Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Dossier Immigrazione 2010 – 4 milioni 919 mila migranti regolari. Oltre mezzo milioni i nati in Italia

Presentato il rapporto annuale redatto da Caritas e Fondazione Migrantes

4 milioni 919 mila stranieri, 240mila i matrimoni misti celebrati tra il 1996 e
il 2008 (quasi 25mila nell’ultimo anno), più di mezzo milione
le persone che hanno acquisito la cittadinanza, complessivamente 541.955 di cui 59mila nel 2009, oltre 570mila
gli “stranieri” nati direttamente in Italia, quasi 100mila
quelli che ogni anno nascono da madre straniera; più di
110mila gli ingressi per ricongiungimento familiare.

Ancora la collettività romena la più numerosa, con poco meno
di 1 milione di presenze (quasi 900mila residenti); seguono
albanesi e marocchini, quasi mezzo milione, mentre cinesi
e ucraini sono quasi 200mila.

Glistranieri poi sono circa il 10% degli occupati come lavoratori
dipendenti, sono titolari del 3,5% delle imprese, incidono
per l’11,1% sul prodotto interno lordo (dato del
2008), pagano 7,5 miliardi di euro di contributi previdenziali,
dichiarano al fisco un imponibile di oltre 33 miliardi di
euro.

Sono i numeri del Dossier immigrazione 2010. Numeri certo che prendono però corpo quotidianamente nella realtà che circonda le nostre città i nostri quartieri, i luoghi di lavoro, le scule, la nostra vita. Numeri con i quali non c’è da scherzare. E non certo perchè rappresentino un pericolo, piuttosto perchè raccontano la sfida di un paese che pare non voler cambiare e di continuare da ormai 20 anni (20 sono anche gli anni ormai i vita del rapporto caritas) a considerare l’immigrazione come un emergenza.
Sono insomma i numeri che ci raccontano lesigenza di costruire un presente ed un futuro nuovi, poco inclini a percorrere le facile scorciatoie dell’eccezionalità e degli stereoptipi.

La presentazione del dossier

Nascita del Dossier all’inizio degli anni ‘90. Nel mese di
febbraio 1990 fu approvata la “legge Martelli”. Fu quello
l’anno della prima conferenza nazionale dell’immigrazione,
nel corso della quale mons. Silvano Ridolfi, allora direttore
della Migrantes, così affermava a nome delle associazioni
degli emigrati italiani: “Se abbiamo chiesto per gli italiani
giustizia e rispetto, altrettanto dobbiamo fare per chi immigra
nel nostro paese”. Sempre nel 1990 la Conferenza Episcopale
Italiana approvò il documento “Uomini di culture
diverse: dal conflitto alla solidarietà”, un tema che mons.
Luigi Di Liegro, direttore della Caritas diocesana di Roma,
riproponeva sia nel volume Il pianeta immigrazione sia l’anno
successivo, in piena guerra del Golfo, nella pubblicazione
Per conoscere l’islam: cristiani e musulmani nel mondo di
oggi, smontando la tentazione di una guerra religiosa.
Ancora nel 1991, il “prete degli immigrati” diede vita al
“Forum per l’Intercultura”, un impegnativo programma di
sensibilizzazione, e al Dossier Statistico Immigrazione.
Il suo obiettivo era quello di favorire una visione agevole,
ma non superficiale, delle statistiche sul fenomeno migratorio,
partendo da tre considerazioni di fondo.
1. L’immigrazione offre l’occasione per una conoscenza
umana più profonda. Mancava (e per certi versi ancora
manca) una visione positiva dell’immigrazione, che resta
equiparata a una realtà ostile, confondendo la regolamentazione
con la sicurezza. La posta in gioco è un ordine
economico mondiale meno ingiusto e una maggiore
amicizia tra i popoli basata sul reciproco apprezzamento.
2. L’immigrazione va inquadrata in collegamento con l’andamento
demografico e lo sviluppo socio-economico e
non ha senso parlare di cooperazione nella speranza che i
flussi cessino.
3. Il rapporto tra le strutture pubbliche, da una parte, e il
volontariato e la realtà socio-ecclesiale, dall’altra, deve
essere collaborativo e non concorrenziale, comunque mai
subalterno, e deve tendere a far rientrare nell’ambito
pubblico le intuizioni della base per una maggiore giustizia
sociale, nella convinzione che non si può offrire per
carità ciò che è dovuto per esigenze di giustizia e di
dignità umana. Specialmente al cristiano è richiesto un
nuovo stile di vita, perché il vangelo richiede atti di solidarietà
concreta.
Questo coraggioso sacerdote metteva anche in conto un
certo numero di problemi, aspettandosi, però, da un paese
civile la capacità di affrontarli e risolverli con il superamento
del disinteresse e della chiusura, vincendo il senso della
paura.
Secondo mons. Di Liegro, per il quale la carità era anche
e specialmente politica, pensarla così non era da illusi ma
solo da conoscitori consapevoli dei termini reali della questione
migratoria, secondo una impostazione lontana dai
luoghi comuni.

Il Dossier, come prima raccolta organica dei dati statistici
sull’immigrazione, suscitò subito grande interesse, perché
andava incontro alle esigenze degli operatori sociali, dei
funzionari pubblici, dei ricercatori e dei giornalisti. Ma non
mancarono le reazioni negative: “la Chiesa invita i poveri
del mondo in Italia, aspettandosi che nel futuro votino
secondo le sue indicazioni”; “i cattolici si basano su un
temerario provvidenzialismo”; “le buone intenzioni di solidarietà
sconfinano nella dabbenaggine”. E queste obiezioni
continuano ancora oggi.

Un servizio conoscitivo tuttora necessario. A distanza
di due decenni dalla nascita del Dossier, Caritas e Migrantes
ritengono, alla luce del messaggio evangelico, che si
richieda un rinnovato impegno per una fruttuosa convivenza
e considerano l’immigrazione un “segno dei tempi”
nel quale si configurano le linee di un profondo cambiamento
in atto in Italia, in Europa e nell’intero contesto
mondiale.
In questi vent’anni il rapporto con le strutture pubbliche
è stato molto stretto, ma nell’ambito dell’autonomia propria
del mondo socio-pastorale e della sua funzione critica
e propositiva. Il Dossier rimane il frutto di un progetto culturale
inteso a favorire una conoscenza del fenomeno
migratorio libera da pregiudizi e contrapposizioni partitiche,
ricavando le ipotesi interpretative a partire dalle stesse
fonti statistiche.
Sono aumentate le pagine del rapporto, apprezzato in
particolare per la sua completezza, seppure non sono
mancate anche reazioni di disappunto, quasi che la chiesa
cattolica si sia resa protagonista di una sorta di invasione di
campo. In realtà questa ricerca, nata per rimediare a una
carenza conoscitiva sul piano statistico, non è avulsa dai
compiti pastorali, strutturandosi la missione della chiesa
non solo in testimonianza della fede ma anche in promozione
umana e sostegno sociale.
Di fondamentale supporto è la rete di migliaia di operatori
pastorali, a loro volta collegati con altre realtà sociali e
di ricerca. È stata questa la base che ha consentito di arricchire
la riflessione sulle dimensioni nazionali e regionali del
fenomeno migratorio e di far sentire il Dossier come un
prodotto a disposizione di tutti.
Nel corso di due decenni sono state distribuite alcune
centinaia di migliaia di copie del rapporto e sono state
organizzate migliaia di presentazioni in tutte le realtà provinciali.
All’inizio del 1990, anno al quale si riferisce la
prima edizione del Dossier, non si andava oltre il mezzo
milione di presenze. In questi 20 anni la popolazione
immigrata è cresciuta di quasi 20 volte, arrivando alla
soglia di 5 milioni, ma insieme al numero degli immigrati
sono aumentate anche le chiusure.

L’immigrazione e la crisi economico-occupazionale.
Innanzi tutto, a predisporre negativamente la popolazione
verso la presenza immigrata sono gli effetti della crisi mondiale:
nel 2009, il crollo della produzione (specialmente
nelle manifatture e in edilizia) e degli investimenti, la diminuzione
di 380mila posti di lavoro e del tasso di occupazione,
l’aumento del tasso di disoccupazione e dei disoccupati
(2 milioni e 45mila), l’incremento delle migrazioni
interne anche a lungo raggio. In questo contesto, in cui le
previsioni di nuove assunzioni dall’estero sono andate
diminuendo (da 168.000 nel 2008 a 89.000 nel 2009
secondo l’indagine Excelsior), non solo si è ridotto l’afflusso
degli immigrati, considerati in qualche modo una
causa di questi mali, ma molti sono stati anche licenziati
e in parte costretti a lasciare il paese o a scivolare nell’irregolarità.
È, invece, il nostro sistema economico a trovarsi in difficoltà,
impossibilitato ormai a ricorrere alle svalutazioni
della moneta dopo l’introduzione dell’euro, a esportare nel
mondo prodotti a basso costo, come riescono invece a
fare i paesi emergenti, e a ridurre l’enorme peso della
spesa pubblica. Intanto, continua la diminuzione nella crescita
del Prodotto interno lordo: 3,8% negli anni ’70, 2,4%
negli anni ’80, 1,4% negli anni ’90, 0,3% negli anni 2000
(un valore ridottissimo anche per effetto del crollo del Pil
del 6% nel biennio 2008-2009). Inoltre, il rapporto tra Pil
e debito pubblico, pari al 95,2% nel 1990, è passato al
109,2% nel 2000 ed è stimato pari al 118,2% alla fine del
2010, il rapporto più alto tra tutti gli Stati membri dell’UE.
Rispetto agli altri grandi paesi europei è stentata la
modernizzazione del nostro sistema produttivo, che nel
periodo 1980-2009 ha conosciuto un aumento medio
annuo della produttività (dati Istat) di appena l’1,2%. Questo
andamento influisce negativamente sulla crescita del
Pil e delle retribuzioni ed evidenzia la necessità di un maggiore
sviluppo tecnologico, dell’alleggerimento della burocrazia,
di una maggiore apertura agli investimenti diretti
esteri (22 miliardi di euro l’anno in entrata contro 32 in
uscita) e di una maggiore affermazione all’estero. È vero,
ad esempio, che le imprese italiane di costruzione ricavano
dall’estero la metà del loro fatturato, che comunque rimane
allo stesso livello di 10 anni fa, con perdita di addetti e
chiusure di imprese. D’altra parte, il mero trasferimento
all’estero di produzioni a basso costo senza mantenere
sinergie con l’Italia comporta il rischio di svendere il know
how italiano e di pagarne le conseguenze a medio e lungo
termine, con un inedito panorama di paesi produttori con
pochi consumatori e paesi consumatori ma non più produttori.

Le opportunità connesse con l’immigrazione. Alla luce
degli effetti della crisi bisogna chiedersi se gli immigrati,
che contribuiscono alla produzione del Prodotto interno
lordo per l’11,1% (stima di Unioncamere per il 2008),
siano il problema o non piuttosto un contributo per la sua
soluzione. Diversi studi, tra i quali quello della Banca d’Italia
di luglio 2009, hanno posto in evidenza la funzione
complementare dei lavoratori immigrati in grado di favorire
migliori opportunità occupazionali per gli italiani.
Venendo essi a mancare, o a cessare di crescere, nei settori
produttivi considerati non appetibili dagli italiani (in agricoltura,
in edilizia, nell’industria, nel settore familiare e in
tanti altri servizi), il paese sarebbe impossibilitato ad affrontare
il futuro. È quanto ci è stato ricordato il primo marzo
2010 dal primo “sciopero degli stranieri”, ispirato a una
analoga manifestazione francese, con l’astensione dal lavoro
e dagli acquisti e la presenza in piazza per far sentire la
propria voce.
In particolare, gli immigrati sono sempre più indispensabili
per rispondere alle esigenze delle famiglie, come emerso
in occasione dell’ultima regolarizzazione, chiusa a settembre
2009 con quasi 300mila domande: basti pensare
che nella prospera Lombardia, nel 2015, le persone con
oltre 65 anni saranno tre milioni, un milione in più rispetto
al 2010, con un fabbisogno esponenziale di assistenza.
Il Dossier, nelle indagini condotte sui benefici e sui costi
dell’immigrazione, ha evidenziato che gli immigrati versano
alle casse pubbliche più di quanto prendano come fruitori
di prestazioni e servizi sociali. Si tratta di quasi 11 miliardi di
contributi previdenziali e fiscali l’anno che hanno contribuito
al risanamento del bilancio dell’Inps, trattandosi di lavoratori
giovani e, perciò, ancora lontani dall’età pensionabile.
Essi, inoltre, dichiarano al fisco oltre 33 miliardi l’anno.
A livello occupazionale gli immigrati non solo incidono
per circa il 10% sul totale dei lavoratori dipendenti, ma
sono sempre più attivi anche nel lavoro autonomo e
imprenditoriale, dove riescono a creare nuove realtà aziendali
anche in questa fase di crisi. Sono circa 400mila gli
stranieri tra titolari di impresa, amministratori e soci di
aziende, ai quali vanno aggiunti i rispettivi dipendenti. A
Milano i pizzaioli egiziani sono più di quelli napoletani, così
come sono numerosi gli imprenditori tessili cinesi a Carpi
(Modena) e Prato, e quelli della concia ad Arzignano
(Vicenza), in questo caso non solo cinesi ma anche serbi.
Ogni 30 imprenditori operanti in Italia 1 è immigrato, con
prevalenza dei marocchini, dediti al commercio, e dei
romeni, più propensi all’imprenditoria edile.

Le esigenze demografiche e gli intrecci interculturali.
Sono circa 240mila i matrimoni misti celebrati tra il 1996 e
il 2008 (quasi 25mila nell’ultimo anno); più di mezzo milione
le persone che hanno acquisito la cittadinanza, complessivamente
541.955 di cui 59mila nel 2009; oltre 570mila
gli “stranieri” nati direttamente in Italia; quasi 100mila
quelli che ogni anno nascono da madre straniera; più di
110mila gli ingressi per ricongiungimento familiare.
In un’Italia alle prese con un elevato e crescente ritmo di
invecchiamento, dove gli ultrasessantacinquenni superano
già i minori di 15 anni, gli immigrati sono un fattore di parziale
riequilibrio demografico, influendo positivamente
anche sulla forza lavoro.
I contatti quotidiani sul lavoro e nei luoghi di socializzazione
(la scuola, le associazioni, i luoghi di culto…) e le
famiglie miste stanno facendo dell’immigrazione una realtà
organica alla società italiana.
La collettività romena è la più numerosa, con poco meno
di 1 milione di presenze (quasi 900mila residenti); seguono
albanesi e marocchini, quasi mezzo milione, mentre cinesi
e ucraini sono quasi 200mila. Nell’insieme, queste 5 collettività
coprono più della metà della presenza immigrata
(50,7%). Gli europei sono la metà del totale, gli africani
poco meno di un quinto e gli asiatici un sesto, mentre gli
americani incidono per un decimo.
Diversi gruppi nazionali risiedono per lo più nelle città,
come i filippini, i peruviani e gli ecuadoriani. Altri, come gli
indiani, i marocchini o gli albanesi, si sono insediati maggiormente
nei comuni non capoluogo. L’insediamento è
prevalente nel Nord e nel Centro, ma anche il Meridione è
coinvolto nel fenomeno, rappresentando un’area privilegiata
per l’inserimento di alcune collettività. È il caso degli
albanesi in Puglia, degli ucraini in Campania o dei tunisini
in Sicilia.
Roma e Milano, rispettivamente con quasi 270mila e
200mila stranieri residenti, sono i comuni quantitativamente
più rilevanti, ma gli immigrati si stabiliscono anche
nei piccoli centri, spesso con incidenze elevate rispetto al
totale dei residenti. Ad esempio, a fronte di una media
nazionale del 7%, gli stranieri sono il 20% dei residenti a
Porto Recanati (MC), il salotto del mare della riviera
adriatica, come anche a Castiglione delle Stiviere (MN),
conosciuto non solo per essere patria di San Luigi Gonzaga,
patrono mondiale della gioventù, ma anche il luogo
in cui Herny Dunant concepì l’idea della Croce Rossa. In
provincia di Imperia, Airole si impone per un’incidenza
degli stranieri pari al 35%, seppure su una popolazione di
appena 493 abitanti.

E il fattore criminalità? Nei primi anni, l’impostazione
del Dossier, nella consapevolezza che l’immigrazione non
comporta solo aspetti positivi, è consistita nel riportare
anche i dati relativi al coinvolgimento degli stranieri in attività
devianti ripartiti per territorio, per paesi di provenienza
e per tipo di reato, fornendo alcune indicazioni per la loro
lettura. Negli ultimi tempi questa metodologia documentale
non si è rivelata più sufficiente, anche perché, con il
notevole aumento dei flussi migratori a partire dalla seconda
metà degli anni ’90, si è rafforzata nella società la diffidenza
prima nei confronti dei marocchini, poi verso gli
albanesi e attualmente verso i romeni, seppure con toni
fortemente ridimensionati rispetto al biennio 2007-2008.
Diversi sono stati gli approfondimenti condotti dai redattori
Caritas/Migrantes:
• per gli albanesi (2008) è stato mostrato che la loro stigmatizzazione
è continuata per forza di inerzia anche negli
anni 2000 quando, stabilizzatisi i flussi, la loro rilevanza
nelle statistiche criminali è risultata in realtà fortemente
ridimensionata;
• per i romeni (2008 e 2010) la progressione accusatoria
ha continuato a essere accentuata, nonostante le statistiche
continuino ad attestare un loro coinvolgimento più
ridotto rispetto alla generalità degli immigrati;
• per gli africani (2010), almeno relativamente alle maggiori
collettività, si è visto che sussistono problemi quanto
alla loro implicazione sia nella criminalità comune sia in
quella organizzata, fenomeni che meritano di essere
approfonditi nelle loro cause e nei loro dinamismi, mettendo
in atto adeguate strategie di recupero.
• a loro volta, i rom sono stati, sono e forse continueranno
ad essere, il gruppo maggiormente discusso, non raramente
al di là delle loro specifiche colpe: mai provata, e
anzi del tutto smentita da un’apposita indagine della
Fondazione Migrantes è l’accusa di rapire i bambini.

Ma i timori e il senso di insicurezza degli italiani dipendono
in prevalenza da altri fattori, considerato che:
1. la criminalità in Italia è aumentata in misura contenuta
negli ultimi decenni, nonostante il forte aumento della
popolazione straniera, e addirittura è andata diminuendo
negli anni 2008 e 2009;
2. il ritmo d’aumento delle denunce contro cittadini stranieri
è molto ridotto rispetto all’aumento della loro presenza,
per cui è infondato (e non solo per il Dossier) stabilire
una rigorosa corrispondenza tra i due fenomeni:
ciò si desume anche, per quanto riguarda le diverse
province, dalla raccolta statistica curata per i Consigli
territoriali per l’immigrazione nell’ambito del Fondo
europeo per l’Integrazione (2010) e, per quanto riguarda
le principali collettività di immigrati (con alcune
eccezioni), dal Rapporto del Cnel sugli indici di integrazione
(2010);
3. il Rapporto del Cnel ha mostrato che il tasso di criminalità
addebitabile agli immigrati venuti ex novo nel nostro
paese, quelli su cui si concentrano maggiormente le
paure, è risultato, nel periodo 2005-2008, più basso
rispetto a quello riferito alla popolazione già residente;
4. il confronto tra la criminalità degli italiani e quella degli
stranieri, attraverso una metodologia rigorosa basata
sulla presa in considerazione di classi di età omogenee,
ha consentito di concludere che gli italiani e gli
stranieri in posizione regolare hanno un tasso di criminalità
simile;
5. lo stesso coinvolgimento criminale degli immigrati non
autorizzati al soggiorno, innegabile, di difficile quantificazione
e spesso direttamente legato alla stessa irregolarità
della presenza e alle difficili condizioni di vita che ne
conseguono, va esaminato con prudenza e con rigore
in un paese in cui entrano annualmente decine di milioni
di stranieri come turisti o per altri motivi.
Queste linee interpretative non devono portare ad
“abbassare la guardia”, bensì a vincere i preconcetti e a
investire maggiormente sulla prevenzione e sul recupero,
coinvolgendo i leader associativi degli immigrati, come
avvenuto nel passato con positivi risultati tra i senegalesi.

Immigrazione e pari opportunità: un binomio irrinunciabile.
L’immigrazione e l’integrazione devono andare di
pari passo. Il Governo ha proposto un piano per l’integrazione
nella sicurezza, denominato “Identità e Incontro”,
qualificandolo come modello italiano lontano dall’assimilazionismo
e dal multiculturalismo. Nel documento vengono
individuati percorsi imperniati su diritti e doveri, responsabilità
e opportunità, in una visione di relazione reciproca,
facendo perno sulla persona e sulle iniziative sociali piuttosto
che sullo Stato e individuando cinque assi di intervento:
l’educazione e l’apprendimento, dalla lingua ai valori; il
lavoro e la formazione professionale; l’alloggio e il governo
del territorio; l’accesso ai servizi essenziali; l’attenzione ai
minori e alle seconde generazioni.
Si insiste, inoltre, così come si fa in ambito comunitario,
sui ritorni e sugli aiuti allo sviluppo, progressivamente ridotti
in Italia a un livello veramente minimo sulle migrazioni a
carattere rotatorio. Ma, intanto, è andata radicandosi la
convinzione, supportata dai dati, che l’immigrazione stia
acquisendo un carattere sempre più stabile.
Vi si ritrovano aperture apprezzabili riguardo al pubblico
impiego, rilievi critici rispetto a quanto è stato fatto nel passato,
l’individuazione di linee di impegno e specialmente il
criterio che quanto proposto vada monitorato nella sua
concreta efficacia.
Nel 2009, tuttavia, il Fondo nazionale per l’inclusione
sociale è rimasto sprovvisto di copertura e questa carenza,
oltre tutto in fase di crisi economica, di certo non aiuta l’integrazione
a fronte di una diminuita capacità di spesa delle
famiglie, anche immigrate.
Continua a essere più difficoltoso per gli immigrati l’accesso
ai servizi. A Milano un cittadino italiano ha firmato un
contratto d’affitto insieme a un rom, che da solo altrimenti
non sarebbe stato accettato dal proprietario. Tra la popolazione
immigrata regolare solo il 68% è iscritto al Servizio
Sanitario Nazionale, come si rileva dal secondo rapporto
del Ministero dell’Interno sui consigli territoriali, e questo
concorre a spiegare anche perché per essi vi siano più ricoveri
in stato d’urgenza e un maggiore accesso al pronto
soccorso. Secondo una ricerca del Cisf, crescere e mantenere
un figlio costa 9.000 euro l’anno, anche per le famiglie
immigrate; tuttavia, inspiegabilmente, le coppie straniere
sono state escluse dal beneficio del bonus bebé, così come
i capifamiglia stranieri hanno trovato più difficile accedere
ad altri benefici sociali erogati dagli Enti Locali.
Integrazione e pari opportunità, quindi, devono andare
di pari passo, in un intreccio di doveri ma anche di diritti
come enunciato nel documento governativo. Bisogna spianare
la via ai nuovi cittadini, non solo per sensibilità evangelica
ma anche perché questa è l’unica via corretta per
andare incontro al nostro futuro.

Irregolarità e politica migratoria. Nel Dossier 2010 si
parla anche di sbarchi e di irregolari, senza sottacere gli
aspetti problematici ma, anche, senza perdere il riferimento
ai dati e il senso delle proporzioni.
Tutte le persone di buon senso riconoscono la necessità
di controllare le coste, evitando che esse diventino l’attracco
per i trafficanti di manodopera e la base per i loro lucrosi
commerci (2,5 miliardi di dollari nel mondo, secondo
l’Onu). Questo rigore, però, va unito al rispetto del diritto
d’asilo e della protezione umanitaria, di cui continuano ad
avere bisogno persone in fuga da situazioni disperate e in
pericolo di vita. Il contrasto degli sbarchi non deve far
dimenticare che nella stragrande maggioranza dei casi
all’origine dell’irregolarità vi sono gli ingressi legali in Italia,
con o senza visto, di decine di milioni di stranieri che arrivano
per turismo, affari, visita e altri motivi. Rispetto a questi
flussi imponenti, e non eliminabili, anche la punta massima
di sbarchi raggiunta nel 2008 (quasi 37mila persone) è ben
poca cosa.
Risulterà inefficace il controllo delle coste marittime,
come anche di quelle aeree e terrestri, se non si incentiveranno
i percorsi regolari dell’immigrazione. Non è in discussione
la necessità di regole bensì la loro funzionalità. Ciò
induce a ripensare in maniera innovativa la flessibilità delle
quote, le procedure d’incontro tra datore di lavoro e lavoratore, il tempo messo a disposizione per la ricerca di un
nuovo posto di lavoro (che si potrebbe ampliare tenendo
conto dei periodi di integrazione salariale o disoccupazione
indennizzata). In effetti, è disfunzionale costringere ad
andar via lavoratori già ben inseriti, e in grado di ritrovare
un posto di lavoro dopo la crisi, oppure costringerli di fatto
a incrementare l’area del lavoro irregolare (il 12,2% del
totale, secondo l’Istat). Lascia, perciò, perplessi constatare
che diversi enti locali abbiano destinato fondi per il loro
allontanamento, oltretutto con scarsa efficacia, come si è
visto anche in Spagna. Sembra, invece, auspicabile estendere
i rimpatri assistiti a favore degli irregolari, come raccomandato
dalla stessa Commissione europea, trasformando
il ritorno di chi non ha avuto sbocco o successo nell’immigrazione
in un investimento positivo per i paesi di origine.
Seguendo un’ottica realistica, Eurostat ha precisato che il
miraggio di una “immigrazione zero” in mezzo secolo
farebbe perdere all’Italia un sesto della sua popolazione.
Perciò, se l’immigrazione è funzionale allo sviluppo del
paese, l’agenda politica è chiamata a riflettere sugli aspetti
normativi più impegnativi, come quelli riguardanti la cittadinanza
e le esigenze di partecipazione di questi nuovi cittadini,
in particolare se nati in Italia. È questa la strada più
fruttuosa sotto tutti i punti di vista, economico e occupazionale
non meno che culturale e religioso. Ed è per questo
che il Dossier 2010 pone a tutti la domanda: e se mancasse,
in realtà, la cultura dell’altro?

I RIFERIMENTI STATISTICI FONDAMENTALI NEL 2009

I numeri fondamentali dell’immigrazione. All’inizio del
2010 l’Istat ha registrato 4 milioni e 235mila residenti stranieri,
ma, secondo la stima del Dossier, includendo tutte le
persone regolarmente soggiornanti seppure non ancora
iscritte in anagrafe, si arriva a 4 milioni e 919mila (1 immigrato
ogni 12 residenti). L’aumento dei residenti è stato di
circa 3 milioni di unità nel corso dell’ultimo decennio,
durante il quale la presenza straniera è pressoché triplicata,
e di quasi 1 milione nell’ultimo biennio.
Intanto, però, complice la fase di recessione, sono cresciute
anche le reazioni negative.
Gli italiani sembrano lontani, nella loro percezione, da un
adeguato inquadramento di questa realtà. Nella ricerca
Transatlantic Trends (2009) mediamente gli intervistati
hanno ritenuto che gli immigrati incidano per il 23% sulla
popolazione residente (sarebbero quindi circa 15 milioni,
tre volte di più rispetto alla loro effettiva consistenza) e che
i “clandestini” siano più numerosi dei migranti regolari
(mentre le stime accreditano un numero attorno al mezzo
milione). Su questa distorta percezione influiscono diversi
fattori, tra i quali anche l’appartenenza politica.
La Lombardia accoglie un quinto dei residenti stranieri
(982.225, 23,2%). Poco più di un decimo vive nel Lazio
(497.940, 11,8%), il cui livello viene quasi raggiunto da
altre due grandi regioni di immigrazione (Veneto 480.616,
11,3%) e Emilia Romagna (461.321, 10,9%), mentre il Piemonte
e la Toscana stanno un po’ al di sotto (rispettivamente
377.241, 8,9% e 338.746, 8,0%). Roma, che è stata
a lungo la provincia con il maggior numero di immigrati,
perde il primato rispetto a Milano (405.657 rispetto a
407.191).
L’incidenza media sulla popolazione residente è del 7%,
ma in Emilia Romagna, Lombardia e Umbria si va oltre il
10% e in alcune province anche oltre il 12% (Brescia, Mantova,
Piacenza, Reggio Emilia).
Le donne incidono mediamente per il 51,3%, con la
punta massima del 58,3% in Campania e del 63,5% a Oristano,
e quella più bassa in Lombardia (48,7%) e a Ragusa
(41,5%).
I nuovi nati da entrambi i genitori stranieri nel corso del
2009 sono 77.148 (21mila in Lombardia, 10mila nel Veneto
e in Emilia Romagna, 7mila in Piemonte e nel Lazio,
6mila in Toscana, almeno mille in tutte le altre regioni italiane,
fatta eccezione per il Molise, la Basilicata, la Calabria e
la Sardegna. Queste nascite incidono per il 13% su tutte le
nascite e per più del 20% in Emilia Romagna e Veneto. Se
si aggiungono altri 17.000 nati da madre straniera e padre
italiano, l’incidenza sul totale dei nati in Italia arriva al
16,5%. Il numero sarebbe ancora più alto se considerassimo
anche i figli di padre straniero e madre italiana, per
quanto tra le coppie miste prevalgono quelle in cui ad essere
di origine immigrata è la donna (nel 2008 erano 23.970
figli nati da coppie miste in Italia, 8 su 10 da padri italiani e
madri straniere).
Diversificata è anche l’incidenza dei minori, in tutto quasi
un milione (932.675): dalla media del 22% (tra la popolazione
totale la percentuale scende al 16,9%) si arriva al
24,5% in Lombardia e al 24,3% in Veneto, mentre il valore
è più basso in diverse regioni centro-meridionali, e segnatamente
nel Lazio e in Campania (17,4%) e Sardegna (17%).
Oltre un ottavo dei residenti stranieri (572.720, 13%) è
di seconda generazione, per lo più bambini e ragazzi nati
in Italia, nei confronti dei quali l’aggettivo “straniero” è del
tutto inappropriato, in quanto accomunati agli italiani dal
luogo di nascita, di residenza, dalla lingua, dal sistema formativo
e dal percorso di socializzazione. A differenza della
chiusura su altri aspetti, gli italiani sembrano essere più propensi
alla concessione della cittadinanza a chi nasce in Italia
seppure da genitori stranieri.
I figli degli immigrati iscritti a scuola sono 673.592 e incidono
per il 7,5% sulla popolazione scolastica. I dati mettono
in evidenza un ritardo scolastico tre volte più elevato
rispetto agli italiani, sottolineando la necessità di dispiegare
più risorse per il loro inserimento nel caso in cui giungano
per ricongiungimento familiare.
Nel 2009 l’apposito Comitato ha censito 6.587 minori
non accompagnati, dei quali 533 richiedenti asilo, provenienti
da 77 paesi (Marocco 15%, Egitto 14%, Albania
11%, Afghanistan 11%), in prevalenza maschi
(90%) e di età compresa tra i 15 e i 17 anni (88%). Tra i
di essi non sono più inclusi i romeni (almeno un terzo
del totale), che in quanto comunitari vengono presi in
carico dai servizi comunali. Non sempre, al raggiungimento
del 18° anno, le condizioni attualmente previste
(3 anni di permanenza e 2 anni di inserimento in un
percorso formativo) consentono di garantire loro un
permesso di soggiorno.

Gli aspetti economici dell’immigrazione. Gli immigrati
assicurano allo sviluppo dell’economia italiana un contributo
notevole: sono circa il 10% degli occupati come lavoratori
dipendenti, sono titolari del 3,5% delle imprese, incidono
per l’11,1% sul prodotto interno lordo (dato del
2008), pagano 7,5 miliardi di euro di contributi previdenziali,
dichiarano al fisco un imponibile di oltre 33 miliardi di
euro.
Il rapporto tra spese pubbliche sostenute per gli immigrati
e i contributi e le tasse da loro pagati (2.665.791 la stima
dei dichiaranti) va a vantaggio del sistema Italia, specialmente
se si tiene conto che le uscite, essendo aggiuntive a
strutture e personale già in forze, devono avere pesato di
meno.
Secondo le stime riportate nel Dossier le uscite sono state
valutate pari a circa 10 miliardi di euro: (9,95): 2,8 miliardi
per la sanità (2,4 per gli immigrati regolari, 400 milioni per
gli irregolari); 2,8 miliardi per la scuola, 450 milioni per i
servizi sociali comunali, 400 milioni per politiche abitative,
2 miliardi a carico del Ministero della Giustizia (tribunale e
carcere), 500 milioni a carico del Ministero dell’Interno
(Centri di identificazione ed espulsione e Centri di accoglienza),
400 milioni per prestazioni familiari e 600 milioni
per pensioni a carico dell’Inps.
Le entrate assicurate dagli immigrati, invece, si avvicinano
agli 11 miliardi di euro (10,827): 2,2 miliardi di tasse, 1
miliardo di Iva, 100 milioni per il rinnovo dei permessi di
soggiorno e per le pratiche di cittadinanza, 7,5 miliardi di
euro per contributi previdenziali. Va sottolineato che negli
anni 2000 il bilancio annuale dell’Inps è risultato costantemente
in attivo (è arrivato a 6,9 miliardi), anche grazie ai
contributi degli immigrati. Per ogni lavoratore, la cui retribuzione
media è di 12.000 euro, i contributi sono pari a
quasi 4.000 euro l’anno.
Nel 2008 le compravendite immobiliari sono state
78.000 (-24,3%). Nel periodo 2004-2009 sono stati quasi
700mila gli scambi immobiliari con almeno un protagonista
straniero, per un volume di oltre 75 mila miliardi di
euro. Ancora oggi il loro influsso è rilevante, anche se la
loro quota sui mutui è scesa dal 10,1% del 2006 al 6,6%
del 2009.
L’impatto positivo degli immigrati trova una significativa
conferma dal confronto dell’andamento pensionistico tra
gli immigrati e gli italiani. Sulla base dell’età pensionabile
si può stimare che nel quinquennio 2011-2015 chiederanno
la pensione circa 110mila stranieri, pari al 3,1% di
tutte le nuove richieste di pensionamento. Dai 15mila
pensionamenti nel 2010, pari al 2,2% di tutte le richieste,
si passerà ai 61mila nel 2025, pari a circa il 7%. Attualmente
è pensionato tra gli immigrati 1 ogni 30 residenti
e tra gli italiani 1 ogni 4. Nel 2025, i pensionati stranieri
saranno complessivamente circa 625mila (l’8% dei residenti
stranieri). A tale data, tra i cittadini stranieri vi sarà
circa 1 pensionato ogni 12 persone, mentre tra gli italiani
il rapporto sarà di circa 1 a 3.

Gli aspetti occupazionali dell’immigrazione. In tutta
Europa la crescita dell’occupazione è legata ai lavoratori
immigrati. Essi sono circa 17,8 milioni, dei quali circa 2
milioni in Italia. Nel 2008 è stato varato l’ultimo decreto
flussi per lavoratori dipendenti (150mila persone), mentre
nel 2009 è seguito un decreto flussi solo per gli stagionali
(80.000 unità), e infine nel mese di settembre 2009 è stata
approvata la regolarizzazione degli addetti al settore domestico
e di cura alla persona (295.000 domande presentate).
Secondo i dati Istat, nel 2009, un anno in cui l’occupazione
complessiva è diminuita di 527.000 unità, i lavoratori
stranieri occupati sono aumentati di 147mila unità, arrivando
a quota 1.898.000, con una incidenza dell’8,2% sul
totale degli occupati (nell’anno precedente l’incidenza era
del 7,5%). Il loro tasso di occupazione, rispetto al 2008, è
passato dal 67,1% al 64,5% (quello degli italiani è sceso al
56,9% dal 58,1%), mentre quello di disoccupazione è
aumentato dall’8,5% (media 2008) all’11,2% (per gli italiani
il cambiamento è stato dal 6,6% al 7,5%). Nel 2010,
ogni 10 nuovi disoccupati 3 sono immigrati e, tuttavia, il
fatto che svolgono mansioni umili ma essenziali è servito a
proteggerli da conseguenze più negative. Un mercato così
frastagliato spiega l’accostamento di dati abbastanza disparati:
aumento degli occupati immigrati (147.000), ma
anche dei disoccupati a seguito della crisi (77.000 in più) e
degli inattivi (aumentati di 113.000 unità).
Inoltre, tra i lavoratori immigrati è più elevata la percentuale
dei non qualificati (36%), molto spesso perché sottoinquadrati
(il 41,7% rispetto alla media del 18%). Il sottoinquadramento
non diminuisce in modo significativo
anche quando si risiede da molti anni in Italia. Rilevante
anche la quota dei sottoutilizzati (il 10,7% rispetto alla
media del 4,1%). Inoltre, 4 stranieri su 10 lavorano in orari
disagiati (di sera, di notte, di domenica).
La retribuzione netta mensile degli immigrati nel 2009 è
stata di 971 euro per gli stranieri e 1.258 euro per gli italiani
(media di 1.231 euro), con una differenza a sfavore degli
immigrati del 23%, di ulteriori 5 punti più alta per le donne
straniere.
L’archivio dell’Inail (che sovrastima la presenza straniera
di circa 1 milione di unità in quanto include anche gli italiani
nati all’estero) consente di ripartire gli occupati anche
per continente di origine: Europa 59,2%, Africa 16,8%,
Asia 13,3%, America 9,8%, Oceania 0,3% (0,5 non attribuiti).
Più in particolare, i lavoratori comunitari sono oltre
un terzo (36,3%) e i nordafricani un decimo dell’intera
forza lavoro (11,1%).
I saldi occupazionali (differenza tra i lavoratori assunti e
licenziati nell’anno) attestano l’andamento negativo di questa
fase occupazionale (98.033 nel 2007, 34.207 nel 2008,
14.096 nel 2009).
Al 31 maggio 2010 sono risultate iscritte 213.267 imprese
con titolare straniero, 25.801 in più rispetto allo stesso
periodo dell’anno precedente, un aumento che attesta la
dinamicità del settore anche in periodo di crisi; in particolare,
nei primi cinque mesi del 2010 le imprese sono aumentate
al ritmo del 13,8%, e a ritmi ancora superiori in Toscana
e nel Lazio. Queste imprese incidono, come precisato,
per il 3,5% su tutte le imprese operanti in Italia e per il
7,2% su quelle artigiane. È molto dinamico anche il settore
delle imprese cooperative (69.439 soci), sia di produzione
che di consumo. Se, oltre che dei titolari e dei soci, si tiene conto degli amministratori (87.485), delle altre funzioni
societarie (18.622) e di 131 figure la cui funzione non è
stata classificata, si arriva a un totale di 388.944 posizioni
lavorative e a un complesso occupazionale che include
oltre mezzo milione di posizioni, tenendo conto anche dei
lavoratori dipendenti.

Tra demografia, intercultura e contrasto della irregolarità.
Gli immigrati assicurano un valido sostegno demografico
all’Italia. Tra la popolazione residente in Italia, tra il
2000 e il 2009 sono aumentate di 2 milioni le persone con
più di 65 anni, di solo 1 milione quelle in età lavorativa e
neppure di mezzo milione quelle con meno di 14 anni.
L’età media è salita da 31,5 a 43,3 anni. Gli ultrasessantacinquenni
sono il 2,2% tra gli stranieri e il 20,2% tra l’insieme
della popolazione residente. Il tasso di fecondità è di
1,33 per le donne italiane e di 2,05 per le donne straniere
(media 1,41).
I matrimoni celebrati in Italia sono scesi dai 418.4944 del
1972 al 246.613 del 2008, con una diminuzione specialmente
dei primi matrimoni, un aumento delle seconde
nozze (un sesto del totale) e dell’età media degli sposi (30
anni per le donne e 33 anni per gli uomini). Nel periodo
1996-2008 sono stati celebrati 236.405 matrimoni misti.
Nel 1995 erano misti solo 2 matrimoni su 100, ora sono 10
su 100 e non risulta statisticamente fondata l’idea che falliscano
con molta più facilità del resto delle unioni. Nel 2008
su 100 matrimoni, 15 riguardano almeno un coniuge straniero
e di questi 5 riguardano due
sposi stranieri.
Secondo i dati dell’Unar gli atti di
discriminazione, non solo in ambito
lavorativo, colpiscono maggiormente
gli africani, i romeni, i cinesi, i marocchini,
i bangladesi. Ricordiamo, per
esempio, che alcune compagnie di
assicurazione praticano agli immigrati
polizze RC auto più costose per il
cosiddetto “rischio etnico”.
La regolarizzazione di settembre
2009 (quasi 300mila domande) ha
consentito di abbassare il livello della
irregolarità, anche se il provvedimento,
limitato (ufficialmente) al settore
familiare, ha avuto una efficacia parziale,
per quanto non trascurabile,
soprattutto in ragione del limite di
reddito previsto (20 mila euro), limite
che è stato superato mediamente nel
2008 solo da due regioni, oltre che
per il fatto che l’assunzione, per un
minimo 20 ore, è stata riferita a un
solo datore di lavoro; non stupisce
quindi che, secondo il Censis (luglio
2010), 2 addette su 5 nel settore
domestico lavorerebbero ancora in
nero.
Nel 2009 sono stati registrati 4.298
respingimenti e 14.063 rimpatri forzati,
per un totale di 18.361 persone allontanate. Le persone
rintracciate in posizione irregolare, ma non ottemperanti
all’intimazione di lasciare il territorio italiano, sono state
34.462. Il rapporto tra persone intercettate e persone rimpatriate
è andato diminuendo nel corso degli anni (dal
57% nel 2004 al 35% nel 2009). Le persone trattenute nei
centri di identificazione e di espulsione sono state 10.913,
tra le quali anche diverse persone già ristrette in carcere,
dove non era stata accertata la loro identità. Nell’insieme il
58,4% non è stato rimpatriato.
L’Italia è anche uno snodo e meta forzata per donne,
uomini e minori, vittime della tratta a fini di sfruttamento
sessuale e, sempre più spesso, lavorativo (soprattutto in
agricoltura), che si cerca di contrastare anche con la concessione
del permesso di soggiorno per protezione sociale
(810 permessi) e con l’intervento del Fondo Europeo per i
Rimpatri. Nel corso del 2009 sono stati aperti 212 procedimenti
per reati di tratta e si sente l’esigenza di contrastare
maggiormente questo fenomeno in crescita.
La ricerca Transatlantic Trends. Immigrazione 2009 ha
posto in evidenza che metà dei nordamericani e degli europei,
italiani compresi, vedono l’immigrazione come un problema.
Si può inquadrare in questo modo una realtà della
quale si ha bisogno? Dalla “sindrome dell’invasione” bisogna
passare alla mentalità dell’incontro e del dialogo.

Scarica i materiali:
Dossier 2010 – Scheda

Dossier 2010 – Introduzione