguire la rotta di Lampedusa, o che sono rimasti fuori dalla regolarizzazione per i requisiti eccessivamente restrittivi che il suo governo ha imposto, allo scopo di privilegiare esclusivamente le famiglie più ricche che nelle regioni settentrionali fanno ampio ricorso al lavoro servile di colf e badanti. Ed è sempre più incerto il destino di centinaia di migliaia di immigrati che negli anni passati si sono autodenunciati facendo richiesta di regolarizzazione con il decreto flussi del 2007 e che oggi sono condannati alla illegalità dai ritardi e dai blocchi della procedura, oltre che dai ricatti dei datori di lavoro e dalle nuove disposizioni sulla sicurezza. Centinaia di migliaia di persone condannate alla clandestinità, dunque potenziali destinatari del reato di immigrazione clandestina, mentre il ministro Maroni afferma di avere conseguito un “risultato storico” chiudendo la porta in faccia a qualche migliaio di potenziali richiedenti asilo respinti in Libia. Un “risultato storico” che è costato centinaia di cadaveri nelle acque del Canale di Sicilia, ed un numero imprecisato di migranti vittime di sevizie e torture terribili nelle carceri libiche.
In Italia, dunque, centinaia di migliaia di immigrati “clandestini”, frutto anche dei meccanismi perversi di incontro tra domanda ed offerta di lavoro, previsti dalla legge Bossi-Fini, saranno costretti alla clandestinità dalle scelte repressive e proibizioniste di questo governo. Questo si, un autentico regalo alle mafie ed ai caporali che in tutte le regioni italiane gestiscono il lavoro irregolare dei migranti ( e di molti italiani).
Sarebbe tempo che i ministri di questo governo la smettano di imbrogliare gli italiani spacciando secondo la loro convenienza dati parziali, disposizioni delle Convenzioni internazionali, scelte politiche dell’Unione Europea e decisioni della Corte Europea dei diritti dell’Uomo.
Presto questi organismi – se non prevarranno calcoli di convenienza politica – dovrebbero sanzionare gli abusi commessi dal governo italiano nella pratica dei respingimenti collettivi di migranti. Ma di certo nessuno potrà rendere giustizia alle vittime ed alle migliaia di migranti deportati in Libia e dalla Libia. Intanto, consigliamo a tutti coloro vogliano farsi una opinione propria, di rileggere con attenzione il contenuto della Convenzione di Palermo contro il crimine organizzato del 2000 ed i suoi due protocolli aggiuntivi, spesso evocati -a torto- per sostenere la legittimità dei respingimenti collettivi.
La Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, sottoscritta nel corso della Conferenza di Palermo (12 – 15 dicembre 2000) non prevede tra i diversi casi di “cooperazione di polizia” indicate all’art. 27 alcuna ipotesi che possa legittimare i respingimenti collettivi verso la Libia.
Il “Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini”, sottoscritto nel corso della stessa conferenza di Palermo nel 2000 contiene una precisa “Clausola di salvaguardia” ( art. 14) secondo la quale:
1. Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudicai diritti, gli obblighi e le responsabilità degli Stati ed individui ai sensi del diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale dei diritti umani e, in particolare, laddove
applicabile, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo Status dei Rifugiati e il principio del non allontanamento.
2. Le misure di cui al presente Protocollo sono interpretate ed applicate in modo non discriminatorio alle persone sulla base del fatto che sono vittime della tratta di persone.
L’interpretazione e l’applicazione di tali misure è coerente con i princìpi internazionalmente riconosciuti della non discriminazione.
Infine il “Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria” (sottoscritto nel corso della stessa conferenza di Palermo del 2000), esclude la responsabilità penale dei migranti vittima del traffico (art. 5), norma che ribadisce la illegittimità della automatica sanzione penale dell’ingresso clandestino, non prevede in alcun modo i respingimenti collettivi verso i paesi di transito e contiene una ulteriore clausola di salvaguardia a favore delle persone che vengono intercettate nelle attività di controllo a mare da parte delle forze di polizia.
In particolare, secondo l’art. 9 del Protocollo addizionale ( Clausole di salvaguardia)
Quando uno Stato Parte prende misure nei confronti di una nave ai sensi dell’art. 8 del presente Protocollo, esso:
(a) assicura l’incolumità e il trattamento umano delle persone a bordo;
(b) tiene debitamente conto della necessità di non mettere in pericolo la sicurezza della nave o del suo carico;
Sono sicuramente in una condizione di “ignoranza e malafede” tutti coloro che decidono od eseguono ordini di respingimento collettivo di migranti verso la Libia in contrasto con quanto previsto dalle leggi interne e dalle Convenzioni internazionali vincolanti per l’Italia.
Una “ignoranza e malafede” che potrebbe costituire ipotesi penalmente rilevanti che, trattandosi di pubblici ufficiali, la magistratura italiana farebbe bene a indagare ed eventualmente a sanzionare anche prima di quanto verrà deciso a livello internazionale. Ci sarebbe anche da attendere che il parlamento nazionale attivi quelle commissioni parlamentari sulla attuazione degli accordi Italia-Libia previste lo scorso febbraio da un ordine del giorno approvato insieme alla legge di ratifica del “Trattato di amicizia” italo libica, e che magari questa Commissione di inchiesta possa andare in Libia a verificare direttamente la condizione nella quale versano i migranti che sono stati respinti dall’Italia. Si potrà così accertare se hanno ragione o no Gheddafi, Berlusconi e Maroni quando sostengono che tra i “respinti” non ci sono richiedenti asilo o altre persone meritevoli di protezione. Ma potrebbe essere anche un’occasione per verificare il trattamento disumano che la Libia riserva a tutti i migranti irregolari detenuti nel suo territorio, con l’avallo delle autorità di polizia e degli ufficiali di collegamento italiani.