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Eritrei, cartelli e slogan a Lampedusa. “Siamo rifugiati, niente impronte”

Di Giacomo Zandonini, Redattore Sociale

Foto di Askavusa Lampedusa

ROMA – Circa 250 persone hanno sfilato questa mattina per le vie di Lampedusa, impugnando cartelli e scandendo slogan. Uno fra tutti: “freedom, freedom”. Si tratta in gran parte di cittadini eritrei, presenti sull’isola da almeno due settimane – le ultime persone sono sbarcate il 4 dicembre – e trattenuti presso il Centro di Primo Soccorso e Accoglienza di Contrada Embriacola, a pochi chilometri dal porto. A innescare la protesta, secondo fonti locali, la richiesta, arrivata ieri mattina da parte delle forze dell’ordine, di raccogliere le impronte digitali delle persone.

“Dobbiamo muoverci”, “siamo rifugiati, niente impronte”, recitano i cartelli. Minori, donne, uomini, intere famiglie hanno raggiunto alle prime ore del giorno il centro storico e la sede del Comune, per poi rientrare nel Cpsa, senza intralciare la vita quotidiana dell’isola. Oltre al corteo, spiegano alcuni operatori sociali presenti, molti dei manifestanti hanno indetto uno sciopero della fame totale, da revocare solo quando saranno lasciati liberi di partire. Un’ipotesi difficile, dopo i recenti richiami dell’Unione Europea all’Italia perché conduca in modo rigoroso, e se necessario con l’uso della forza, le procedure di identificazione di tutti i migranti sbarcati.

A lasciare l’isola sono invece, paradossalmente, tutte quelle persone che, in base alle nuove procedure di identificazione, introdotte a fine settembre, sono giudicate come “migranti economici” e ricevono dunque un provvedimento di respingimento, a cui ottemperare in sette giorni.

Centinaia di persone, provenienti soprattutto dall’Africa occidentale, che rischiano di finire in circuiti di clandestinità e sfruttamento. Per eritrei e siriani è invece previsto il meccanismo di “relocation” verso altri stati europei, secondo cui, a una prima identificazione, dovrebbe seguire il trasferimento verso i paesi di destinazione.

Un sistema inceppatosi di fronte alla sfiducia dei migranti e all’impossibilità di determinare in anticipo il paese di arrivo. Unico obiettivo dei 200 eritrei e dei pochi siriani scesi in strada a Lampedusa, secondo quanto riferiscono gli operatori sul posto, è infatti poter raggiungere parenti, amici e conoscenti in Germania e nell’Europa del nord, e la “relocation” non offre garanzie in merito. Chi entra nel programma può infatti esprimere una preferenza ma, salvo legami famigliari diretti, potrebbe essere poi trasferito in paesi diversi. La lentezza delle procedure, bloccate dopo gli attentati di Parigi, pare essere fonte di preoccupazione ulteriore per chi, sbarcato dopo viaggi lunghi ed estenuanti, cerca di raggiungere rapidamente una meta sicura.

Altro elemento di frustrazione è quello dei tempi di permanenza nel Cpsa. Alcuni dei migranti, riferisce la ricercatrice Martina Tazzioli, presente sull’isola, “dicono di essere nel centro dal 5 novembre, mentre a norma di legge il trattenimento non può superare le 72 ore”. Soggetti vulnerabili, come vittime di tratta e tortura, minori e donne incinta, dovrebbero essere poi ospitati in altre strutture di prima accoglienza. Fra i manifestanti, anche alcuni sudanesi e somali che, pur non rientrando nelle quote per i ricollocamenti, chiedono di evitare l’identificazione per poter raggiungere altri paesi senza rischiare un rinvio in Italia, a norma del regolamento di Dublino.
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Fotografie di Askavusa Lampedusa