Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 31 luglio 2007

E Don Cesare viaggia con la scorta dello Stato

Cinzia Gubbini

Condannato per aver pestato alcuni maghrebini rinchiusi nel centro di permanenza temporanea che dirigeva, il Regina Pacis di San Foca a Lecce. Rinviato a giudizio per diversi reati. Il più grave: aver costretto alcune ragazze straniere ricoverate nel centro in base all’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione – quello che offre protezione alle ex prostitute disposte a collaborare con la giustizia – a lavorare otto ore al giorno per 25 euro in una fabbrica di mobili di Carmiano, la «Soft Style».
Pena il divieto di uscire dal centro. Quelle ragazze venivano anche picchiate, accusa il pm Imerio Tramis della Procura di Lecce, e ad alcune di loro è stato addirittura strappato il permesso di soggiorno. Il processo si chiude il 21 settembre.
Don Cesare Lodeserto continua a frequentare aule di tribunale. E a far discutere. L’ultima denuncia sul conto dell’ex direttore del Regina Pacis arriva dal giornalista Stefano Mencherini, che da anni ormai lo segue passo passo. E si chiede: ma è possibile che abbia ancora la scorta pagata dallo Stato? In effetti don Cesare la scorta ce l’ha. Come se fosse una «alta personalità italiana o estera» sottoposta a pericoli o minacce «di natura terroristica o correlati al crimine organizzato, al traffico di sostanze stupefacenti, di armi o parti di esse, anche nucleari, di materiale radioattivo e di aggressivi chimici e biologici o correlati ad attività di intelligence di soggetti od organizzazioni estere», come stabilisce la legge 133 del 2002, quella varata dopo le polemiche sulla scorta tolta al giuslavorista Marco Biagi ammazzato dalle Br.
Per ora le uniche minacce provate contro il prete di Lecce riguardano una telefonata effettuata da Salvatore Signore, trentaquattro anni, il 15 novembre del 2003. Al telefono diceva «non dovete dormire tranquilli, bastardi!».
Minaccia ricevuta da Lodeserto e dai due medici del centro. Signore fa parte del gruppo di tredici persone, appartenenti a un gruppo anarchico, contro cui si è svolto un processo durato due anni. Le accuse riguardavano alcune azioni minatorie: scritte sui muri di Lecce («Liberate gli immigrati dai lager subito -Ruppi e Lodeserto canaglie criminali- pagherete tutto pagherete caro»), telefonate di minaccia, manifestazioni non autorizzate di fronte al cpt.
Un po’ più serie le accuse riguardanti due attentati incendiari al Duomo di Lecce e contro i bancomat di Banca Intesa, accusata di finanziare il cpt. Reati – dalle telefonate alle bottiglie incendiarie – per i quali il pm aveva ipotizzato il reato di «eversione dell’ordine democratico». Cinque di loro si sono fatti più di un anno di carcere preventivo. L’accusa di eversione è caduta in sede di giudizio – il 12 luglio scorso – nonostante gli imputati siano stati condannati per alcuni dei reati contestati (ma non per l’attentato incendiario al Duomo). Per le telefonate Signore dovrà risarcire sia i medici che Lodeserto. Tuttavia l’avvocato che difendeva alcuni degli anarchici imputati si ritiene molto soddisfatto: «Era la prima volta che per fatti così lievi veniva ipotizzata l’associazione eversiva – spiega Marcello Petrelli – considerando che tale aggravante veniva contestata per ogni singolo reato, comprese le scritte sui muri.
Inoltre la maggior parte delle persone accusate è stata completamente prosciolta. E, in finale, don Cesare è stato riconosciuto vittima di una minaccia, sì. Ma telefonica».
Sia chiaro, per una telefonata a don Cesare si dà la scorta. Anzi, anche per un sms. E’ con questa scusa che il prete ricevette l’assicurazione di non perdere la sua personale protezione nel 2001. Ma conviene partire dall’inizio. Lodeserto diventa un personaggio sotto tutela dello Stato nel marzo del 2000. Lo decide – come da norma – il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Il motivo? «Il centro di accoglienza Regina Pacis di San Foca e il suo direttore, don Cesare Lodeserto, potrebbero essere finiti nel mirino della malavita italoalbanese per aver intaccato gli interessi del sodalizio criminoso», batte l’Ansa il 26 marzo del 2000. Pochi giorni prima una ragazza moldava ospite nel centro e sottoposta alle misure per l’articolo 18 era stata sequestrata da due albanesi «mentre faceva una passeggiata». I due vennero arrestati e il centro dotato di maggiori controlli. A don Cesare fu assegnata una scorta che, da allora, lo segue in tutti i suoi spostamenti.
Quasi un anno dopo, il 5 febbraio del 2001, un’altra brutta avventura per il nostro. Questa volta è lui ad essere sequestrato. Un «sequestro lampo» che lo stesso sacerdote racconta così all’Ansa: «Mi hanno sorpreso mentre, come di consuetudine ogni sera, facevo da solo una passeggiata sulla scogliera per un momento di raccoglimento». Si tratta, spiega, con molta probabilità di due albanesi che, pistola in pugno, gli hanno spiegato con chiarezza che avrebbe dovuto smetterla di «recuperare» le ragazze moldave. I due malfattori si allontanano quando sentono le voci dei carabinieri di guardia al centro che cercano il prete.
Senonché, pochi mesi dopo – il 9 agosto del 2001 – Lodeserto riceve il suo primo avviso di garanzia: è indagato per il dirottamento di diverse migliaia di euro devoluti al Regina Pacis dalla diocesi di Lecce. E’ in questo contesto che maturano le condizioni per revocargli la protezione. Ma sul telefonino del sacerdote arriva un sms: «Sei morto». La scorta viene riconfermata. Quattro anni dopo, il 23 maggio 2005, don Cesare viene condannato a otto mesi (pena sospesa) per simulazione di reato: il messaggio partiva dalla stessa area del cpt di San Foca. Insomma, per il giudice è stato lui ad autominacciarsi.
Due mesi dopo arriva un’altra condanna. Questa volta a 1 anno e 4 mesi (di nuovo pena sospesa) per il pestaggio di otto «ospiti» del centro che avevano tentato la fuga. E’ il primo duro colpo all’immagine del «prete di frontiera». Si parla di nuovo della possibilità di revocargli la scorta. Ma alla fine di quell’anno inizia il processo contro gli anarchici, accusati di mettere in pericolo la vita di don Cesare. La scorta resta.
Nonostante le condanne e un nuovo processo pendente, Lodeserto continua a suscitare entusiasmi. Il suo lavoro sull’immigrazione non si è fermato, anzi. Ora che il centro di permanenza è stato chiuso – in seguito ai processi – il suo lavoro continua. Oltre frontiera.
Don Cesare ha aperto centri non soltanto in Moldavia, ma anche in Ucraina, in Romania, addirittura in Transnistria, ultimo stato comunista d’Europa dichiaratosi indipendente dalla Moldavia e non riconosciuto da nessun paese o organismo internazionale. La Fondazione Regina Pacis è l’unica realtà italiana ad essere accreditata e a lavorare in quel territorio. Esempio supremo della capacità diplomatica del prete di Lecce, che durante la sua carriera ha ammaliato tutti, a destra e a sinistra. Le coperture e gli appoggi di cui gode lasciano di stucco.
Nel ’96, durante i primi sbarchi degli albanesi in Puglia, Lodeserto va a braccetto con Massimo D’Alema. E’ lodato dall’allora sindaca di An Adriana Poli Bortone. E’ sotto l’incondizionata protezione, ancora oggi, dell’arcivescovo di Lecce Cosmo Francesco Ruppi che, quando don Cesare finisce agli arresti domiciliari, tuona: «Immotivato e assurdo». Ma è nella sua città che continua a godere di una fiducia incondizionata. E’ di pochi giorni fa l’ultima polemica: don Cesare era stato invitato a tenere una lezione sulla cooperazione internazionale all’università del Salento. Solo alcune interrogazioni parlamentari hanno bloccato la sua comparsa. Perché Lodeserto, ovviamente, aveva accettato senza battere ciglio.
Lui delle polemiche sulla sua scorta non vuole sentir parlare. Al telefono, appena tornato dalla Moldavia, spiega: «Sono cose su cui decide la prefettura. Ci sono aspetti che non sono di dominio pubblico. E io ho solo bisogno di vivere in santa pace». Ma non in modo ritirato: «Faccio quello che ho sempre fatto, realizzo progetti, il resto sono solo parole. Io ho tanta serenità interiore». Don Cesare continua, insomma, a essere un personaggio esposto. Di abbandonare un campo, quello dell’immigrazione, per il quale realizzerà anche «progetti» ma nell’ambito del quale ha ricevuto condanne pesanti, non ci pensa nemmeno. E quindi, per permettergli di fare ciò che più gli piace, viene protetto dallo Stato. Tutto sommato, viene da pensare, potrebbe pagarsi una scorta privata.
Ultima notazione: nel processo che si chiude il 21 settembre, e per il quale don Cesare ha chiesto il rito abbreviato, è imputato anche uno dei poliziotti della sua scorta. Si tratta di Vito Calò: sarebbe stato lui a verbalizzare le accuse contro un medico del centro, Vincenzo Refolo, che pochi giorni dopo avrebbe testimoniato contro don Cesare al processo sul pestaggio dei maghrebini. Secondo le accuse, il sacerdote costrinse la fidanzata del medico – una donna straniera rinchiusa nel centro – a denunciare per violenza sessuale Refolo. A verbalizzare e poi a rassicurare il prete c’era lui, Calò. L’uomo della scorta. Che a quanto pare lo protegge, in ogni situazione.