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da Il Manifesto del 26 giugno 2003

Ecco l’«accoglienza» ai segregati di Trapani di Alfredo Pecoraro

Pantaloni larghi, scarpe da ginnastica, il volto da bambino. Amin Kissri si fa largo fra un gruppo di poliziotti e carabinieri. Si toglie la maglietta e mostra i segni sul corpo. «Mi hanno massacrato, guardate». Dice di essere fuggito dal Marocco 25 giorni fa e di essersi imbarcato in una delle tante carrette della speranza che navigano nelle acque di Sicilia. Per arrivare a Pantelleria ha pagato mille dinari agli scafisti. Da allora è rinchiuso al Serraino Vulpitta, il centro di permanenza temporanea (Ctp) di Trapani. Due giorni fa Kissri ha tentato la fuga, mentre giocava a pallone con gli altri immigrati clandestini, settanta persone ammassate dentro le stanze, alcuni in gruppi di 15, altri costretti a dormire su un materasso poggiato sul pavimento. Kissri ha scavalcato il muro di cinta del centro ed è saltato giù da una palazzina diroccata. L’hanno beccato subito i poliziotti che sorvegliavano l’esterno della struttura. «Mi hanno dato botte fuori e dentro il centro», racconta, mostrando le ferite. Due grossi lividi sugli zigomi, graffi sulla gola, ecchimosi sui polsi, segno delle manette. «Erano in quattro o in cinque – dice in perfetto francese – Mi hanno dato calci e pugni e mi hanno rotto anche un dente». Kissri si volta. Ha le spalle tumefatte, con un grosso livido sulla schiena. Una ferita lunga 15 centimetri e larga 3 centimetri. «Sono stati i bastoni della polizia». Nicolò D’Angelo lo ascolta e chiama subito in Questura. «Se c’è una denuncia – dice il responsabile del centro immigrati di Trapani – dobbiamo fare una controdenuncia». Pare che due poliziotti siano rimasti feriti mentre tentavano di bloccare Kissri, uno si sarebbe fratturato un braccio.

Santo Liotta prende appunti, osserva. «Tra poco incontrerò il questore – avverte – chiederò spiegazioni di quanto ho ascoltato e visto». E’ la seconda ispezione al Vulpitta del deputato regionale di Rifondazione comunista. In questo centro che sembra un carcere, Liotta c’era stato un mese fa, con in tasca l’autorizzazione della prefettura. In otto compongono la delegazione, soprattutto giornalisti. Quando entriamo Kissri non c’è. Sappiano che aveva tentato la fuga. Chiediamo di parlare con lui. Il ragazzo è stato portato all’ufficio volanti, arriva dopo due ore. Prima di lui a raccontare di botte e percosse è Harfi Karim, 23 anni, algerino. «Mi hanno picchiato – grida di fronte a poliziotti e carabinieri – Volevo solo prendere un po’ d’aria e parlare con un lavorante. Invece sono entrati nella cella e mi hanno malmenato». Karim non ha segni di percosse. «Non ce li ho – spiega – perché sanno bene come colpire senza lasciare tracce». Poi mostra tre tagli sul braccio, due ricuciti, uno fresco di lama recuperata staccando un pezzo di ferro. «So che se reagisco a un carabiniere vengo punito, e allora mi sfogo tagliandomi – aggiunge – qui non ti dà retta nessuno, quando chiedi qualcosa ti prendono a parolacce».

Al Vulpitta il regolamento dice che possono essere «ospitati» un massimo di 54 clandestini. Invece ce ne sono 70. Vivono in celle, alcune anche con 15 letti. Ogni stanza è separata dal corridoio con delle sbarre di ferro, dove i «clandestini» in attesa di essere espulsi dall’Italia appendono asciugamani, mutande e calzini. Non ci cono finestre, ma delle grate ferrate alte circa due metri e larghe almeno un metro e mezzo. Una parte del reparto è controllata dalla polizia, l’altra dai carabinieri.

Abdallah Fathi, 24 anni, è rinchiuso qui dentro da una settimana, dopo essere sbarcato a Mazara del Vallo con altri otto uomini, provenienti dal Marocco. Cinquecento euro il prezzo del viaggio della speranza, conclusosi dietro le sbarre e con la prospettiva di essere liberato dopo 60 giorni, il tempo concesso dalla legge Bossi-Fini per accertare la provenienza dei clandestini. Chi è identificato viene accompagnato alle frontiere ed espulso, ma solo dopo aver ottenuto i documenti di viaggio dal paese di provenienza. Agli altri toccherà il foglio di via e l’obbligo a lasciare il paese entro cinque giorni.

Assieme ad altri 5 immigrati, Fathi venerdì scorso ha tentato di evadere dal Vulpitta, ma non ce l’ha fatta. «Dormo su un materasso per terra – racconta – non posso telefonare e poi ho bisogno di essere operato». Su tutta la schiena e sulle braccia Fathi ha i segni di un’ustione che l’ha sfigurato quando aveva solo due anni. «Ho una laurea in ingegneria informatica» – dice. «Ho lasciato il mio paese perché la mia famiglia non aveva i soldi per pagarmi le operazioni, così ho creduto di venire in Italia per lavorare, e invece mi trovo rinchiuso in un carcere. Quando esco parto per la Francia dove mi aspetta la mia fidanzata».

C’è chi è scappato dalla guerra come l’algerino Asdila Samar di 30 anni, chi come Faysal Ben Barka (30 anni) saprà in cella se ha passato l’esame di scuola media inferiore, chi come Abbas Samir, da 35 giorni al Vulpitta, ha ottenuto un po’ d’aria in più per alleggerire i suoi problemi di claustrofobia e chi ha pagato 20mila euro per fuggire dallo Sri Lanka, come Mahamalage Samantha (30 anni) e sua moglie Katunayakage Nishani (29 anni). Nishani lavora a Siracusa; Samantha invece, appena scadranno i 60 giorni, probabilmente sarà rimpatriato.

Alcuni di loro potrebbero essere trasferiti in un reparto della nuova struttura che sta per sorgere a Salina Grande, a pochi chilometri da Trapani. «Sarà un centro di prima accoglienza – dice Santo Liotta – dove saranno condotti gli immigrati che chiedono asilo politico, mentre i clandestini saranno rinchiusi in un reparto attiguo».

Qualcosa dopo la prima ispezione è cambiata. «Abbiamo aiutato alcuni immigrati a ottenere piccole cose, come un po’ d’aria in più, una visita medica, un piatto di insalata» – sottolinea Liotta. «Torneremo al Vulpitta in luglio e poi di nuovo a settembre, con la speranza di trovare condizioni migliori di trattamento per queste persone. Ma il problema vero rimane la legge, che così com’è non funziona».